Gesù oggi
Chi crede nella divinità
di Cristo è chiamato
a ricordare che
duemila anni fa il Creatore delle galassie
ha assunto la nostra inerme umanità
nella sua forma più estrema, quella di un neonato infreddolito,
rischiando di morire assiderato come i bambini di Gaza.
Dal
Natale al solstizio d’inverno
Del
Natale, in questi giorni, come ogni anno, sono piene le nostre strade, con le
vetrine illuminate, gli addobbi più o meno ricchi, la folla di persone che
escono per comprare. Ma in questa festa – forse la più sentita dell’anno – chi
è assente è proprio festeggiato. Sembra essere sparito Gesù.
Il
problema, in realtà, non è nuovo. Da sempre il Natale è stato esposto al
rischio di vedere subordinata la sua valenza propriamente religiosa a una
costellazione di valori umani che da un lato ne erano l’espressione, dall’altro
però lo banalizzavano, diventando così la festa del buonismo, della famiglia e
dello scambio dei regali. E tuttavia le tracce del suo originario significato
rimanevano in una fede diffusa, anche se spesso abitudinaria e tradizionalista,
che faceva riempire le chiese per la veglia natalizia .
Da
quando il consumismo si è impadronito delle festività cristiane per
trasformarle in occasioni di marketing, anche il Natale ha
progressivamente perduto il suo riferimento alla nascita del Salvatore.
In alcuni paesi europei anche la dizione è stata cambiata in quella di “festa
del solstizio d’inverno”, rinunziando perfino alla menzione dell’evento
celebrato nella tradizione cristiana.
Nella
stessa direzione vanno – di sicuro senza averne l’intenzione – gli odierni
tentativi di rinnovare lo stesso cristianesimo rinunziando all’unicità e
irripetibilità di quell’evento. Dio non sarebbe “Altro” dal mondo. È la
tesi di chi sostiene che «il Logos incarnato non va inteso nella sua
esclusività dell’uomo Gesù ma comprende e si estende a tutto il creato» (P.
Gamberini).
E,
a questo punto, non avrebbe neppure senso parlare di un momento della storia in
cui è nato il Salvatore. E, del resto, non ce ne sarebbe bisogno. Per gli
essere umani «il mezzo salvifico è l’etica, è la vita buona, è la vita giusta.
Questa etica professata e vissuta non fa altro che esprimere una logica
eterna», (V. Mancuso), immanente alla realtà del mondo e d cui dobbiamo solo
prendere coscienza, non l’irrompere di qualcosa di nuovo, di Qualcuno che
“viene” tra noi.
In
questa visione ormai diffusa, di cui la perdita di significato del Natale è
espressione, ad essere in gioco non è solo il nostro modo di guardare a Cristo,
ma quello di vedere noi stessi e la nostra vita. Essa rispecchia, infatti, una
idea – propria dell’antichità e riproposta, alle origini dell’epoca
post-moderna, da Nietzsche – , secondo cui la salvezza non può venire dalla
storia, concepita, sul modello della natura, come un “eterno ritorno”, ma deve
avere una portata cosmica. Non c’ è posto, in quest’ottica, per l’unicità
e la novità di un evento in cui Dio si manifesta, perché Egli ci parla
nell’universalità dei fenomeni e della nostra coscienza.
I
cristiani, utilizzando per la celebrazione della nascita di Gesù, la
festa pagana del Natalis Solis invicti, che cadeva ciclicamente
alla fine di dicembre, hanno sancito precisamente la rivoluzione
culturale e spirituale che oggi si sta cercando – con successo – di annullare.
Chi
lo fa non si rende conto che sostituire la festa del solstizio d’inverno al
Natale significa sostituire una visione immutabile del destino umano alla
fiducia che qualcosa di radicalmente nuovo possa accadere, anzi sia già
accaduto in quella lontana notte di duemila anni fa, e operi ormai
incessantemente, pur senza rumore, per trasformare la nostra vita a livello sia
personale che comunitario.
Ma
davvero Dio è venuto nella nostra storia?
Certo,
bisogna ammettere che per credere nel Natale oggi bisogna avere molto coraggio.
Del Messia i profeti avevano parlato come di colui che avrebbe, a nome di
Dio, instaurato un regno di pace e di giustizia destinato a durare per
sempre. Come si legge nel libro di Isaia:
«Egli
sarà giudice fra le genti/e arbitro fra molti popoli./Spezzeranno le loro spade
e ne faranno aratri,/ delle loro lance faranno falci;/una nazione non alzerà
più la spada/contro un’altra nazione,/non impareranno più l’arte della guerra»
(Is 2,4).
Se
si guarda a questa promessa alla luce della escalation della violenza e
dell’ingiustizia di cui siamo stati spettatori in questi mesi e dilaganti anche
in questo periodo natalizio, – si è portati a condividere un
racconto della tradizione ebraica, in cui si narra che un pio ebreo un
giorno si recò dal proprio rabbi per confessargli di avere la terribile
tentazione di farsi cristiano. «E se fosse davvero venuto?».
Il
rabbi, dice il racconto, rimase in silenzio. Con una mano, scostò la tenda e
guardò fuori. In strada un povero mendicante cencioso chiedeva l’elemosina, ,
un uomo picchiava un bambino, un ricco in abiti di lusso passava impettito,
riverito da tutti. Lasciò ricadere la tenda e disse: «No, non è venuto».
Possiamo
ancora credere nel Natale oggi, dopo quello che è successo a, che continua a
succedere, in Ucraina, a Gaza? Non siamo costretti anche noi, come il saggio
rabbi ebreo, a constatare con rassegnata tristezza: «No, non è venuto»?
A
metterci in guardia dall’equivoco è la festa, subito seguente a quella del
Natale, in cui si ricorda la strage degli innocenti. Il vangelo non ha mai
avallato l’illusione che la nascita di Gesù dovesse eliminare il male dalla
storia con un colpo di bacchetta magica. E le stesse condizioni di questa
nascita, nella emarginazione e nella povertà, con la successiva fuga in Egitto,
da povero rifugiato, la smentivano evidentemente.
Il
Natale non segna l’avvento del Messia vittorioso atteso dalla maggior parte
degli ebrei. In tutta la sua missione Gesù ha voluto prendere decisamente le
distanze da questa figura. E la parabola del grano e della zizzania, destinati
a crescere insieme fino alla fine dei tempi, è più eloquente di qualunque
filosofia della storia.
Dio
è venuto tra noi mettendosi dalla parte dei civili ucraini torturati e uccisi a
Bucha, dei palestinesi bombardati, cacciati dalla loro terra, massacrati, degli
sfollati del Sudan, dei migranti trattenuti nei campi di tensione libici o
annegati nel Mediterraneo.
Il
silenzio del Natale
Ma
il Natale significa che nella profondità della storia operano ormai forze che
non fanno rumore – come sono quelle della verità e dell’amore – e che, a
dispetto della loro apparente irrilevanza, continuano l’evento
salvifico della venuta di Dio nel nostro mondo.
Oggi
siamo tentati di credere che la storia stia dando ragione ai terroristi, agli
arroganti, ai narcisisti, e che la sola possibilità di opporsi a loro è
di farlo con lo stesso spirito di odio e di violenza. Il Natale ci
sfida a rifiutare questa logica. In realtà, la sola cosa peggiore di un
mondo dove i fanatici e i prepotenti dilagano sarebbe un mondo dove, per
combatterli, noi stessi ci riduciamo a diventare come loro.
Chi
crede nella divinità di Cristo è chiamato a ricordare che duemila anni fa il
Creatore delle galassie ha assunto la nostra inerme umanità nella sua forma più
estrema, quella di un neonato infreddolito, rischiando di morire
assiderato come i bambini di Gaza.
Gesù
ancora oggi nasce là, tra i poveri ucraini senza riscaldamento nel
rigido inverno del loro paese, nelle tendopoli allagate della Striscia,
negli sforzi dei medici e degli operatori umanitari che a rischio della vita
restano accanto a questi disperati cercando di mantenerli in vita. In questa
miseria, in questa impotenza – non nei trionfi dei grandi della terra – , si
manifesta tutta la gloria di Dio.
Perciò
non dobbiamo meravigliarci se, anche a Natale, il chiasso del circo mediatico e
dei proclami dei politici domina incontrastato. Le cose grandi maturano nel
silenzio. Nel silenzio Dio si è fatto uomo. E là ci chiede di incontrarlo e di
continuare, con i nostri poveri sforzi, la sua incarnazione.
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