di quelle 116 persone
morte
nel Mediterraneo”
-di
Stefano Arduini
La
tragedia dei migranti al largo delle coste libiche, di cui si ha avuto notizia
nel giorno di Natale e di cui si è parlato pochissimo in questi giorni di
festa, non può essere ridotta a fredda contabilità.
Scrivere
di loro, nominarli, farne memoria non è pietismo.
È
resistenza.
Perché
ciò che non viene nominato smette di esistere.
E
l’algoritmo questo lo sa bene.
Un
solo superstite, tratto in salvo da un pescatore tunisino, è la contabilità
dell’ennesima tragedia del mare: 116 morti a seguito del naufragio di una
barca, salpata da Zuwara in Libia, e avvenuto al largo delle coste libiche a
causa del maltempo.
La
tragedia è datata giovedì 18 dicembre, ma se ne è avuta certezza solo nel
giorno di Natale (grazie ad Alarm Phone).
In
questi giorni di festa (almeno in questa parte del mondo) se ne è parlato
pochissimo.
Centosedici
morti nel Mediterraneo.
Lo
diciamo così. Lo abbiamo letto così sui nostri social.
In
una riga, come se fosse un dato. Come se fosse un aggiornamento. Come se
bastasse.
Ma
116 non è un numero: è una scorciatoia.
Serve
a rendere la tragedia gestibile, a farla stare nello spazio ridotto
dell’attenzione pubblica, a permetterci di passare oltre.
È
il linguaggio dell’algoritmo, che classifica, riduce, seleziona, dimentica.
Centosedici
erano persone, non erano lontane.
Non
erano “altre”.
Non
erano diverse da noi.
Noi
non abbiamo alcun merito nell’essere sopravvissuti.
E
loro non hanno alcun demerito nell’essere su quella barca.
Stavano
facendo ciò che gli esseri umani fanno da sempre: cercare una possibilità di
vita.
Non
eroismo.
Non
incoscienza.
Necessità.
Hannah
Arendt ci ha ricordato che la singolarità di una vita non è sostituibile da
nulla.
E
allora ogni morte che accettiamo come “inevitabile” è una sconfitta che
normalizziamo.
Non
perché non potesse accadere, ma perché scegliamo di non fermarci a guardarla.
Ogni
essere umano è unico, irripetibile.
La
vita di un solo uomo vale più di tutte le idee astratte.
Eppure,
continuiamo a sacrificare vite concrete in nome di astrazioni molto ben
organizzate: il controllo delle frontiere, la deterrenza, la sicurezza, i
flussi, l’indifferenza. Parole che funzionano bene nei documenti, meno nei
corpi.
I
corpi sono la “grande idea” della storia.
Ce
lo ha insegnato Albert Camus.
La
linea che separa il “noi” dal “loro” è fragile, mobile, spesso immaginaria, ma
rassicurante. Basta nascere qualche chilometro più in là, basta un passaporto
diverso, perché quella linea diventi un muro morale.
E
perché la morte, improvvisamente, non ci riguardi più.
Ma
dimenticare i morti è come ucciderli una seconda volta.
Elie
Wiesel non parlava solo della Shoah: parlava della responsabilità universale
della memoria.
La
memoria non è un esercizio del passato, è un atto di giustizia nel presente:
ricordare è rendere giustizia.
Scrivere
di loro, nominarli, farne memoria non è pietismo.
È
resistenza.
Perché
ciò che non viene nominato smette di esistere.
E
l’algoritmo questo lo sa bene.
Non
è la mancanza di notizie a renderci ciechi, ma la loro trasformazione in rumore.
Centosedici
morti diventano uno scorrimento veloce, una notifica che non interrompe davvero
nulla. Il sistema funziona quando non ci fermiamo.
E
invece fermarsi è l’unica cosa da fare.
Fermarsi
a dire che dietro ogni numero c’era una voce, un volto, una storia che non
conosceremo mai — e che proprio per questo ci riguarda.
Ricordare
queste 116 persone non le riporterà indietro.
Ma
ci impedisce di diventare complici dell’oblio.
Ci
obbliga a restare umani in un tempo che premia la distrazione.
Ci
ricorda che nessun algoritmo può decidere quali vite contano.
Finché
continueremo a scriverne, a dirne i numeri come nomi mancanti, a farne memoria
pubblica, l’algoritmo non avrà vinto.
E
forse nemmeno noi avremo perso del tutto.
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