programmi
troppo densi.
Serve meno ma meglio: pochi studenti
acquisiscono consapevolezza, gli altri restano indietro”
Nei
giorni scorsi l’autore ha partecipato a Udine al VI Congresso
nazionale della Federazione Italiana Mathesis intitolato “Didattica
della matematica nell’era digitale, tra innovazione, creatività e tecnologia”.E
domani, Gouthier sarà a Roma dove il suo libro “Matematica fuori dalle
regole” è finalista al Premio Nazionale di
Divulgazione Scientifica, promosso, tra gli altri, da CNR e RAI Scuola.
Un’eccezione, visto che i libri di matematica raramente sono protagonisti di
questa fase finale.
Professor
Daniele Gouthier, quali sono i problemi della didattica della matematica
nell’era digitale, tanto per riprendere il titolo del Congresso di Udine?
L’era
digitale aggiunge aggravanti ma i problemi sono analogici e tradizionali e poco
figli dell’era digitale.
Qual
è il problema più urgente?
È
sempre più importante formare alla matematica i non matematici. Il mondo del
lavoro richiede competenze. La democrazia richiede una consapevolezza che
permetta ad esempio di leggere dati e grafici, almeno alcuni. Quindi c’è
bisogno di una riflessione – che non vedo – su quale didattica della matematica
dare all’ottanta per cento della popolazione che non ha fatto una solida
consapevolezza matematica ma che ha diritto ad avere strumenti di pensiero. A
questo proposito io vedo quattro problemi. Il primo è di ordine teorico: quale
matematica serve ai cittadini non matematici di domani? Quando lo studente sarà
diventato adulto di cosa avrà bisogno?
E
quali sono le risposte date dalla comunità scientifica o scolastica?
Queste
riflessioni non si fanno o, nel miglior dei casi, non vengono a galla, non sono
portate a compimento.
Perché
non si fanno?
Il
perché onestamente non lo so. Quello che io vedo nella parte più matematica
della comunità è che c’è un’attenzione forte per gli aspetti tecnici, molto
specialistici, e poca per quelli culturali. La matematica ha più dimensioni:
tra queste, una funzionale e una culturale. È fatta dagli uomini in epoche e
luoghi diversi, ma questo a scuola non ha cittadinanza. Tutto è ridotto a
tecnica e operatività. Ci sarebbe anche una dimensione etica: la matematica ci
insegna ad avere comportamenti e chiavi di lettura del mondo che hanno un
valore: mettere al centro l’uguaglianza, ad esempio, astrarre e generalizzare,
per non ridurre tutto e sempre alla sola esperienza individuale, aneddotica. Io
vedo nei matematici un’attenzione maggiore alla dimensione specialistica e
molto meno a quelle culturale ed etica e questo si riflette anche sulla mancata
riflessione su cosa serve ai cittadini non matematici.
Come
entra la scuola in questa riflessione?
Qui
c’è un punto più interno alla scuola. Io respiro una grande fatica: alla scuola
viene chiesto troppo, di tutto. La scuola è stata sovraccaricata di tante
richieste e di tante aspettative, mentre avremmo bisogno di un insegnamento più
leggero. Un insegnamento che consenta di sostare, cioè di stare sui contenuti.
Perché
è importante sostare?
Perché
esistono molte forme di intelligenza. In un’aula ci sono quelli che sono bravi
con il calcolo, quelli bravi con la rappresentazione, quelli con
l’argomentazione e così via: dobbiamo dare spazio a tutte queste persone. Se
aumentiamo i contenuti inevitabilmente corriamo dietro agli aspetti tecnici e
selezioniamo come bravi in matematica quelli che sono bravi nel calcolo e nella
tecnica. E questo penalizza l’apprendimento.
Eppure,
molti docenti si limitano a dire che è sempre stato così.
È
sempre stato così ma oggi è molto pesante. Se va a vedere i programmi dei licei
dei nostri tempi c’erano molti meno contenuti, meno esercizi. Un tempo nei
libri c’erano circa 5.000 esercizi, oggi un libro della scuola media ne ha
15.000 e questo non consente di distinguere ciò che è importante da ciò che non
lo è: occorre alleggerire.
E
com’è vissuta questa istanza di alleggerimento da parte della comunità?
Tutti
sono d’accordo quando si parla degli ordini di scuola che precedono il proprio.
Poi quando vado dagli insegnanti della scuola media mi sento dire che occorre
fare tanto perché servirà alle superiori. E alle elementari è lo stesso.
Nessuno è disposto a rivedere la propria programmazione in modo da restringere
i contenuti, ognuno pensa che lo debbano fare gli altri, e alla fine non lo fa
nessuno.
Veniamo
al terzo punto
Il
terzo punto, collegato a una didattica più leggere e più lenta, è che dobbiamo
metterci d’accordo sui saperi minimi. Il Ministero dell’Istruzione dice: devi
muoverti in questo campo, ma non dice che cosa devono sapere al minimo i
ragazzi alla fine di ogni ciclo. Ad esempio, le potenze e le radici quadrate
sono da sapere alle medie oppure no? Con che profondità? A che livello? E alla
primaria è importante conoscere la forma della figura o è importante calcolare
l’area? Dobbiamo individuare i saperi minimi altrimenti si fa sempre di più,
con conseguente ansia da prestazione.
Spesso
sono le famiglie a chiedere di più, specie alla primaria, quando i genitori si
accorgono che in qualche altra classe parallela a quella frequentata dai figli
si è più avanti nel programma. È così?
Proprio
così. La questione delle famiglie si collega tra l’altro alla sicurezza di sé
degli insegnanti, che si sentono in questo momento sotto attacco proprio delle
famiglie. E se non concordiamo sui saperi minimi gli insegnanti si livellano
verso l’alto sulle Indicazioni nazionali e sui libri di testo, che poi sono la
stessa cosa. E questo non va perché si finisce per pensare che si debba fare
tutto quello che c’è scritto nel libro.
Questo
succede specialmente quando i docenti sono alle prime armi.
È
vero o quando hanno, per ragioni legittime di formazione e di storia di vita,
una consapevolezza matematica non amplissima.
Veniamo
al quarto aspetto.
Il
quarto punto è che la matematica è una disciplina nella quale molti di coloro
che la insegnano non si sentono o non sono adeguati a farlo.
Che
cosa intende?
Le
maestre hanno spesso una formazione matematica debole e chi insegna alle medie
ha una laurea in scienze biologiche, in chimica, in scienze naturali, in
scienza della nutrizione, cioè ha una formazione matematica poco solida e
spesso insegna sulla difensiva, essendo a disagio. E questo in un futuro
prossimo succederà anche alle superiori, perché il mercato del lavoro attira i
laureati a fare lavori diversi dall’insegnamento, attrae verso professioni con
un miglior riconoscimento economico e sociale. Sembra che svolgere un lavoro di
tipo matematico in un altro contesto sia meglio che farlo a scuola: io non la
penso così ma quello che conta, ci piaccia o meno, è la considerazione sociale.
E dunque come facciamo ad aiutare le persone che insegnano matematica – verso
le quali dobbiamo avere rispetto e gratitudine per il ruolo che ricoprono – a
insegnarla in modo significativo? È un problema che ci dobbiamo porre.
Come
si fa, secondo lei?
Un
punto centrale è favorire il confronto. Trovare i modi per costruire una
formazione tra pari: colleghi che formano colleghi. Abbiamo bisogno che inizino
a emergere insegnanti di matematica che siano autorevoli per i colleghi. Che si
dia spazio a chi studia la matematica e il suo insegnamento per favorire la
crescita di una comunità insegnante che si ponga il problema dello scambio, del
confronto a favore di una dinamica che faccia fare un passo avanti a tutti.
Questo
richiede tanta umiltà.
Serve
umiltà e occorre che sul territorio ci siano sedi di dialogo che a me piace
immaginare come dei “tè della matematica”, luoghi dove ci si confronti sulla
matematica; luoghi nei quali insegnanti di ogni ordine e grado si trovino anche
in maniera informale. Io partirei da qui per favorire un maggior dialogo tra
insegnanti dei diversi ordini di scuola.
Tutto
questo perché?
Vorrei
che chi insegna ai bambini più piccoli avesse una visione dei contenuti
previsti negli ordini di scuola successivi: non voglio che una maestra parli
dei polinomi ma voglio che sappia che poi i suoi allievi dovranno affrontarli,
e che presti attenzione a non creare i germi di future misconcezioni. Nel verso
opposto, è necessario che gli insegnanti delle superiori sappiano quali sono i
cambiamenti sociali che stanno emergendo, cambiamenti che le maestre vivono
alcuni anni prima di loro. Si pensi se l’avessimo fatto quanto hanno iniziato a
emergere problemi seri di comprensione del testo: se avessimo avuto queste
occasioni di scambio, gli insegnanti delle superiori avrebbero avuto, prima,
gli elementi per affrontare questa ondata problematica. Ci sono professionalità,
esperienze, qualità a tutti i livelli: dobbiamo favorire lo scambio e l’osmosi
per un insegnamento della matematica meglio coordinato e armonizzato.
Perché
non ci sono questi suoi “tè della matematica”?
Io
qualche idea ce l’ho. Penso che siamo in un’epoca molto individualista, in
generale, anche fuori dalla scuola, nella quale ognuno è convinto di bastare a
sé stesso, e così il confronto non parte nemmeno. Una seconda ragione è che la
scuola è oberata da momenti di incontro che non hanno alcun significato e
impatto e dunque qualsiasi offerta di incontro ulteriore viene vista come una
perdita di tempo e come una fonte di pressione e stress.
I
tanti docenti nostalgici della scuola di una volta sostengono
che tante preoccupazioni sono superflue, che per ottenere i risultati di una
volta sarebbe sufficiente tornare a essere severi con gli studenti e bocciare
quando gli studenti non raggiungono gli obiettivi.
Intanto una
volta non c’era l’obbligo scolastico che c’è oggi e non è che tutti
noi che abbiamo conseguito quell’obbligo siamo andati alle superiori. La
popolazione che proseguiva oltre le medie era più selezionata e motivata allo
studio ed è chiaro che di conseguenza riusciva meglio. Cinquant’anni orsono ci
ponevamo molto meno l’obiettivo di non lasciarci indietro qualcuno, e se
qualcuno abbandonava la scuola la preoccupazione generale era molto scarsa: non
era un tema in agenda tanto quanto lo è oggi. E si potrebbe continuare con le
differenze sociali e culturali. Fare questi confronti è scorretto: stiamo
parlando di due universi troppo diversi.
Tornando
alla didattica della matematica, molti insegnanti pensano che per risolvere un
problema matematico ci sia una sola strategia e impongono quella agli alunni.
Del resto, si dice che la matematica non è un’opinione.
È
vero che lo si dice… ma non è proprio così. Di fronte a un problema ci possiamo
muovere in maniere diverse, possiamo esercitare la nostra libertà di pensiero e
di creatività. Occorre spingere alla costruzione del pensiero autonomo ma anche
all’esperienza del trovarsi in difficoltà. Molto spesso si pensa che tutto va
bene quando tutto è facile: la matematica, invece, non si capisce al primo
colpo. In matematica occorre sperimentare gli errori, trovarsi in difficoltà, e
se vogliamo che i ragazzi maturino un proprio pensiero, non possiamo immaginare
che questo accada in poco tempo, quasi schiacciando un bottone: abbiamo bisogno
che facciano i propri tentativi, che sbaglino e che riprovino. Meglio una
risoluzione sbagliata, che però è autentica e “propria”, piuttosto che una
procedura replicata in modo meccanico.
E
invece?
E
invece c’è la spinta a una matematica nella quale imitiamo ragionamenti fatti
da altri senza un’autonomia di pensiero.
Nessun commento:
Posta un commento