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venerdì 14 ottobre 2022

LA SMENTITA DI UNA ILLUSIONE


 - di Giuseppe Savagnone*

 

L’elezione del presidente del Senato, primo atto ufficiale del nuovo Parlamento, avrebbe dovuto inaugurare la nuova stagione politica promessa in campagna elettorale dalla Destra. Finalmente un governo stabile, sulla base di un programma chiaro e condiviso, col sostegno di una netta maggioranza che i sondaggi preannunciavano e che le urne hanno poi confermato.

Non c’era bisogno di essere maghi, e neppure politologi professionisti, per capire che dietro questa oleografia di facciata c’erano dei problemi di fondo, che la legittima scelta tattica dei partiti alleati di unire i loro voti, per vincere le elezioni, portava a mettere in secondo piano o addirittura a negare. E i problemi sono puntualmente esplosi, prima ancora che il governo si sia formato, già nelle difficili trattative per la scelta dei ministri e poi, clamorosamente, in questa solenne giornata di apertura dei lavori parlamentari.

I fatti sono noti. In aula, i senatori di Forza Italia, tranne Berlusconi e la Casellati, si sono rifiutati di votare per il candidato della Destra alla presidenza del Senato, Ignazio La Russa, co-fondatore di Fratelli d’Italia. Il quale, però, è stato ugualmente eletto, grazie al voto decisivo di diciassette senatori dell’opposizione che, nel segreto dell’urna, hanno indicato il suo nome, contravvenendo alle prese di posizione ufficiali dei rispettivi partiti.

Un duplice colpo di scena, a cui va aggiunto un pizzico di “giallo” per il fatto che questi invisibili sostenitori, che il neopresidente eletto ha ufficialmente ringraziato (deve a loro la sua elezione), rimangono tuttora senza nome. Nessuno – e si tratta di ben diciassette persone su duecento senatori! – ammette di avere contravvenuto alla linea ufficiale del proprio partito e di avere prestato questo inatteso soccorso alla maggioranza claudicante.

Interpretazioni a confronto

Questo è ciò che avvenuto. Resta il problema di interpretarlo. Fino a un certo punto, anche a questo livello non ci sono dubbi né divergenze. Tutti concordano sul fatto che l’astensione di Forza Italia sia stata la risposta di Berlusconi al netto rifiuto, da parte di Giorgia Meloni, di esaudire le sue richieste riguardo l’attribuzione dei ministeri e la nomina dei nuovi ministri.

Per quanto riguarda il primo punto, il cavaliere rivendicava per il suo partito, senza successo, la poltrona che più direttamente riguarda i suoi interessi, e cioè quella del ministero della Giustizia. Sul secondo punto il contrasto con la premier in pectore verteva sul nome dei Licia Ronzulli, l’ex infermiera divenuta in questi ultimi anni l’ombra di Berlusconi e la sua più fedele consigliera. Il cavaliere la voleva a guidare un ministero importante, possibilmente quello della Salute, mentre la Meloni non la riteneva all’altezza del governo di alto profilo che lei intende guidare.

Da qui la risposta data da Forza Italia in aula a palazzo Madama: «Abbiamo voluto dare un segnale che non si devono dare i veti su persone», ha detto Berlusconi commentando l’accaduto. Fin qui tutto chiaro. Da questo punto in poi le interpretazioni divergono. Secondo quella data dallo stesso Berlusconi, all’uscita dall’aula, l’intento dell’astensione non era di impedire l’elezione di La Russa: «Avevamo fatto tutti i calcoli che sarebbe stato votato lo stesso».

Accettando questa versione, qualche commentatore è arrivato a sostenere che si deve proprio ad un diretto intervento del cavaliere il voto favorevole dei diciassette rappresentanti dell’opposizione, che sarebbero stati da lui stesso contattati in precedenza segretamente. Si sarebbe trattato, insomma, di un’azione puramente dimostrativa, i cui effetti erano stati in anticipo neutralizzati. Difficile, francamente, prendere per buona questa lettura.

Più plausibile sembra quella degli opinionisti che vedono nell’episodio un tentativo fallito di ricattare la Meloni, costringendola a cambiare posizione sulle scelte dei ministri. L’appoggio dei diciassette “franchi tiratori”, secondo quest’altra interpretazione, non solo non sarebbe stato voluto da Berlusconi, ma avrebbe costituito per lui un grosso smacco, evidenziando l’irrilevanza dei voti del suo partito e consentendo alla leader di Fratelli d’Italia di ottenere quello che voleva senza cedere di un millimetro sul governo.

E sulla vittoria di Giorgia Meloni si concentrano i commenti dei suoi fedelissimi, che sottolineano il risultato storico costituito dall’ascesa alla seconda carica dello Stato di un rappresentante dell’estrema destra. Cercando così, però, di far restare in ombra il risvolto forse più inquietante di questa vicenda, che è la fragilità della nuova maggioranza. La si era presentata come una corazzata destinata a navigare sicura per i prossimi cinque anni della legislatura, e invece, alla prima prova, ha imbarcato acqua al punto che sarebbe affondata senza un soccorso esterno. Che poi , come dicono alcuni – questa è un’ulteriore sfumatura interpretativa – , la Meloni si aspettasse tale soccorso non cambia nulla alla imbarazzante fragilità di un esecutivo che deve sperare, per farsi valere, su transfughi (per giunta anonimi) dell’opposizione.

Tutti contro tutti

E siamo appena all’inizio. Se il buon giorno di vede al mattino, quella che il nostro Paese si accinge a vivere non è una stagione politica rassicurante. E non solo per la debolezza del futuro governo. Dopo tanti vituperi al precedente Parlamento, accusato di non aver rispettato la volontà popolare e di aver dato luogo a governi di segno contrastante, il nuovo si è aperto all’insegna del più classico degli inciuci, quello di parlamentari che approfittano del voto segreto per fare il doppio gioco.

Questo coinvolge innanzi tutto, ovviamente, l’opposizione. Anche se non è facile capire come sia stato possibile che un numero così rilevante di parlamentari si sia potuto discostare dalla linea dei rispettivi partiti restando nella segretezza. Berlusconi e altri hanno fatto il nome del gruppo di Renzi, ma è formato da solo quattro senatori. Altri hanno accusato della rottura del fronte delle sinistre i 5stelle, che avevano appena denunziato una manovra del PD per escluderli dalle cariche di vicepresidenti nelle due Camere, ma gli interessati respingono con sdegno al mittente le accuse.

 Sta di fatto che, anche all’interno della sinistra il “giallo” dell’elezione del presidente del Senato ha evidenziato ed esasperato le divisioni (dentro questo campo già apertamente dichiarate), contribuendo a quel clima di “tutti contro tutti” che è esattamente il contrario di ciò che questo difficilissimo momento della vita nazionale richiederebbe.

Il problema è che non bastano nuove elezioni per cambiare una classe politica. I difetti di fondo denunciati ieri ed esibiti per invocarle, come una miracolosa medicina in grado di superarli, sono in realtà ancora davanti ai nostri occhi. Una vera “conversione” può venire solo da un ben più profondo rinnovamento culturale, che non può riguardare solo i rappresentanti, ma deve cominciare già dalla base, dai rappresentati, liberandoli dalle illusioni di un superficiale populismo che se la prende con i potenti di turno per spodestarli e sostituirli, ricadendo poi nelle stesse logiche.

Diceva Charles Péguy che «la rivoluzione sociale sarà morale o non sarà». Non basta, per un vero cambiamento, un avvicendamento al potere. Qui ci vuole un’altra visione della politica, ritornando a quel primato del bene comune – un valore etico e al tempo stesso politico – che la Seconda Repubblica ha sistematicamente ignorato e che, in questi suoi ultimi sviluppi, non sembra destinato ad avere maggiore peso che nel recente passato. E per questo non basta sostituire il presidente del Consiglio e i ministri, non basta neppure eleggere nuovi parlamentari. Ci vogliono logiche nuove, frutto di una nuova mentalità che bisogna costruire. A questo futuro, che ancora non si vede, ma che non un un’utopia, dobbiamo tutti lavorare.

 * Pastorale della Cultura Diocesi di Palermo

www.tuttavia.eu

 

 


sabato 1 ottobre 2022

IL GIORNO DOPO


LE INCOGNITE

 - di Giuseppe Savagnone*

I problemi del PD

Le elezioni di domenica scorsa dovevano dare delle risposte e invece hanno aperto delle nuove domande. Quella che rimbalza più di frequente in questi giorni sulla stampa riguarda l’identità del PD, che esce da questo voto sconfitto e confuso. Sui risultati deludenti hanno pesato certamente degli errori a livello tattico, ascrivibili alla incapacità, da parte di Enrico Letta, di gestire saggiamente i rapporti con gli altri partiti della sinistra – primo fra tutti i 5stelle – , dando luogo così a un suicidio elettorale largamente annunciato.

Tutti però si stanno rendendo conto che c’è, a monte, un problema di ordine strategico, che non si può risolvere con le dimissioni del segretario e che non riguarda le occasionali alleanze elettorali, ma l’identità stessa del partito.

Sta di fatto che da tempo, ormai, il soggetto politico che sulla carta avrebbe dovuto essere il portavoce delle fasce più deboli e svantaggiate della popolazione, lo strenuo sostenitore della lotta contro tutti i privilegi e le ingiustizie sociali, sembra avere ripiegato su altre battaglie. Battaglie come quella relativa alla questione del gender e del fine vita, che appassionano i salotti borghesi, ma non interessano affatto i 5 milioni e mezzo di persone che versano in una condizione di povertà assoluta e lasciano abbastanza indifferenti anche quelle ampie fasce di lavoratori che vedono sempre più minacciato il loro tenore di vita dal rincaro delle bollette e dalla crescente inflazione.

Per questo, contrariamente alle miopi previsioni del gruppo dirigente dem, che credeva di poter assorbire il voto dei 5stelle, Conte ha potuto operare in extremis una forte rimonta proprio puntando sul disagio sociale ed economico di larghe frange e della popolazione, soprattutto del sud, che vedono nel reddito di cittadinanza un salvagente, discutibile quanto si vuole, ma concreto, che permette alle famiglie di arrivare alla fine del mese. Da qui la netta percezione che la vera sinistra non sia più rappresentata dal PD.

Possibili prospettive

C’è chi trae da questa situazione una indicazione positiva per il futuro del partito e vede in un suo spostamento verso il centro – attualmente occupato da Calenda e Renzi – una prospettiva da prendere in serio esame. Ciò naturalmente comporterebbe una rottura dell’alleanza con «Sinistra italiana» di Fratoianni, che sinora ha rappresentato la copertura a sinistra della politica dei dem.

Al tempo stesso, però, c’è un’anima del partito democratico che continua a coltivare, astrattamente, la nostalgia di un ritorno alle lotte sociali e che spera – magari riprendendo il dialogo con i 5stelle – di riportare il PD a sottolineare almeno alcuni aspetti della sua originaria anima socialista e di rappresentare adeguatamente una versione non populista della sinistra.

Una soluzione che dovrebbe però comportare una vera e propria rifondazione del partito, con un profondo rinnovamento del suo stile pratico, riportando i suoi dirigenti di nuovo a quel contatto diretto con la gente, nelle piazze e nelle fabbriche, che in questa campagna elettorale è stato piuttosto caratteristico di Conte e dei leader della destra.

Però la vera rifondazione del partito democratico dovrebbe riguardare, ancora più a monte, la sua identità culturale. Era nato come alleanza tra socialisti e cattolici progressisti, ma in questi anni si è sempre più ritrovato, in sostanza, ad essere il continuatore del partito radicale (significativa l’alleanza con la Bonino) nel sostenere innanzitutto le battaglie per i diritti civili individuali, lasciando decisamente in secondo piano quelle per i diritti sociali.

Una linea che non è né socialista (Marx, a proposito dell’enfasi su questi diritti, parlava di «robinsonate», in riferimento al celebre personaggio di Defoe, che si costruisce da solo la sua vita in un’isola deserta), né cattolica (l’insegnamento sociale della Chiesa collega inscindibilmente i diritti delle persone alle loro responsabilità verso gli altri e verso il bene comune). Siamo nella logica del liberalismo neocapitalistico, a cui peraltro si ispira oggi l’Unione Europea.

È il primato del single, che in realtà non riguarda solo l’aborto e il matrimonio omosessuale, ma tutti i rapporti sociali ed economici, escludendo che essi debbano esser regolati in funzione di una dimensione etica comunitaria che supera gli interessi degli individui. Su questa linea di fatto si muove il PD.

Ma a questo punto bisogna dire chiaro che si fa questa scelta, smettendola di definirsi “di sinistra”, e puntare sul centro neo-liberale, in cui sarebbe possibile unirsi non solo con Calenda e Renzi, ma forse anche con Forza Italia, che della inviolabilità dei diritti individuali è sempre stata accanita sostenitrice (specialmente in materia di tasse). Rinunziando una buona volta a parlare di giustizia sociale e di uguaglianza, parole che mettono paura alla borghesia benestante e la spingono verso la destra. Non avere il coraggio di fare questo passo significa restare in un limbo che, a livello elettorale, diventa isolamento.

Oppure si potrebbe ipotizzare una presa di coscienza che porti riscoprire il carattere anticamente rivoluzionario (in senso culturale) del partito e di ciò che si intende per “sinistra”, riportando l’asse ideologico sulla linea di battaglie a favore non solo dei migranti – l’unico residuo, nel programma del PD, della scelta per i più poveri – , ma di tutti gli sfruttati e gli emarginati della nostra società, magari non nella prospettiva assistenziale del reddito di cittadinanza, ma in quello di una seria redistribuzione della ricchezza e della creazione di posti di lavoro.

Ci sono le condizioni, nel nostro Paese, per il successo di una simile svolta? Si potrebbe sperare che, con essa, il malessere sociale, espresso nel diffuso clima di populismo e dominante in queste elezioni come nelle precedenti, possa essere convogliato su obiettivi più adeguati da una vera sinistra? Difficile dirlo. In ogni caso, è una scommessa che deve fare, se lo vuole, il gruppo dirigente del PD.

Le incognite nel fronte dei vincitori

Alle incognite insite nella crisi degli sconfitti di queste elezioni fanno riscontro quelle presenti nel fronte dei vincitori. L’indiscusso successo di Fratelli d’Italia e di Giorgia Meloni non deve illudere. Già nel 2018 c’erano stati nuovi partiti emergenti vincitori e vecchi partiti vinti, anzi in misura ancora più eclatante: i 5stelle avevano avuto, a sorpresa, il 32%, a fronte di cui il 26% dei Fratelli appare tutto sommato un risultato molto buono, ma non certo eclatante.

E dopo le elezioni del 2018, l’alleanza tra Di Maio e Salvini, salutato trionfalmente dal primo come una svolta storica, garantiva ai loro partiti sulla carta una maggioranza parlamentare schiacciante, che sembrava destinata a durare senza problemi fino al 2023. Sappiamo tutti com’è andata.

Il problema che allora si presentò fu la necessità del nuovo partito emergente, i 5stelle, di governare con uno, la Lega, che era espressione di un passato che si voleva superare, di cui, come alleato di Berlusconi, era stato largamente artefice. Ora si ricreata la stessa situazione. Per un meccanismo elettorale assurdo e per le divisioni, alle urne, tra i suoi avversari di sinistra, la Lega, malgrado la batosta elettorale, conserva in Parlamento un peso sproporzionato al consenso ricevuto.

Con soli 2,4 milioni di voti, il partito di Matteo Salvini porta 29 persone al Senato e 67 alla Camera, una cifra impressionante se paragonata alle preferenze ottenute (si pensi che nonostante oltre 5,3 milioni di preferenze, il PD entra con soli 40 rappresentanti al Senato e con 69 alla Camera e che con 4,3 milioni di preferenze il partito guidato da Giuseppe Conte avrà 28 seggi al Senato e 52 alla Camera). A confronto anche Fratelli d’Italia risulta penalizzato: con il triplo di voti della lega – 7,3 milioni – , ha solo il doppio dei rappresentanti – 66 senatori e 119 deputati. Scherzi della democrazia, quando è gestita male…

È vero che Giorgia Meloni può contare sugli altri due alleati della coalizione di destra, Forza Italia, (che con solo 2,2 milioni di voti, è riuscito a portare 18 persone al Senato e 44 persone alla Camera) e Noi Moderati (che con 255 mila voti porta 1 persona al Senato e 7 alla Camera.). Ma, tenendo conto che il Senato è composto da 200 membri e la Camera da 400, i rappresentanti della Lega sono fondamentali per dare al governo di destra la maggioranza assoluta.

Su questo sfondo si gioca il confronto tra le posizioni, in realtà abbastanza diverse, della Meloni e di Salvini, nella formazione del prossimo governo. A cominciare dal ruolo che quest’ultimo rivendica come ministro degli Interni e che la leader di Fratelli d’Italia sembra molto restia a conferirgli. Al di là di questo contrasto particolare, il problema è quello della coesistenza di due forti personalità.

Sappiamo tutti che il leader della Lega tende irresistibilmente a tracimare rispetto al suo ruolo istituzionale. Con Conte lo ha potuto fare in modo incontrastato, assumendo di fatto le redini del governo. Giorgia Meloni non sembra disposta ad avere questo ruolo passivo, anzi pressa per una riforma della Costituzione che, introducendo il regime presidenziale, le consentirebbe di essere eletta con pieni poteri o quasi (quelli che voleva Salvini quando fece cadere il governo Conte).

 Non è solo una questione di poltrone e di personalità. 

Ci sono in gioco due prospettive molto diverse. Per Salvini è importante l’autonomia regionale (del Nord) e vuole che al primo punto dell’ordine del giorno ci sia questa riforma. Giorgia Meloni viene da una formazione che privilegia il ruolo dello Stato unitario. Salvini vuole la flat tax senza riserve, la Meloni solo per la parte di reddito eccedente rispetto a quanto dichiarato l’anno prima.

Salvini ha un passato di amicizia con Putin che lo rende inaffidabile agli occhi della Nato, ed è portato – lo sappiamo già dalla sua precedente esperienza e ne abbiamo oggi la conferma – allo scontro aperto con l’Europa, la Meloni, pur essendo vicina a Orban, ha assunto un atteggiamento molto più cauto e diplomatico su entrambi i fronti .

Dicevo che queste elezioni hanno creato più interrogativi sul futuro che risposte. In questo momento delicatissimo dal punto di vista economico e sociale – per il nostro Pese e per tutta l’Europa – è urgente che, almeno alcune, vengano date. Nella speranza che chi ha il compito di farlo guardi veramente al bene comune piuttosto che a unilaterali giochi di potere.

* Responsabile del sito della Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo, Scrittore ed Editorialista

 www.tuttavia.eu

 

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venerdì 23 settembre 2022

SCUOLA E PARTITI

  

- Docenti, libertà di scelta e autonomia: 

tre temi in “soccorso” dei partiti -

 

-di  Luisa Ribolzi

I programmi elettorali di tutti i partiti, da destra a sinistra e centro, sono semplici cerotti applicati su ferite molto più grandi. Ma una soluzione c’è.

 Se un programma è, come recita il dizionario, “Enunciazione particolareggiata di ciò che si vuole fare, d’una linea di condotta da seguire, degli obiettivi cui si mira e dei mezzi coi quali si ritiene di poterli raggiungere”, una lettura anche attenta di quanto i partiti intendono fare per la scuola e per l’istruzione nella prossima legislatura porta ad affermare che un “programma” in questo senso non esiste proprio. I partiti elencano una serie di proposte che dovrebbero piacere agli elettori, ma non si accenna né ai mezzi né ai tempi: ora, la  scuola ha bisogno di tempi lunghi, non di enunciazioni di principio, per trovare il modo di costruire il tessuto delle relazioni che consentono ad un Paese di crescere anche economicamente, ma soprattutto come comunità coesa intorno ad un sistema di valori, e al tempo stesso inclusiva.

Per migliorare la scuola, e non solo per cambiarla, sarebbe opportuno avere chiare in mente poche cose, e realizzarle secondo la metodologia della ricerca: analisi del problema, progettazione, realizzazione, valutazione, ri-progettazione. Gli inglesi la chiamano rolling reform, riforma capace di modificarsi senza rimettere tutto in discussione, ma in Italia si preferisce procedere con grandi enunciazioni teoriche, o con  “contentini” che non portano da nessuna parte.

Un’ipotesi di intervento nella scuola deve avere una vision e una mission: in altre parole, deve partire da un’idea del ruolo della scuola nella società, e deve avere un’immagine precisa non solo di dove andare, ma di come andarci e con quali mezzi. Altrimenti, come diceva Seneca duemila anni fa, “non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare”.

Vediamo comunque qualche proposta, a partire dal sito di Tuttoscuola che descrive minutamente le circa quaranta proposte presentate dai vari partiti, che per la loro genericità costituiscono un vero e proprio “libro dei sogni”: nei programmi dell’intero arco costituzionale si proclama la centralità della scuola, ma si mette al massimo un  cerotto sulle ferite più gravi (vi ricordate la toppa nuova su di un vestito vecchio?), così che la scuola non pare messa in grado di far fronte alle richieste di una società in sempre più rapida trasformazione, e alle prese con problemi gravi e imprevedibili; ma nemmeno a problemi altrettanto gravi e prevedibilissimi, come l’insuccesso scolastico, la diffusione dell’analfabetismo funzionale, lo scollamento fra competenze richieste e offerte e l’esistenza di una profonda spaccatura fra le diverse zone del Paese.

Per esemplificare che cosa intendiamo per “assenza di un progetto” prendiamo ad esempio la proposta del Pd di estendere l’obbligo scolastico gratuito dai 3 ai d18 anni, che comporterebbe l’entrata nella scuola dell’infanzia di circa 150mila bambini in più, l’istituzione di nuove sezioni, il reclutamento di almeno 9mila insegnanti, la costruzione di nuove aule, la mensa, i servizi integrativi. Tuttoscuola stima che “l’introduzione dell’obbligo scolastico interamente gratuito comporterebbe un onere complessivo di 3 miliardi e 616 milioni di euro all’anno”, e non si è parlato di quel 12% circa di ragazzi di 15 e di 18 anni che hanno abbandonato la scuola o la  formazione professionale. Quanto ai tempi di attuazione, gli insegnanti in più non sono certamente disponibili sul mercato, e andranno formati; le strutture edilizie, anche incrementate con i fondi Pon, richiedono tempi di realizzazione, e via dicendo. Considerazioni simili valgono per riforme onerose come la realizzazione del tempo pieno per tutti nella scuola primaria, la riduzione del numero di studenti per classe (che si attuerà automaticamente, visto che stiamo perdendo circa 80mila studenti ogni anno), l’aumento degli stipendi a livello europeo. Forse i nostri politici potrebbero incominciare a ragionare in termini di qualità, e non solo quantità, degli insegnanti.

L’inversione di tendenza per la riduzione dei fondi stanziati per l’istruzione in percentuale del Pil è certamente auspicabile, ma dove verrebbero reperiti questi fondi, tagliando che cosa? Le pensioni? La sanità? La risposta non è semplice e richiederebbe di individuare le priorità non con un approccio ideologico, ma per rispondere ai gravi e sempre uguali problemi della scuola italiana. Nelle promesse elettorali, lo schieramento di sinistra tende più a misure di accrescimento dell’equità (non a caso il paragrafo si intitola “conoscenza è potere”) come l’estensione dell’obbligo e del tempo pieno, misura questa auspicata anche da Azione-Italia viva, mentre la coalizione di destra punta piuttosto a valorizzare il merito.

Quasi tutti propongono la soppressione del precariato – impossibile finché saranno in vigore gli attuali metodi di reclutamento –, anche se con un certo buon senso Azione-Italia viva pensa di ridurlo ai livelli fisiologici;  l’aumento degli stipendi; l’estensione generalizzata o selettiva (al Sud) del tempo pieno. A parte i costi, ci sono problemi supplementari, per esempio se si ipotizza l’entrata in ruolo degli attuali supplenti, nessuno fa cenno a come valutare la loro preparazione, e questo in una situazione in cui molti posti restano scoperti perché i candidati non riescono a superare le prove di esame. Le proposte, oltre a essere generiche, non tengono conto di quel che viene considerato urgente e necessario da chi nella scuola lavora, cioè la modifica del soffocante apparato burocratico, la realizzazione della piena autonomia, una valorizzazione del merito che consenta anche di differenziare compiti e retribuzioni.

Tutti intendono investire in formazione e aggiornamento degli insegnanti: il centrodestra mira a  valorizzare le scuole tecniche e professionali, sostenere gli studenti meritevoli o “incapienti” (forse per metterli in grado di capire che cosa significa “incapienti”), sviluppare l’edilizia scolastica e generalizzare il buono scuola per favorire la scelta educativa. Compare un modesto interesse per la scelta famigliare e per gli 800mila studenti e 60mila insegnanti circa delle scuole paritarie e nel programma del Pd si accenna al costo standard di sostenibilità per promuovere il pluralismo educativo, senza rinvii diretti alle scuole paritarie, ma solo a una generica “offerta formativa per il diritto allo studio”.

 Il centrodestra intende anche favorire il rientro degli italiani “altamente specializzati” dall’estero, ma questa non è una misura di politica scolastica, come non lo è la proposta dello jus scholae fatta dal centrosinistra e dal M5s. Oltre alla scuola dell’infanzia obbligatoria e gratuita e alla crescita professionale per i docenti attraverso la formazione iniziale e in servizio, il Pd propone l’istituzione di “aree di priorità educativa” nelle zone svantaggiate, forse sulla falsariga delle ZEP istituite in Francia nel 1981 e  trasformate nel 1999 in “reti di educazione prioritaria”.

Il terzo polo propone di elevare l’obbligo a 18 anni, riducendo la durata degli studi da 13 a 12 anni, allineandosi così alla maggior parte dei Paesi europei, e recuperando una parte dei costi. Estensione del tempo pieno nelle scuole primarie, creazione di una carriera docente con differenziazione delle funzioni e dei salari, accresciuti forse in collegamento alla funzione, riforma degli Its con una maggiore integrazione delle imprese e presenza di docenti qualificati nelle aree di crisi. Si parla esplicitamente di misure per accrescere la libertà di scelta delle famiglie (misure fiscali, buono scuola, costo standard). Il M5s esprime la sua creatività aggiungendo alle richieste standard quella dell’introduzione dell’educazione sessuale e affettiva, di una “scuola dei mestieri” per supportare l’artigianato, e di un maggior numero di psicologi e pedagogisti.

Le misure proposte non si esauriscono in quelle che ho portato ad esempio: credo però che chiunque vinca le elezioni dovrebbe accantonare tutte le promesse/proposte su cui ha basato la campagna elettorale, e lavorare seriamente su tre temi: gli insegnanti, la libertà di scelta e l’autonomia. Se le scuole saranno veramente e seriamente autonome, e valutate in base ai risultati, se gli insegnanti saranno veramente e seriamente professionisti, se le famiglie potranno scegliere la scuola dei figli in un sistema veramente e seriamente pubblico, non ci sarà bisogno di grandi riforme, perché sarà la scuola stessa a cambiare per rispondere ai bisogni della società.

 Il Sussidiario


IL BUIO OLTRE LA SIEPE


 - di  Giuseppe Savagnone *

 - Un futuro già scritto? -

Sembrerebbe, alla vigilia di queste elezioni che i giochi siano fatti. Maggioranze chiare, strade definite. Un quadro molto diverso da quello delle consultazioni del 2018, da cui venne fuori, a sorpresa, un governo che univa partiti fino a quel momento fortemente contrapposti, come erano 5stelle e Lega, sull’onda di un successo elettorale – soprattutto dei primi – da cui ci si aspettava un profondo rinnovamento dello stile stesso della politica.

Sappiamo tutti come andò a finire: il socio di minoranza, Matteo Salvini, prese in mano le redini del potere e lo gestì a suo uso e consumo, aumentando in modo esponenziale il proprio consenso popolare e mettendo in ombra l’alleato e lo stesso presidente del Consiglio. Fino al momento in cui, accecato dall’ebbrezza dei sondaggi favorevoli, che lo vedevano avviato al 40%, non fece il passo falso di determinare la caduta del primo governo Conte e di puntare su nuove elezioni, restando scornato dall’imprevista e imprevedibile convergenza dei 5stelle col PD per dar vita al Conte 2.

A prima vista può sembrare che oggi le cose stiano molto diversamente. I partiti della destra – Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia – si sono compattati in un fronte comune che, secondo i sondaggi, potrebbe conquistare addirittura i due terzi dei seggi parlamentari.

Nella manifestazione di chiusura della campagna elettorale, a piazza del Popolo, che ha voluto esibire la saldezza della coalizione, Giorgia Meloni ha evocato questa prospettiva alludendo alla proposta che più le sta a cuore, quella della modifica della Costituzione nel senso del presidenzialismo, una riforma per cui sarebbe necessaria, appunto, la maggioranza dei due terzi.

«Se gli italiani ci daranno la maggioranza, faremo una riforma in senso presidenziale e saremo felici se la sinistra vorrà darci una mano a efficientare le nostre istituzioni, ma se gli italiani ci daranno i numeri noi lo faremo lo stesso», ha detto la leader di Fratelli d’Italia.

Qui il futuro, a differenza che nelle precedenti elezioni, sembra chiaro. Lo ha sottolineato Salvini, quando, nel corso della stessa manifestazione, si è rallegrato di vedere in piazza «gente di tradizioni diverse che hanno deciso di essere insieme con un destino comune e un impegno che prendiamo noi tutti: governare bene e insieme per 5 anni. Ci troviamo qui tra 5 anni».

Due opposte tradizioni ideologiche

In realtà le cose sono un po’ più complicate. Basta leggere con attenzione i quindici punti che costituiscono il programma dei partiti della destra per rendersi conto che, dietro l’apparente neutralità delle formulazioni sintetiche, si nascondono punti di vista molto diversi, espressione delle rispettive tradizioni ideologiche.

 Salvini e la Lega hanno soprattutto a cuore l’attuazione delle autonomie regionali, menzionate infatti in questo programma. In particolare di Emilia a Romagna, Lombardia, Piemonte e Veneto, prime quattro Regioni ad aver fatto richiesta dell’autonomia differenziata. È un progetto che risale alle origini della Lega Nord, e che rimane prioritario in un partito la cui forza elettorale è nelle regioni settentrionali.

La tesi ufficiale, molto ripetuta dagli esponenti della Lega, è che questa autonomia in realtà gioverà anche alle regioni del Sud. Non è chiarissimo in che modo. Intanto, però, quel che è certo e che essa è stata rivendicata da quelle più ricche d’Italia e che la prospettiva di una loro maggiore autonomia non è rassicurante per quella parte del Paese, il Meridione, che, dall’Unità in poi, ha pagato sulla propria pelle il decollo economico del Settentrione e che ora, da tempo, dipende in larga misura dal suo sostegno.

Sta di fatto, in ogni caso, che la prospettiva di Fratelli d’Italia – eredi, al contrario della Lega, di una tradizione statalista che ha sempre valorizzato l’unità del Paese – non mira certamente a favorirne la disgregazione in regioni sempre più autonome. Va in questo senso, del resto, il già citato progetto del rafforzamento del potere esecutivo con la riforma del governo in senso presidenzialista.

Autonomia e presidenzialismo, possono certamente coesistere, come del resto accade negli Stati Uniti, ma là si tratta di un assetto presente fin dalle origini, mentre per un Paese come il nostro, estraneo finora a entrambe queste formule, il loro accordo appare assai più problematico. Si deve forse anche a questi differenti punti di vista se, a fronte dell’ossessiva insistenza di Lega e Forza Italia per una diminuzione delle tasse con l’introduzione della flat tax, la proposta della Meloni è assai più cauta, prevedendola solo per la parte di reddito eccedente rispetto a quanto dichiarato l’anno prima.

Una misura destinata a favorire soprattutto i redditi più alti e a favorire così il ricorso a servizi privati a spese di quelli pubblici è probabilmente più in linea con gli interessi del Nord benestante che con quelli del Sud e, più in generale, del Paese considerato nel suo insieme come una unità inscindibile.

Ombre sulle convergenze

Anche per quanto riguarda i punti su cui sembrerebbe esservi un sostanziale accordo, come l’atlantismo e la condanna della guerra scatenata dalla Russia, emergono improvvisamente crepe che distanziano gli alleati, se non sulla sostanza, almeno sul modo di manifestarla.

Intervistato da Bruno Vespa in una trasmissione televisiva Berlusconi ha fornito una lettura della guerra destinata a mettere fortemente in imbarazzo i suoi alleati, impegnati a rassicurare l’opinione pubblica italiana e quella mondiale sulla loro fedeltà alla linea dell’Occidente. «Putin», ha detto Berlusconi, «è stato spinto dalla popolazione russa, dal suo partito e dai suoi ministri a inventarsi questa operazione speciale (…). Le truppe dovevano entrare, in una settimana raggiungere Kiev, sostituire con un governo di persone perbene il governo di Zelensky ed in una settimana tornare indietro».

Non sembra esattamente la ricostruzione dei fatti che ne danno gli Stati Uniti e l’Alleanza atlantica – soprattutto a proposito di quel «governo di persone perbene», scelte da Putin, che avrebbe dovuto sostituire Zelensky – , con cui pure Berlusconi, come pure Salvini e Meloni, si affannano a ripetere di essere in piena sintonia.

Anche la perfetta intesa, che invece sicuramente c’è, sulla «difesa delle frontiere» dall’«invasione» dei migranti non riesce a nascondere sottolineature diverse. Per la Meloni è una necessità, per Salvini è una passione: «Chi sceglie il simbolo della Lega dà fiducia ad un quarantanovenne che è a processo perché ha bloccato gli sbarchi clandestini. L’ho fatto e non vedo l’ora di farlo. Da presidente del Consiglio se gli italiani lo vorranno, o da umile servitore dello Stato», ha detto il leader della Lega a piazza del Popolo.

A queste incognite, legate alla linea politica, se ne aggiungono altre, più prosaiche ma molto concrete, che nascono dalle ambizioni personali di Salvini e della Meloni. Come l’ultima frase del leader del Carroccio lascia trapelare, i numeri sfavorevoli dei sondaggi non sono bastati a farlo desistere dalla speranza di essere lui il premier del nuovo governo.

Giorgia Meloni, da parte sua, sta già preparando la lista dei ministri e trapela la sua difficoltà nell’assegnare un posto al suo alleato. In ogni caso ha in più occasioni lasciato capire che non ne accetterebbe mai un ritorno al ministero degli Interni, che gli permise, nel primo governo Conte, di occupare il centro della scena e fu il trampolino per la sua ascesa esponenziale nei consensi degli italiani.

Molto dipenderà, naturalmente, dal responso delle urne. Ma è difficile immaginare che, quale esso sia, Salvini accetterà di far parte di un governo che lo releghi in un ruolo secondario.

Alte ipotesi, ancora più problematiche

Come si vede, il margine delle incognite, nel caso in cui le previsioni di vittoria della destra si avverassero, è molto più ampio di quanto si lasci credere agli elettori. Ma forse ancora maggiori sono quelle che si intravedono in caso di una buona affermazione della sinistra.

La fatwa di Enrico Letta nei confronti dei 5stelle esclude una loro possibile alleanza, che rinnovi quella del secondo governo Conte. E, a meno di una grossa sorpresa, il centro di Azione/Iv non sembra in grado di andare in Parlamento con dei numeri sufficienti a dar vita a un governo di centro-sinistra.

Si potrà verificare la previsione, fatta da Calenda, di un secondo governo di solidarietà nazionale la cui guida sia nuovamente affidata a Draghi? Alla luce delle posizioni attuali di destra e sinistra una simile soluzione sembra da escludere nel modo più drastico.

E allora? L’autunno e l’inverno che si prospettano, stando alle previsioni, come tra i più difficili della nostra storia repubblicana. Affrontarli in un clima di litigiosità irrisolte e con un governo debole sarebbe un suicidio (il secondo, dopo quello che ha portato alla crisi del governo Draghi) che non ci possiamo permettere. Nel vecchio film di Robert Mulligan «Il buio oltre la siepe» si assiste in realtà a un lieto fine. Il «buio» che faceva tanta paura viene alla fine dissipato dal corso delle vicende. Possiamo solo augurarci sinceramente che lo stesso accada per le ombre che si prospettano dietro le urne di domenica.

 * Responsabile del sito della Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo,  
Scrittore ed Editorialista.

www.tuttavia.eu

 

 

sabato 13 agosto 2022

PAROLE, PAROLE, PAROLE

UN'ECOLOGIA DELLA PAROLA

- di Mauro Magatti

Siamo sommersi dalle parole.

Eppure, le parole non valgono più nulla. È questo il paradosso nel quale ci troviamo e che la campagna elettorale appena iniziata rende ancor più evidente. Promesse, commenti, opinioni, accuse. Si dice una cosa e il suo contrario. Tanto nessuno si ricorderà domani quello che è stato detto ieri.

Tutti parlano, gridano, esagerano per richiamare l’attenzione. Parole in libertà che non impegnano nessuno. La parola data non tiene più insieme le persone: quando viene meno la convenienza, un impegno preso può essere cambiato. Le cose che si dicono non implicano il rispetto della verità. Negli anni i cattivi maestri hanno insegnato che è vero solo ciò che raggiunge l’effetto. A prescindere da ogni referenza con il reale. Che cosa sono le fake news se non la traduzione digitale dell’uso cinico e strumentale delle parole? Se si lancia sui social una notizia falsa, caricandola di emotività e provocazione, il suo impatto comunicativo sarà comunque superiore alla rettifica che seguirà. Perché non provarci? Saper dialogare per arrivare a intendersi è un’arte sempre più rara. E così si moltiplicano i litigi che alimentano l’estenuante conflittualità tra chi si dovrebbe occupare del bene comune. Fino ad alimentare le tante guerre che insanguinano il mondo.

Viviamo in mezzo a un vero e proprio inquinamento comunicativo. Così, non sapendo più a chi credere, c’è chi cede alla tentazione di rintanarsi in nicchie chiuse dove si ascoltano solo quelli che la pensano allo stesso modo. Altri si fanno ammaliare da slogan che semplificano troppo. O addirittura da parole cariche di odio e di violenza. Nel flusso ininterrotto delle parole che, prive ormai di significato, passano senza lasciare traccia è la stessa idea di sfera pubblica il primo bene comune che viene perduto. Lo si vede in questi primi giorni di campagna elettorale: Calenda che si rimangia il patto elettorale sottoscritto due giorni prima. Azione  e Italia Viva che si devono alleare, ma non si fidano l’uno dell’altro. Il Pd che negozia sottobanco con i 5S. Conte che parla come se non fosse stato parte del governo Draghi. Berlusconi che, aggiornando il suo vecchio slogan, promette «un milione di alberi». Salvini che se la prende con i migranti. Meloni che si dice pronta a risollevare l’Italia, senza però dire come. I tre che con toni diversi parlano di flat tax (al 23, al 15, incrementale), ma non spiegano quali servizi taglieranno per finanziarla. La sensazione è che i programmi siano elenchi di promesse che nessuno realizzerà mai. E dove le alleanze tra i partiti siano facciate che nascondono gelosie, rivalità, antagonismi. Destinate a disfarsi davanti alle prime curve della legislatura: come la coalizione di centrodestra, che mentre si dichiara unita a Roma, affila i coltelli per la candidatura di Palermo.

Nasce da qui la sfiducia diffusa nei confronti della politica parolaia, che parla sempre, ma combina poco. Le conseguenze possono essere molto pericolose per la democrazia. Perché laddove si smette di credere al valore vincolante delle parole, di assumersi la responsabilità di quello che viene detto, di condividere un senso che permette di dare una direzione comune a quello che facciamo, è il potere di fatto che alla fine si impone. Senza giustificazione e legittimazione. Dissolta ogni critica nella confusione del flusso infinito delle opinioni equivalenti, è il potere di fatto, nella sua brutalità, ad affermarsi. Non si trova forse qui la ragione delle tante disuguaglianze, violenze, ingiustizie che sembrano delineare situazioni immodificabili e che perciò sembra addirittura impossibile mettere in discussione? È una malattia che si infiltra un po’ in tutte le democrazie contemporanee.

A partire dagli Stati Uniti d’America, che non sono mai stati così fragili. Ma che in Italia, a causa della debolezza delle nostre istituzioni, è particolarmente grave.

Logos (parola) viene dal verbo greco legein – che significa raccogliere, rilegare. In italiano questa radice etimologica la ritroviamo in legare, rilegare, ma anche in religione. E infatti attraverso la parola che è possibile ricostruire un senso, stabilire e mantenere delle relazioni, decidere di percorrere una strada insieme agli altrimenti, ricomporre una divergenza. Senza la parola diviene impossibile allearsi, promettere e persino intendersi. Il problema è che la parola, per non essere vuota e così annichilire la realtà, esige disciplina. L’idea che la parola sia puro strumento distrugge le relazioni, il senso, il mondo. È invece la parola che ci fa esistere come persone e che ci costituisce come società.

Per questa ragione è indispensabile pretendere da coloro che si candidano a gestire la cosa pubblica il rispetto dell’intimo legame che esiste tra le parole che si dicono, quello che si conosce e quello che si fa. Ma anche noi come elettori abbiamo delle responsabilità. Prima di tutto educandoci a non esporci a tutto, a qualunque cosa. Prima di accendere la tv o entrare nei social, verifichiamo le fonti. E impariamo ad alternare la confusione e il rumore con il silenzio e la riflessione. E poi ricordandoci che è quando siamo isolati che siamo perduti. Il discernimento è sempre il portato di una comunità di pratiche, di una vita associativa, di una esperienza partecipativa. La realtà può essere interpretata insieme. Solo con gli altri possiamo mettere alla prova le parole che usiamo e che sono usate da chi, troppo spesso, ci vuole abbindolare.

Per salvare la democrazia, occorre una nuova ecologia della parola.

www.avvenire.it


 

giovedì 4 agosto 2022

I CATTOLICI, GLI ULTIMI RIVOLUZIONARI


 - di Giuseppe Savagnone*

  I cattolici dal clericalismo all’irrilevanza

I cattolici sembrano scomparsi dalla scena politica. Dopo essere stati per cinquant’anni, nella Prima Repubblica, alla guida del Paese, si sono dissolti, nella Seconda, risucchiati dai due poli del centro-sinistra e del centro-destra, dove la loro influenza è ormai invisibile. Questo, malgrado il PD sia nato, sulla carta, con l’intento di coniugare l’anima sociale del cattolicesimo italiano con il socialismo post marxista e da parte degli esponenti della destra – si pensi a Salvini – si siano moltiplicati i riferimenti espliciti al vangelo e alla tradizione cristiana.

Per un certo periodo il presidente della Conferenza Episcopale Italiana, il card. Camillo Ruini, si è fatto carico di colmare questo vuoto con le sue prese di posizione pubbliche sui «valori non negoziabili». Un tentativo discutibile e molto discusso anche dal punto di vista cattolico, stando alla dottrina del Concilio Vaticano II sull’autonomia dei credenti in ambito politico: «Dai sacerdoti i laici si aspettino luce e forza spirituale. Non pensino però che i loro pastori siano sempre esperti a tal punto che, ad ogni nuovo problema che sorge, anche a quelli gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta, o che proprio a questo li chiami la loro missione; assumano invece essi, piuttosto, la propria responsabilità, alla luce della sapienza cristiana e facendo attenzione rispettosa alla dottrina del Magistero» (Gaudium et Spes, n.43).

Sono parole che escludono drasticamente ogni delega alla gerarchia ecclesiastica, da parte dei cittadini credenti, nella gestione del bene comune. In ogni caso, con papa Francesco, anche questa stagione si è conclusa. I pastori sono stati richiamati a evidenziare innanzi tutto la forza salvifica del messaggio cristiano, rinunziando a gestirne le applicazioni nell’ambito politico. Il vuoto di presenza laicale, fino ad allora mascherato da una sostituzione sostanzialmente clericale, si è così manifestato in tutta la sua evidenza.

Per una più incisiva presenza nei rispettivi schieramenti

La soluzione non è certo il ritorno – peraltro impensabile – a un “partito dei cattolici”, come al tempo della Democrazia cristiana. La sola via praticabile sembra essere, oggi, quella di un impegno pluralistico, come previsto peraltro dal testo della Gaudium et Spes che abbiamo appena citato, che continua: «Per lo più sarà la stessa visione cristiana della realtà che li orienterà, in certe circostanze, a una determinata soluzione.

Tuttavia, altri fedeli altrettanto sinceramente potranno esprimere un giudizio diverso sulla medesima questione, come succede abbastanza spesso e legittimamente. Ché se le soluzioni proposte da un lato o dall’altro, anche oltre le intenzioni delle parti, vengono facilmente da molti collegate con il messaggio evangelico, in tali casi ricordino essi che nessuno ha il diritto di rivendicare esclusivamente in favore della propria opinione l’autorità della Chiesa».

Il Vangelo non è un programma politico, come non lo è l’insegnamento sociale della Chiesa che ad esso si ispira e nessuno ha il diritto, in politica, di appropriarsene. Neppure, però, lo si può sbandierare a piacimento per sostenere qualsiasi posizione, come talvolta si tenta di fare. Vi sono dei princìpi, impliciti nella Rivelazione, che devono guidare il credente, sia di destra che di sinistra, nella sue scelte di fondo, pur lasciandogli la responsabilità di tradurle in misure concrete.

Princìpi che si possono ridurre, in ultima istanza, a due – il primato della persona e quello del bene comune – e che i padri costituenti, molti dei quali sinceramente cristiani, hanno posto a base della nostra Carta costituzionale. Ciò che rende irrilevante la presenza dei cattolici in entrambi gli schieramenti non è l’essere “di sinistra” o “ di destra”, ma il fatto che tanto la sinistra che la destra, pur appellandosi formalmente a questi valori, si muovono all’interno di un orizzonte intellettuale molto diverso, che, paradossalmente, le accomuna, pur dando luogo ad esiti opposti. In questo orizzonte la persona è stata sostituita dall’individuo e il bene comune dal potere dello Stato.

La persona letta alla luce della proprietà privata

È il caso della sinistra, che, dopo la fine del marxismo, non ha trovato di meglio che aggrapparsi alla visione liberale fondata nel Seicento da Locke e dominante nella società borghese. In questa visione ciò che caratterizza l’essere umano è l’essere proprietario di se stesso, del proprio corpo, delle proprie facoltà e di poterne disporre a proprio piacimento, a patto di non invadere la sfera altrui. Una visione insulare, nata storicamente all’epoca in cui le “terre comuni” (open field) in Inghilterra venivano vendute e recintate (enclosures), segnando il trionfo della proprietà privata.

Questa visione, che sta alle origini del capitalismo ed è ovviamente “di destra”, è la base delle battaglie combattute dalla “sinistra” in Italia e negli altri Paesi occidentali per una rivendicazione dei diritti sganciati dalle relative responsabilità. Emblematico lo slogan delle femministe al tempo della battaglia per il diritto di aborto: «L’utero è mio e ne faccio quello che voglio».

Un’analoga filosofia sta oggi sotto la rivendicazione del diritto al suicidio assistito e all’eutanasia. L’individuo è autonomo, autosufficiente, e non deve rispondere a nessuno delle sue scelte. Purché, naturalmente, non valichi il confine che difende lo spazio degli altri individui. «La libertà di ciascuno finisce dove comincia quella degli altri». Prima di questo limite, è assoluta.

È appena il caso di dire che, in una simile prospettiva, non c’è più un bene comune, se non la reciproca tolleranza che rende compatibili tra loro queste diverse sfere di libertà. Se viene meno l’idea che la persona sia intessuta nella sua struttura più profonda da relazioni che la legano agli altri e la rendono responsabile nei loro confronti di ogni sua scelta, anche la più “privata”, non c’è più neppure un fine comune da perseguire.

Esso viene sostituito da una semplice somma di interessi particolari, con l’inevitabile conclusione che i più forti alla fine prevalgono sui più deboli. Ma questa è anche la prospettiva della “destra”. La sua strenua ostilità nei confronti delle tasse, secondo lo slogan che le identifica con un «mettere le mani nelle tasche degli italiani», si fonda sulla stessa visione insulare del cittadino, proprietario di se stesso e dei suoi averi, che non ha alcun legame, se non quelli liberamente scelti volta per volta, e che non deve nulla a nessuno. L’individuo «si fa da sé».

La comunità, anche qui, è un arcipelago di isolotti autonomi l’uno dall’altro. In assenza di un bene comune, per evitare il rischio dell’anarchia viene valorizzato e posto in primo piano lo Stato, un ente burocratico, il cui potere e il cui prestigio prescindono dalle persone e possono implicarne il sacrificio, come è sempre avvenuto in tutti i totalitarismi.

Nessun uomo è un’isola

Ad entrambe queste posizioni – peraltro espressione di un unico orizzonte culturale – si oppone radicalmente, in nome del vangelo, l’insegnamento della Chiesa. La potrebbe esprimere bene un testo del poeta inglese del Seicento John Donne (1573-1651) a cui si ispira il titolo di un famoso romanzo di Hemingway: «Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso./ Ogni uomo è un pezzo del continente,/ una parte del tutto./ Se anche solo una zolla fosse portata via dal mare,/ l’Europa ne è diminuita,/ come se lo fosse un promontorio,/ o una magione amica,/ o la tua stessa casa./ Ogni morte d’uomo mi sminuisce,/ perché io sono parte dell’umanità./ E dunque non mandare mai a chiedere/ per chi suona la campana:/ essa suona per te».

Identificare la persona con l’individuo significa – come è avvenuto anche per l’homo oeconomicus – ridurla a un a suo aspetto, reale ma non esclusivo. La persona è, per sua intima struttura, individuale, ma anche portatrice di una fitta rete di relazioni che la vedono debitrice e responsabile nei confronti degli altri e della società di cui fa parte.

Senza di essi sarebbe – lo dice l’esperienza dei baby lupo, smarriti nella foresta e ritrovati dopo anni – un povero essere incapace perfino di parlare e di stare eretto (facoltà acquisite nella società). Perciò non è vero che la sua libertà finisce dove comincia quella degli altri: fin dall’inizio esse si compenetrano intimamente. Perciò non ha senso una battaglia per i diritti individuali che prescinde dalle responsabilità verso la società e verso le persone.

Non siamo proprietari di noi stessi e meno che mai possiamo credere che le nostre scelte private riguardino solo noi. Anche il diritto di proprietà è solo un mezzo per contribuire al bene comune. La terra è di tutti. Lo ricordava Paolo VI nella Populorum progressio (1967), appellandosi alla costante tradizione dei padri della Chiesa: «“Non è del tuo avere”, afferma sant’Ambrogio, “che tu fai dono al povero; tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene. Poiché è quel che è dato in comune per l’uso di tutti, ciò che tu ti annetti. La terra è data a tutti, e non solamente ai ricchi”.

È come dire che la proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto. Nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario» (n.23).   Ben lungi dal «mettere le mani nelle tasche» dei legittimi possessori, le tasse non fanno che redistribuire la ricchezza che, in una certa misura, si è acquisita sempre grazie alla società, e non solo per merito proprio.

Un Paese come l’Italia, che ha creato cinque milioni e mezzo di persone in condizione di povertà assoluta, non ha nulla a che vedere con l’idea di bene comune. È indispensabile oggi, per il rinnovamento della politica, che i cattolici prendano coscienza del carattere rivoluzionario della loro visione e si battano per darle un peso, all’interno dei rispettivi schieramenti, rispetto a quella dominante. Si obietterà che è un’impresa disperata.

E tuttavia vale la pena di tentare, perché non sono in gioco solo le prossime elezioni, ma il futuro del nostro Paese.

 *Responsabile del sito della Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo, www.tuttavia.eu.

Scrittore ed Editorialista.

 www.tuttavia.eu