Il
quotidiano nasconde
l'anima delle persone
e ci mostra solo la loro maschera.
Me
ne rendo conto quando leggo ai genitori uno scritto dei figli e si stupiscono
della vita interiore di chi, in casa, usa monosillabi o, se in vena, un gergo
incerto. La convivenza quotidiana rende opaca l'anima, perché ordinariamente è
l'ego che mandiamo avanti, cioè quella maschera forgiata dalle ferite che la
vita ci ha inferto quando ci siamo affidati senza riserve al mondo e agli
adulti.
-di
Alessandro D’Avenia
La
maschera è un'armatura costruita per proteggerci, una scorza di lamentele,
pretese e accuse forgiata dalla rabbia per l'amore che non ci è stato dato, le
paure che ci sono state trasmesse, i giudizi che ci hanno inflitto, le bugie
che ci hanno raccontato. Qualcosa però dentro di noi sa che la vita può e deve
essere altro. È l'anima - dal greco anemos, soffio – una metafora che da secoli
usiamo per indicare la vita spirituale: verità sotto l'armatura, libertà che
consente di sentire il dolore delle ferite senza sparirvi dentro, perché la
vita resta sempre oltre le catene che gli umani le impongono, oltre le loro
trappole per controllarla. L'anima sente la ferita, ne soffre, ma non vi si
identifica, e così cerca la cura, libera le energie bloccate da paura e rabbia
e spezza l'armatura. Scrittura, lettura e altre pratiche d'anima (spirituali)
consentono di contattare l'anima e darle forza togliendola alla maschera,
conquistando poco a poco libertà e gioia. Oggi prima dell'educazione affettiva
è necessaria quella spirituale, da cui la prima dipende. Ne ho avuto conferma
grazie a un compito fatto da quattordicenni...
I
ragazzi dovevano immedesimarsi in Telemaco che, alla fine del primo canto dell'Odissea, rimane sveglio un'intera notte a pensare al
viaggio che avrebbe intrapreso in cerca del padre, un viaggio per mare, e
quindi a rischio di vita e di grande delusione e dolore. Ho chiesto loro di
provare a narrare i pensieri su cui Omero sorvola. In quella notte letteraria ciascuno ha
proiettato la propria notte spirituale, cioè dove l'anima affronta l'ego e lo
spoglia delle maschere. Sintetizzo con le righe finali di uno scritto: “Questi
erano pensieri da adulti, pensieri che non aveva mai avuto prima. E così si
pose altre domande. Vuol dire questo diventare grandi? È questo che si
prova?”.
Contattare
l'anima è mettere un'intercapedine tra sé e le trappole del mondo, una distanza
tra la vita e le catene, per liberarsi. Porre domande è aprire questo spazio,
noto come dialogo interiore (lo specifico umano è questa relazione con noi
stessi: noi siamo due), che, quando la risposta è ardua, insceniamo ad alta
voce: “parla da solo, è pazzo”, proprio il contrario, vuole evitare la pazzia,
si apre alla relazione con se stesso, si ascolta o ci prova. Il domandare viene
dalla vita e la libera dalle risposte autoprotettive e rigide dell'ego, dettate
dagli automatismi della paura e della rabbia. Lo spiega a un giovane, che gli
aveva scritto per ricevere consiglio, il poeta Rainer Maria Rilke: “Tutto ti diverrà più facile, armonico
e conciliante, non forse nell’intelletto, che resta indietro attonito, ma nella
tua più intima coscienza, che veglia e sa. Tu sei così giovane, così al di qua
d’ogni inizio, e io ti vorrei pregare di aver pazienza verso quanto non è
ancora risolto nel tuo cuore, e tentare di aver care le domande stesse come
stanze serrate e libri scritti in una lingua molto straniera. Non cercare ora
risposte che non possono venirti date perché non le potresti vivere. E di
questo si tratta, di vivere tutto.
Vivi
ora le domande. Forse t’avvicini così, poco a poco, senz’avvertirlo, a vivere
un giorno lontano la risposta. Educati a questo compito” (Lettere a un giovane poeta). Lo scrittore parla di una
coscienza intima che “veglia e sa”, la distingue dal ragionamento spesso
orientato dall'ego e che resta “attonito”. Questa coscienza è lo spazio vitale
(dove la vita parla) necessario, più di ogni altro a un adolescente, per “incarnare”
la risposta, è un vuoto percepito sulle prime come solitudine ma che in realtà
diventa “capacità” (metafora che implica il vuoto) di ricevere la vita, cioè le
risposte che la vita offre solo se la domanda è vissuta, incarnata.
Immaginatevi di avere un ottimo vino da condividere con gli amici ma di non
possedere bicchieri in casa: non avete “le capacità”.
Questa
solitudine, che è proprio la capacità di ricevere, è ben descritta da un altro
scritto di quel compito: “Avrebbe voluto piangere ma le lacrime non vennero. Si
limitò a restare lì, sveglio, immobile, ascoltando ogni suono della notte. Il
canto lontano di un gufo, il respiro del vento tra le travi, il battito del suo
cuore. L’oscurità era profonda, ma in fondo a quella notte nera ardeva una
piccola luce: la possibilità di cambiare, di crescere, di scoprire la verità. E
così Telemaco, figlio di Odisseo, restò sveglio. Non per paura, ma perché
sentiva che da quel momento nulla sarebbe stato più come prima. Il cuore
batteva forte, per ricordargli che era vivo, sveglio, e forse, per la prima
volta, davvero solo”.
Grazie
a questa solitudine si trovano risposte vitali, perché la meraviglia della
vita, come scriveva Kafka nei Diari, «se la si chiama con la parola giusta, col suo
giusto nome, arriva». Noi adulti diamo spesso ai ragazzi chiavi per serrature
solo nostre, risposte a domande mai fatte da loro, invece di ascoltare quelle
incarnate e allenare chi le pone a mantenerle, domande alle quali noi stessi
non abbiamo risposta o pensiamo di averla: “un giorno capirai” (il che
presuppone che noi abbiamo capito, ma allora perché non rispondiamo?). Qualche
settimana fa un amico si è sentito domandare dal figlio di sei anni: “Perché
viviamo se poi dobbiamo morire?”, e non si è avventurato in risposte difficili
o nascosto in un non lo so, ma gli ha risposto con l'elenco delle cose belle da
fare (purtroppo tra queste c'era anche tifare Inter...).
La
stessa domanda me l'ha posta, in un inglese ben scandito, una donna cinese in
vacanza in Italia, seduta accanto a me in aereo in una conversazione che ha
spaziato dal prezzo dei voli a: “Secondo te questa vita ha senso?”. Da 6 a 100
anni la domanda resta la stessa, e accade in una solitudine dolorosa ma
generativa, come un parto. Rilke risponde infatti così al giovane amico di
penna: “Ama la tua solitudine e sopporta il dolore che essa ti procura con
lamento armonioso.
Quelli
che ti sono vicini, dici, ti sono lontani, e ciò mostra che intorno a te
comincia a stendersi lo spazio. Rallegrati della tua crescita in cui non puoi
portare alcuno. La tua solitudine ti sarà sostegno e patria anche in mezzo a
circostanze molto estranee, e dal suo seno troverai tu tutti i tuoi cammini”.
Di questo dolore oggi noi vogliamo privare i ragazzi, ma tutti i cammini
veramente nostri iniziano lì, sono già nell'anima e dall'anima partono verso la
vita, e non dall'ego che o non cammina - imprigionato com'è nelle sue paure,
pregiudizi e pretese - o batte vie di altri che prima o poi sarà necessario
abbandonare al prezzo di crisi più o meno profonde. Niente come questa
solitudine mi ha liberato da certezze di cartapesta e mi ha fatto crescere l'anima,
perché è la capacità (in sequenza: vuoto, mancanza, desiderio, energia) di
ricevere la vita che solo io posso ricevere, come l'oro fuso nella forma vuota
per un gioiello. Educare anime ingombre di cianfrusaglie e bloccate da armature
e schermi, è dare spazio alla vita nella forma unica e irripetibile che hanno:
formare non è imporre una forma ma aiutare l'altro a scoprire la propria,
allenarlo a tenerla pulita perché la vita la riempia del suo oro fuso.
Ciò
avviene non solo grazie a lettura e scrittura (quest'ultima ci rende i primi
lettori di noi stessi) che è ciò che dovremmo insegnare a scuola, ma a tutto
ciò che crea lo spazio (natura, arte, amicizia, esercizio, amore, dolore,
silenzio) per farsi un'“anima viva”, cioè un’anima che prende le redini della
vita e non si fa sottomettere dal proprio ego o da quello altrui. Libera,
forte, gioiosa, creativa.
Corriere della Sera
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