Il testo del cardinale Matteo Zuppi sulla Nota della CEI “Educare a una pacedisarmata e disarmante” nasce dentro un tempo di guerre diffuse e di violenza quotidiana. Non è un commento teorico, ma una consegna: il Signore ci dona la sua pace, e nello stesso tempo ce la affida. È un dono da custodire e una responsabilità da assumere.
Seguendo
il suo intervento punto per punto, si vede emergere un vero percorso
pedagogico: dalla radice evangelica della pace alla lettura severa del
presente, fino al compito concreto di trasformare comunità, istituzioni e
relazioni in “case di pace”.
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1.
La pace come dono e compito
Zuppi
parte dal Vangelo: la pace non è semplicemente assenza di conflitti, ma il
volto stesso di Dio consegnato agli uomini. Gesù chiama «beati gli operatori di
pace» perché assomigliano al Padre; la pace, dunque, non è un accessorio
spirituale, ma l’identità del cristiano.
Per
questo – ricorda – i credenti non possono limitarsi a desiderare la pace:
devono coltivare una vera “cultura di pace”. È una cura quotidiana, una
preoccupazione costante per tutti, credenti e uomini di buona volontà, perché
la pace non riguarda solo i fronti armati ma il modo in cui viviamo, parliamo,
lavoriamo, costruiamo rapporti.
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2.
Le comunità come “case della pace e della non violenza”
Zuppi
riprende l’idea – cara al magistero recente – che ogni comunità cristiana
dovrebbe diventare una “casa della pace e della non violenza”.
Che
cosa significa, in concreto?
•
un luogo dove si impara a disinnescare l’ostilità con il dialogo;
•
dove la giustizia non è parola astratta ma stile di vita;
•
dove il perdono viene custodito come risorsa umana e spirituale, non come
debolezza.
La
parrocchia, l’associazione, il gruppo di volontariato, la famiglia credente:
tutti possono essere piccoli laboratori in cui si sperimenta che un altro modo
di stare insieme è possibile. Se le comunità non diventano scuole di pace, il
Vangelo resta una predicazione disincarnata.
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3.
La Nota della CEI: continuità e novità
Per
dare forma concreta a questo compito, la Commissione episcopale per i problemi
sociali, il lavoro, la giustizia e la pace – insieme a teologi e teologhe che
da anni riflettono su questi temi – ha preparato la nuova Nota pastorale.
Zuppi
ricorda che non si parte da zero: già nel 1998 la CEI aveva pubblicato Educare
alla pace. Oggi, però, è necessario un passo ulteriore: parlare di una pace
“disarmata e disarmante”.
•
Disarmata, perché rifiuta la logica delle armi come soluzione ai conflitti.
•
Disarmante, perché smonta le giustificazioni culturali, economiche, politiche
che rendono la guerra “accettabile” o inevitabile.
La
Nota è stata approvata dall’assemblea della CEI ad Assisi: non è quindi solo il
pensiero di alcuni esperti, ma una parola assunta collegialmente dai vescovi
italiani.
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4.
Cristo «nostra pace» e la dottrina sociale della Chiesa
Il
cuore del documento – e del commento di Zuppi – è la centralità di Cristo. Non
esiste un discorso cristiano sulla pace che prescinda dal suo modo di vivere e
di morire.
Chiamare
Gesù «nostra pace» significa:
•
riconoscere che la riconciliazione parte dalla croce, dove l’odio viene vinto
non con altra violenza ma con il dono di sé;
•
capire che ogni annuncio cristiano deve portare dentro di sé un impegno
concreto per la concordia, la giustizia, la vicinanza agli ultimi.
Zuppi
mostra come la Nota si collochi nel solco della dottrina sociale della Chiesa:
non è solo un testo spirituale, ma un’analisi lucida della realtà, delle sue
ferite, delle sue strutture di ingiustizia. La pace, per la tradizione
cristiana, è sempre legata alla giustizia; non c’è pace vera dove le
disuguaglianze esplodono e i diritti di molti vengono sacrificati per gli
interessi di pochi.
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5.
Le “inutili stragi” del nostro tempo
Da
qui il cardinale passa a leggere la situazione attuale. Il mondo è segnato da
«inutili stragi» – espressione che evoca le parole già usate contro le
carneficine della prima guerra mondiale – e oggi riguarda soprattutto civili e
bambini.
Zuppi denuncia tre grandi malattie:
1.
La logica della deterrenza armata
L’idea
che la sicurezza si fondi sull’accumulare armi sempre più sofisticate e
distruttive. È una mentalità che sposta risorse enormi verso l’industria
bellica e alimenta un clima di paura permanente.
2.
La violenza diffusa
Non
solo sui fronti di guerra, ma nelle città, nei linguaggi d’odio, nelle
relazioni segnate da aggressività, nel bullismo, nella violenza domestica.
Quando la violenza diventa “normale”, i giovani ne restano affascinati: non la
percepiscono più come scandalo ma come modo di affermarsi.
3.
L’economia che si abitua alla guerra
Il
mercato degli armamenti influenza la politica, orienta scelte di bilancio, crea
interessi che hanno bisogno del conflitto per continuare a prosperare.
Di
fronte a tutto questo Zuppi non si rassegna: proprio per questo, dice, è
urgente un rinnovato annuncio di pace, e la Nota intende essere un piccolo
strumento per suscitare coscienze critiche, comunità vigili, cittadinanza
responsabile.
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6.
La voce comune delle Chiese: la Dichiarazione congiunta
Il
testo fa memoria anche di una Dichiarazione congiunta recente del Papa e del
Patriarca ecumenico. Insieme chiedono il «dono divino della pace sul nostro
mondo» e sottolineano che, in tante regioni, conflitti e violenze continuano a
distruggere vite innocenti.
Non
si tratta solo di parole: è una chiamata diretta a chi ha responsabilità
politiche e civili perché faccia tutto il possibile per fermare le guerre e per
avviare percorsi di riconciliazione. Zuppi insiste su questo punto: la pace non
è un sentimento privato, ma una responsabilità pubblica.
L’unità
delle Chiese – quando si esprime in una voce concorde contro il riarmo e la
corsa alle armi nucleari – diventa un segno profetico, una provocazione rivolta
ai governi e alle opinioni pubbliche.
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7.
La Parola di Dio come scuola di riconciliazione
La
seconda parte della Nota – e del commento di Zuppi – indica il fondamento
biblico e teologico della pace.
Dalla
Scrittura e dal Magistero emerge una visione di riconciliazione e convivenza
tra i popoli, continuamente minacciata dal peccato non solo come fragilità
personale, ma anche come strutture di ingiustizia: economie che escludono,
sistemi politici violenti, culture che legittimano l’odio.
Mettersi
alla “scuola della pace” significa, allora:
•
lasciarsi educare dalla Parola di Dio a gesti concreti di misericordia e
perdono;
•
imparare a vedere il mondo con lo sguardo delle vittime, non solo con quello
dei vincitori;
•
riconoscere che la conversione parte dal cuore ma domanda scelte sociali,
economiche, politiche coerenti.
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8.
Diventare “case di pace”: i luoghi concreti
Zuppi
individua alcuni ambiti privilegiati in cui questa educazione può prendere
corpo:
•
La preghiera
Non
fuga dal mondo, ma grido ostinato che invoca la pace come dono di Dio e
sostiene la speranza quando la storia sembra smentirla.
•
La famiglia
Primo
laboratorio di relazione, dove si impara ad ascoltare, a chiedere scusa, a
gestire i conflitti senza distruggere l’altro. Una famiglia ferita può
diventare comunque scuola di pace se sceglie la via del rispetto.
•
La scuola
Luogo
dove si imparano le parole, e quindi anche il linguaggio della non violenza.
L’educazione civica, la memoria storica, l’incontro con culture diverse possono
aiutare a spegnere alla radice l’odio e il razzismo.
•
La società civile e la politica
Qui,
dice Zuppi, la pace deve tradursi in visioni di sviluppo e di solidarietà:
politiche che non alimentino la corsa agli armamenti, che contrastino la
proliferazione nucleare, che investano in salute, educazione, lavoro dignitoso.
Sono “i nomi nuovi” della pace.
Sono
grandi cantieri aperti, nei quali occorre formare coscienze illuminate da un
ideale alto, capace di resistere al cinismo e alla rassegnazione.
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9.
Il modello di Francesco d’Assisi
Per
sostenere questo cammino, Zuppi affida la Chiesa italiana alla scuola di
Francesco d’Assisi. Dopo otto secoli, la sua figura rimane sorprendentemente
attuale: un uomo disarmato e disarmante, capace di parlare al sultano nel pieno
delle crociate, di abbracciare il lebbroso, di riconciliare nemici.
Il
cardinale richiama un passo della Vita Prima di Tommaso da Celano: Francesco,
prima di annunciare il Vangelo, augurava sempre la pace dicendo «Il Signore vi
dia la pace» e, con quella benedizione, molte persone che rifiutavano sia la
pace sia la propria salvezza finivano per abbracciare la pace con tutto il
cuore.
È
l’immagine di un annuncio che non impone, ma convince; non schiaccia, ma
guarisce. Diventare “figli della pace” significa lasciare che questa
benedizione attraversi le nostre parole, i nostri gesti, le nostre scelte
pubbliche.
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10.
Formare coscienze, non solo firmare documenti
Alla
fine, l’articolo di Zuppi è un invito a non accontentarsi di dichiarazioni
solenni. La pace si costruisce:
•
formando coscienze capaci di resistere alla logica dell’odio;
•
educando i giovani a non lasciarsi sedurre dalla violenza;
•
costruendo reti di cooperazione tra comunità cristiane, altre religioni,
società civile e istituzioni democratiche;
•
scegliendo, anche come cittadini, politiche e stili di vita che non alimentino
le “inutili stragi” del nostro tempo.
La
Nota Educare
a una pace disarmata e disarmante diventa così non solo un documento da
studiare, ma una mappa di conversione: per le parrocchie, le famiglie, le
scuole, le associazioni, i movimenti, i singoli credenti.
Zuppi
ci ricorda che la pace non è un’utopia ingenua: è una via umile, fatta di gesti
quotidiani che intrecciano pazienza e coraggio, ascolto e azione. Sta a noi
decidere se restare spettatori preoccupati o diventare davvero, come lui dice,
artigiani di concordia contro tutte le inutili stragi.
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