«Questa è la stagione dell’odio sociale
Comunità a rischio,
serve un pensiero»
“Oggi il povero non è visto semplicemente con sentimenti di
indifferenza e ostilità. È percepito come altro da sé e ciò porta a compiere
azioni contro i fragili”
INTERVISTA A STEFANO ZAMAGNI
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di DIEGO MOTTA
Non è più paura, non è nemmeno disprezzo del povero. «Sta
accadendo molto peggio: siamo ormai in presenza di odio sociale». Nel 2019,
Stefano Zamagni non aveva esitato a parlare con Avvenire di «aporofobia»: erano
i tempi dell’offensiva contro il Terzo settore, della criminalizzazione della
solidarietà voluta anche a livello istituzionale. Cinque anni dopo,
l’intellettuale bolognese che ha guidato la Pontificia accademia delle scienze
sociali, ricostruisce lo scenario attuale in modo ancora più diretto, guardando
all’Italia e all’Europa. «Oggi il povero non è visto semplicemente con
sentimenti di indifferenza e ostilità. È percepito come altro da sé da una
parte dell’opinione pubblica e questo porta a compiere azioni contro la persona
fragile». Sullo sfondo c’è la violenza gratuita contro gli ultimi, siano essi
migranti, disabili, senza dimora, detenuti: la cronaca è piena,
quotidianamente, di fatti che rimandano al desiderio di supremazia di pochi
prepotenti verso i più deboli, di persone escluse o nascoste, di dimenticati
che rivendicano il diritto ad esistere, mentre il dibattito pubblico tende a
relegare tutto questo nelle periferie, esistenziali e mediatiche. Così, nei
bassifondi della nostra scala sociale, si avverte avanzare un senso di
disumanità che preoccupa per le conseguenze possibili.
Professor Zamagni, si moltiplicano gli “invisibili”. Eppure
si fa finta di non vedere o, peggio, si cerca di negare qualsiasi emergenza
sociale per non creare allarme nell’opinione pubblica. Perché questa ostilità
verso il povero?
Siamo abituati a parlare di povertà come di un fenomeno
legato al reddito, ma la povertà è anche emarginazione, indifferenza. Con
l’aporofobia eravamo al disprezzo degli indigenti, adesso siamo all’odio
sociale, un fenomeno mai visto prima a queste latitudini. Odio e violenza hanno
un’origine comune e questo spiega ciò che sta succedendo in questa epoca
storica. L’odio sociale ha un inizio, 30 anni fa, quando in America nasce anche
nel mondo universitario una corrente di pensiero che poi approderà in Europa e
nel nostro Paese: si tratta del singolarismo.
L’altra faccia dell’individualismo.
Il singolarismo è l’estremizzazione dell’individualismo, che
nasce invece molto tempo prima, all’epoca dell’Il-luminismo. In quella fase
storica, l’individuo almeno era parte della comunità, aveva un’appartenenza. Il
singolarismo recide proprio questo tipo di legame: adesso ognuno si pensa come
un unicuum e, in quanto tale, deve differenziarsi. L’atteggiamento aporofobico
è stata una prima conseguenza della diffusione del singolarismo, che prevede
l’espulsione e l’annullamento dell’altro.
Se l’individualismo è stato superato, allora adesso diventa a
rischio anche la comunità.
Esatto. Di questo passo dovremo fare i conti con la scomparsa
della comunità, che è già in atto. È la seconda secolarizzazione: nella prima,
la società e il mondo andavano avanti come se Dio non esistesse. In questa
seconda secolarizzazione, che stiamo vivendo, la vita pubblica procede come se
a essere assente fosse l’idea stessa di comunità. Così si spiega ad esempio il
calo di partecipazione alla democrazia e ai suoi riti, a partire dalle
elezioni: chi va a votare oggi, se non gli anziani, che si sono formati nella
stagione in cui il singolarismo non c’era?
Ma una società che tende a escludere fino ad annullare la
dimensione comunitaria, non è condannata a incattivirsi?
Certo. Oggi, non a caso, c’è molta meno felicità pubblica:
una volta si mangiava meno ma si era più felici. Se si taglia il cordone
ombelicale con la comunità, l’essere umano sarà sempre più solo. Negli Stati
Uniti, il 52% della popolazione soffre di solitudine. Ma è una solitudine
esistenziale, che si accompagna all’aumento delle disuguaglianze sociali. Detto
questo, io resto ostinatamente ottimista.
Perché?
Perché la persona umana nasce per la felicità. Bisogna
tornare a rileggersi il capitolo 5 della “Fratelli tutti”, per immaginare la
miglior politica. Papa Francesco ha intuito prima e meglio di tutti che bisogna
tornare a pensare. Noi tutti, anche il Terzo settore, nella dimensione sociale
abbiamo posto più enfasi sull’azione che sul pensiero. La prospettiva va
capovolta e tanti non credenti l’hanno capito, paradossalmente. Sono proprio
loro a riconoscere che la Chiesa cattolica è l’unico soggetto in grado di
indicare una di via d’uscita, a patto che si aumenti però il tasso di
produzione del pensiero. La Parola viene dal pensiero ed è necessario, anche
nel mondo cattolico, investire di più nelle occasioni capaci di generare
“pensiero pensante” e non “pensiero calcolante”.
È ancora convinto che la società civile sia più avanti della
politica?
Sì, a patto che si esca una volta per tutte dal dibattito
fuorviante incentrato sul bipolarismo Stato-mercato e si riconosca il ruolo del
Terzo settore. Attenzione, la mancanza di una dimensione comunitaria fa male
anche al mondo del volontariato e della cooperazione, però i segnali positivi
non mancano: penso all’Economy of Francesco, al recente elogio del modello di
economia civile arrivato da parte di Sergio Mattarella. Serve fiducia e il
mondo cattolico in questo senso ha molte carte da giocare.
«L’individualismo è stato superato dal singolarismo: il
prossimo va annullato o espulso» «L’antidoto all’aumento di disuguaglianze e
solitudini?
Rileggiamo il capitolo 5 della “Fratelli tutti”»
www.avvenire.it
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