martedì 16 dicembre 2025

MATEMATICA IN CRISI

 


Matematica in crisi,

 programmi 

troppo densi.

Serve meno ma meglio: pochi studenti acquisiscono consapevolezza, gli altri restano indietro”

 

-di Vincenzo Brancatisano

 L’insegnamento e l’apprendimento della matematica sono in crisi: solo una minoranza di studenti acquisisce una reale consapevolezza, mentre la maggior parte resta indietro”. Daniele Gouthier, matematico, formatore e autore di ben conosciuti libri di testo scolastici, saggi e non solo, accende un faro su quella maggioranza di studenti che un po’ in tutti gli ordini di scuola fa fatica a capire la matematica, come dimostrano i dati sempre più scoraggianti sugli apprendimenti della materia, un sommerso nel quale si stenta ad agire in maniera efficace. Ma “è a questi sommersi che la scuola deve guardare – insiste Gouthier, che è anche docente al Master in Comunicazione della Scienza della Sissa di Trieste – perché nel mondo del lavoro sempre più matematizzato e in una democrazia fondata su temi tecnico-scientifici non possiamo permetterci cittadini privi di alfabetizzazione matematica”.

 Non si tratta di far diventare tutti matematici o scienziati, o immaginare che tutti siano potenzialmente matematici, come pure spesso si pretenderebbe, in classe, nel momento in cui si esige da tutti la stessa prestazione dimenticando l’esistenza di intelligenze multiple: si tratta semmai di attrezzarsi al meglio per individuare la matematica che serve a quanti matematici non saranno ma che del ragionamento e del pensiero razionale non potranno fare a meno se non a pena di conseguenze personali e di un indebolimento collettivo di una democrazia, che ne risulta incompiuta sul versante della comprensione dei fenomeni sociali e politici. E quando chiediamo a Gouthier di indicarci le cause di tutto questo, lui ne indica due tra le principali: “Programmi troppo densi e affrettati – soprattutto nei primi anni – e insegnanti spesso senza una preparazione matematica profonda, costretti a ripararsi in tecnicismi e regolette”. E allora che cosa servirebbe? “Serve meno ma meglio: serve selezionare pochi contenuti essenziali, lavorati con lentezza, e serve definire i saperi minimi per il cittadino non matematico. Occorre dare voce agli insegnanti, promuovere formazione tra pari e creare spazi di confronto verticale tra diversi ordini di scuola. Solo attraverso dialogo, supporto reciproco e scelte consapevoli è possibile rispondere alla crisi attuale”.

Nei giorni scorsi l’autore ha partecipato a Udine al VI Congresso nazionale della Federazione Italiana Mathesis intitolato “Didattica della matematica nell’era digitale, tra innovazione, creatività e tecnologia”.E domani, Gouthier sarà a Roma dove il suo libro “Matematica fuori dalle regole” è finalista al Premio Nazionale di Divulgazione Scientifica, promosso, tra gli altri, da CNR e RAI Scuola. Un’eccezione, visto che i libri di matematica raramente sono protagonisti di questa fase finale.

Professor Daniele Gouthier, quali sono i problemi della didattica della matematica nell’era digitale, tanto per riprendere il titolo del Congresso di Udine?

L’era digitale aggiunge aggravanti ma i problemi sono analogici e tradizionali e poco figli dell’era digitale.

Qual è il problema più urgente?

È sempre più importante formare alla matematica i non matematici. Il mondo del lavoro richiede competenze. La democrazia richiede una consapevolezza che permetta ad esempio di leggere dati e grafici, almeno alcuni. Quindi c’è bisogno di una riflessione – che non vedo – su quale didattica della matematica dare all’ottanta per cento della popolazione che non ha fatto una solida consapevolezza matematica ma che ha diritto ad avere strumenti di pensiero. A questo proposito io vedo quattro problemi. Il primo è di ordine teorico: quale matematica serve ai cittadini non matematici di domani? Quando lo studente sarà diventato adulto di cosa avrà bisogno?

E quali sono le risposte date dalla comunità scientifica o scolastica?

Queste riflessioni non si fanno o, nel miglior dei casi, non vengono a galla, non sono portate a compimento.

Perché non si fanno?

Il perché onestamente non lo so. Quello che io vedo nella parte più matematica della comunità è che c’è un’attenzione forte per gli aspetti tecnici, molto specialistici, e poca per quelli culturali. La matematica ha più dimensioni: tra queste, una funzionale e una culturale. È fatta dagli uomini in epoche e luoghi diversi, ma questo a scuola non ha cittadinanza. Tutto è ridotto a tecnica e operatività. Ci sarebbe anche una dimensione etica: la matematica ci insegna ad avere comportamenti e chiavi di lettura del mondo che hanno un valore: mettere al centro l’uguaglianza, ad esempio, astrarre e generalizzare, per non ridurre tutto e sempre alla sola esperienza individuale, aneddotica. Io vedo nei matematici un’attenzione maggiore alla dimensione specialistica e molto meno a quelle culturale ed etica e questo si riflette anche sulla mancata riflessione su cosa serve ai cittadini non matematici.

Come entra la scuola in questa riflessione?

Qui c’è un punto più interno alla scuola. Io respiro una grande fatica: alla scuola viene chiesto troppo, di tutto. La scuola è stata sovraccaricata di tante richieste e di tante aspettative, mentre avremmo bisogno di un insegnamento più leggero. Un insegnamento che consenta di sostare, cioè di stare sui contenuti.

Perché è importante sostare?

Perché esistono molte forme di intelligenza. In un’aula ci sono quelli che sono bravi con il calcolo, quelli bravi con la rappresentazione, quelli con l’argomentazione e così via: dobbiamo dare spazio a tutte queste persone. Se aumentiamo i contenuti inevitabilmente corriamo dietro agli aspetti tecnici e selezioniamo come bravi in matematica quelli che sono bravi nel calcolo e nella tecnica. E questo penalizza l’apprendimento.

Eppure, molti docenti si limitano a dire che è sempre stato così.

È sempre stato così ma oggi è molto pesante. Se va a vedere i programmi dei licei dei nostri tempi c’erano molti meno contenuti, meno esercizi. Un tempo nei libri c’erano circa 5.000 esercizi, oggi un libro della scuola media ne ha 15.000 e questo non consente di distinguere ciò che è importante da ciò che non lo è: occorre alleggerire.

E com’è vissuta questa istanza di alleggerimento da parte della comunità?

Tutti sono d’accordo quando si parla degli ordini di scuola che precedono il proprio. Poi quando vado dagli insegnanti della scuola media mi sento dire che occorre fare tanto perché servirà alle superiori. E alle elementari è lo stesso. Nessuno è disposto a rivedere la propria programmazione in modo da restringere i contenuti, ognuno pensa che lo debbano fare gli altri, e alla fine non lo fa nessuno.

Veniamo al terzo punto

Il terzo punto, collegato a una didattica più leggere e più lenta, è che dobbiamo metterci d’accordo sui saperi minimi. Il Ministero dell’Istruzione dice: devi muoverti in questo campo, ma non dice che cosa devono sapere al minimo i ragazzi alla fine di ogni ciclo. Ad esempio, le potenze e le radici quadrate sono da sapere alle medie oppure no? Con che profondità? A che livello? E alla primaria è importante conoscere la forma della figura o è importante calcolare l’area? Dobbiamo individuare i saperi minimi altrimenti si fa sempre di più, con conseguente ansia da prestazione.

Spesso sono le famiglie a chiedere di più, specie alla primaria, quando i genitori si accorgono che in qualche altra classe parallela a quella frequentata dai figli si è più avanti nel programma. È così?

Proprio così. La questione delle famiglie si collega tra l’altro alla sicurezza di sé degli insegnanti, che si sentono in questo momento sotto attacco proprio delle famiglie. E se non concordiamo sui saperi minimi gli insegnanti si livellano verso l’alto sulle Indicazioni nazionali e sui libri di testo, che poi sono la stessa cosa. E questo non va perché si finisce per pensare che si debba fare tutto quello che c’è scritto nel libro.

Questo succede specialmente quando i docenti sono alle prime armi.

È vero o quando hanno, per ragioni legittime di formazione e di storia di vita, una consapevolezza matematica non amplissima.

Veniamo al quarto aspetto.

Il quarto punto è che la matematica è una disciplina nella quale molti di coloro che la insegnano non si sentono o non sono adeguati a farlo.

Che cosa intende?

Le maestre hanno spesso una formazione matematica debole e chi insegna alle medie ha una laurea in scienze biologiche, in chimica, in scienze naturali, in scienza della nutrizione, cioè ha una formazione matematica poco solida e spesso insegna sulla difensiva, essendo a disagio. E questo in un futuro prossimo succederà anche alle superiori, perché il mercato del lavoro attira i laureati a fare lavori diversi dall’insegnamento, attrae verso professioni con un miglior riconoscimento economico e sociale. Sembra che svolgere un lavoro di tipo matematico in un altro contesto sia meglio che farlo a scuola: io non la penso così ma quello che conta, ci piaccia o meno, è la considerazione sociale. E dunque come facciamo ad aiutare le persone che insegnano matematica – verso le quali dobbiamo avere rispetto e gratitudine per il ruolo che ricoprono – a insegnarla in modo significativo? È un problema che ci dobbiamo porre.

Come si fa, secondo lei?

Un punto centrale è favorire il confronto. Trovare i modi per costruire una formazione tra pari: colleghi che formano colleghi. Abbiamo bisogno che inizino a emergere insegnanti di matematica che siano autorevoli per i colleghi. Che si dia spazio a chi studia la matematica e il suo insegnamento per favorire la crescita di una comunità insegnante che si ponga il problema dello scambio, del confronto a favore di una dinamica che faccia fare un passo avanti a tutti.

Questo richiede tanta umiltà.

Serve umiltà e occorre che sul territorio ci siano sedi di dialogo che a me piace immaginare come dei “tè della matematica”, luoghi dove ci si confronti sulla matematica; luoghi nei quali insegnanti di ogni ordine e grado si trovino anche in maniera informale. Io partirei da qui per favorire un maggior dialogo tra insegnanti dei diversi ordini di scuola.

Tutto questo perché?

Vorrei che chi insegna ai bambini più piccoli avesse una visione dei contenuti previsti negli ordini di scuola successivi: non voglio che una maestra parli dei polinomi ma voglio che sappia che poi i suoi allievi dovranno affrontarli, e che presti attenzione a non creare i germi di future misconcezioni. Nel verso opposto, è necessario che gli insegnanti delle superiori sappiano quali sono i cambiamenti sociali che stanno emergendo, cambiamenti che le maestre vivono alcuni anni prima di loro. Si pensi se l’avessimo fatto quanto hanno iniziato a emergere problemi seri di comprensione del testo: se avessimo avuto queste occasioni di scambio, gli insegnanti delle superiori avrebbero avuto, prima, gli elementi per affrontare questa ondata problematica. Ci sono professionalità, esperienze, qualità a tutti i livelli: dobbiamo favorire lo scambio e l’osmosi per un insegnamento della matematica meglio coordinato e armonizzato.

Perché non ci sono questi suoi “tè della matematica”?

Io qualche idea ce l’ho. Penso che siamo in un’epoca molto individualista, in generale, anche fuori dalla scuola, nella quale ognuno è convinto di bastare a sé stesso, e così il confronto non parte nemmeno. Una seconda ragione è che la scuola è oberata da momenti di incontro che non hanno alcun significato e impatto e dunque qualsiasi offerta di incontro ulteriore viene vista come una perdita di tempo e come una fonte di pressione e stress.

I tanti docenti nostalgici della scuola di una volta sostengono che tante preoccupazioni sono superflue, che per ottenere i risultati di una volta sarebbe sufficiente tornare a essere severi con gli studenti e bocciare quando gli studenti non raggiungono gli obiettivi.

Intanto una volta non c’era l’obbligo scolastico che c’è oggi e non è che tutti noi che abbiamo conseguito quell’obbligo siamo andati alle superiori. La popolazione che proseguiva oltre le medie era più selezionata e motivata allo studio ed è chiaro che di conseguenza riusciva meglio. Cinquant’anni orsono ci ponevamo molto meno l’obiettivo di non lasciarci indietro qualcuno, e se qualcuno abbandonava la scuola la preoccupazione generale era molto scarsa: non era un tema in agenda tanto quanto lo è oggi. E si potrebbe continuare con le differenze sociali e culturali. Fare questi confronti è scorretto: stiamo parlando di due universi troppo diversi.

Tornando alla didattica della matematica, molti insegnanti pensano che per risolvere un problema matematico ci sia una sola strategia e impongono quella agli alunni. Del resto, si dice che la matematica non è un’opinione.

È vero che lo si dice… ma non è proprio così. Di fronte a un problema ci possiamo muovere in maniere diverse, possiamo esercitare la nostra libertà di pensiero e di creatività. Occorre spingere alla costruzione del pensiero autonomo ma anche all’esperienza del trovarsi in difficoltà. Molto spesso si pensa che tutto va bene quando tutto è facile: la matematica, invece, non si capisce al primo colpo. In matematica occorre sperimentare gli errori, trovarsi in difficoltà, e se vogliamo che i ragazzi maturino un proprio pensiero, non possiamo immaginare che questo accada in poco tempo, quasi schiacciando un bottone: abbiamo bisogno che facciano i propri tentativi, che sbaglino e che riprovino. Meglio una risoluzione sbagliata, che però è autentica e “propria”, piuttosto che una procedura replicata in modo meccanico.

E invece?

E invece c’è la spinta a una matematica nella quale imitiamo ragionamenti fatti da altri senza un’autonomia di pensiero.

 Orizzonte scuola

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