contro
la facile abitudine
Testimone degli sforzi di molti per
resistere alla disperazione, Svetlana Panič condivide la sua riflessione su
cosa significhi sperare oggi, riscoprendo la novità insita in ogni cosa.
Pubblichiamo un estratto dell’incontro tenutosi a Varese il 3 novembre 2025.
-di
Svetlana Panič *
«Benché
prossimo alla tomba
Io credo, verrà il tempo in cui
La forza dell’astio e della viltà
Sarà vinta dallo spirito del bene»
(B.
Pasternak, Premio Nobel, 1959)
È
molto difficile e impegnativo dire in cosa consista per noi la speranza, intesa
non come ideale ingenuo, né come virtù astratta, ma come la speranza
ragionevole, sobria, lucida, «senza vergogna» di cui parla san Paolo, la sola a
cui ora possiamo aggrapparci.
La
prima difficoltà che si presenta è che non è chiaro come parlarne. È del tutto
evidente che noi, generazione che vive i primi decenni del XXI secolo, eravamo
convinti di aver imparato la lezione delle catastrofi del secolo precedente,
pensavamo di essere tecnologicamente e psicologicamente più illuminati e per
certi versi anche più umani, consapevoli della fragilità dell’uomo e del mondo.
Ma
non eravamo affatto preparati né alla pandemia, né alla “svolta a destra”, né
al fatto che ci saremmo trovati nel mezzo di due guerre che hanno sconvolto
tutte le nostre convinzioni, apparentemente consolidate nella seconda metà del
XX secolo. Si è scoperto che non abbiamo un linguaggio per descrivere tutto
questo. Il linguaggio politico e sociologico forse si sta sviluppando, ma non
esiste ancora un linguaggio teologico, una narrativa cristiana che riesca a
dire qualcosa se non di profetico, quanto meno di consolatorio e rassicurante.
Anche
la tradizionale narrativa cristiana sulla consolazione e sulla speranza, come
si è visto, non funziona più, quel linguaggio non era pronto a descrivere ciò
che sta accadendo ora a noi e al mondo.
Si
potrebbe così cadere nella disperazione di un “nuovo mutismo”, ma,
fortunatamente, abbiamo maestri di speranza che hanno vissuto in tempi non meno
catastrofici, e Boris
Pasternak è uno di loro. Il 14 agosto 1946 fu emanata la risoluzione
contro le riviste Zvezda e Leningrad, dichiarate
portavoce di «un’ideologia estranea allo spirito del partito» e iniziarono le
persecuzioni contro Anna Achmatova, altri poeti e scrittori «privi di idee».
Pasternak era ben consapevole che questa volta le persecuzioni avrebbero
colpito anche lui, ed era ormai evidente che le aspettative di un miglioramento
sociale con la fine della guerra non si sarebbero realizzate. Inoltre, apprese
della morte dei suoi amici più cari, in guerra o per mano dei carnefici di
Stalin. Di questo periodo Pasternak racconterà dieci anni dopo, in una poesia
rivolta al principale protagonista delle sue liriche, l’anima, con cui instaura
un dialogo, come nella tradizione salmodica:
Anima
mia che trepidi
per quelli che mi attorniano,
sei divenuta il loculo
dei martoriati vivi.
[…]
nel
nostro tempo egoistico
per scrupolo e paura,
come urna funeraria
tu ne ospiti le ceneri.
(B.
Pasternak, Anima, 1956).
Eppure,
negli stessi anni scrive anche:
«Si
potrà vincere la morte
Con lo sforzo della resurrezione»
(B.
Pasternak Nella settimana santa, 1948).
O,
come recita la poesia Premio Nobel [citata in esergo] scritta
nel pieno della persecuzione sovietica per essere stato insignito del
prestigioso premio internazionale:
«La
forza dell’astio e della viltà
Sarà vinta dallo spirito del bene»
(B.
Pasternak, Premio Nobel, 1959).
Ora,
rileggendo questi versi nel mezzo dell’attuale «viltà e astio», che minacciano
una catastrofe antropologica,
viene
spontaneo chiedersi: da dove veniva la certezza che «lo spirito del bene»
sicuramente prevarrà, quando la realtà sembra smentirlo completamente?
Qui
viene in aiuto un altro «maestro di speranza», Charles Péguy, il quale scriveva
che la speranza non si contrappone allo scoraggiamento, ma all’abitudine, al
rifiuto della novità, perché «la cosa facile e la tendenza è disperare»
(Charles Péguy, Il portico del mistero della seconda virtù, 1911).
Ricordiamo
che per Péguy la speranza è una bambina «piccola» e «debole», per nulla vivace,
positiva e ottimista nel senso inteso dalla cultura popolare e dalla psicologia
di massa. È una creatura piuttosto vulnerabile, «vacillante al soffio del
peccato, tremante a tutti i venti» e allo stesso tempo «stabile, fedele,
dritta, pura, invincibile», ricorda la Sapienza biblica, ma allo stesso tempo,
come ogni bambino incorrotto, è pronta ad aprirsi al nuovo e allo stupore.
«E
la mia piccola speranza
ogni giorno si alza dal suo lettino e
ci dice: buongiorno!»
(Charles
Péguy, Il mistero dei santi innocenti, 1919).
Questa
apertura al «buongiorno», cioè alla novità, è lo «sforzo della resurrezione» di
cui parla Pasternak. Nella tradizione ebraica esiste una benedizione speciale
per le novità, che inizia con un ringraziamento ad Hashem [il
Nome di Dio] per averci protetto e averci permesso di arrivare al giorno in cui
possiamo indossare un vestito nuovo o mangiare il primo arancio dell’anno,
incontrare una persona nuova.
C’è
anche una preghiera speciale in cui si chiede: «aiutaci a vivere la novità di
ogni giorno». Questa novità può essere rischiosa, difficile, a volte sembra che
sarebbe meglio se non ci fosse e tutto rimanesse com’è. Ma ogni mattina dico a
me stessa che, pensandoci bene, questo è il primo giorno, che non c’è mai stato
prima né ci sarà più, e in esso si compie la storia, come una domanda rivolta a
me, sul mio coinvolgimento e la mia collaborazione in questa storia.
E
ricordiamo ancora una volta Péguy:
«E
la mia piccola speranza
Ogni sera si corica nel lettino
E, dopo aver recitato le preghiere della sera, dorme tranquilla,
Per accogliere il mattino che sorge
Con una nuova parola e una nuova preghiera».
Cos’altro
si può definire «sforzo della resurrezione»? Lo sforzo ascetico, cioè che
richiede il rigore e la costanza di raccogliere «i frammenti della propria
mente sbriciolata a poco a poco dai macigni delle «ultime notizie», e di
cercare di comprendere la realtà rifiutando le stigmatizzazioni e le
generalizzazioni ideologiche come «tutti loro» («russi, ucraini, abitanti di
Gaza, israeliani»), molto vantaggiose per la propaganda dei regimi totalitari.
In altre parole, è lo sforzo di rifiutare le abitudini, questa volta
intellettuali, lo sforzo di rinunciare alle illusioni di onniscienza e di
onnicomprensione per lasciare spazio agli interrogativi.
È,
infine, lo sforzo della compassione, dell’empatia e della solidarietà. E qui ci
viene in aiuto un’altra maestra di speranza, madre Marija Skobcova, la santa di Parigi:
«Non
pensare a cosa e a come, non puoi creare niente di più grande delle parole
“amatevi gli uni gli altri”, ma fino in fondo e senza eccezioni, e allora tutto
sarà perdonato e tutta la vita sarà santificata. Altrimenti sarà solo abominio
e pesantezza».
*Svetlana
Panič
Filologa,
è stata ricercatrice presso l’Istituto Solženicyn di Mosca fino al 2017, ora è
traduttrice e ricercatrice indipendente.
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