UNO SGUARDO
AL PASSATO
E ALL'OGGI
-di
Giancarlo
Pani
Nelle
civiltà antiche, sia greca che romana ed ebraica, non era
grande la considerazione data ai bambini. L’elevata mortalità infantile, la
precarietà delle condizioni di vita a cui era esposta l’infanzia, la selezione
attuata da parte della società attraverso l’eliminazione dei più deboli
facevano sì che i bambini, salvo se provenienti da famiglie nobili o ricche,
venissero trattati senza particolari attenzioni o riguardi, come una sorta di
«realtà inconsistente». Nella grecità, il termine nepios, che
propriamente indica il «bambino», significava anche «ingenuo», «sciocco»; nel
mondo romano, i bambini che morivano prima di aver cambiato i denti da latte
non avevano diritto al funerale e la famiglia non era tenuta al lutto. Anche
nel mondo ebraico la situazione era simile, sia pure per ragioni diverse: i
bambini non avevano alcun valore, perché non erano in grado di osservare la
Legge. Non si discostavano da questa interpretazione riduttiva e mortificante
neppure gli apostoli di Gesù, i quali rimproveravano aspramente coloro che
permettevano ai bambini di avvicinarsi al Signore (cfr Mc 10,13; Mt 19,13; Lc 18,15).
L’avvento
del cristianesimo
Con
l’avvento del cristianesimo, la situazione cambiò radicalmente; la predicazione
evangelica operò un ribaltamento dei valori, e per Gesù il bambino divenne
emblema della disposizione necessaria per entrare nel regno dei cieli: «In
verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non
entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18,3). In un periodo storico e
in una cultura in cui all’infanzia non viene attribuito un valore proprio, la
frase risulta misteriosa, se non paradossale, perché certamente non è
pronunciata in senso metaforico o provocatorio. Eppure il Signore chiede di
«divenire» come i bambini, non di «restare bambini» o di «tornare a essere»
bambini; e in questo «divenire» si esprime l’intera parabola della crescita
dell’uomo, quel processo di formazione necessario per essere degni di entrare
nel Regno.
Nella
storia dell’umanità i richiami significativi rivolti ai bambini sono pochi;
alcuni rivestono un valore particolare e vanno ricordati. Nel Talmud
babilonese (un’opera del III-V secolo) si ritiene che la profezia,
nella sua forma specifica, fosse cessata con la distruzione del primo Tempio.
Quando morirono gli ultimi profeti – Aggeo, Zaccaria e Malachia – lo Spirito
Santo si allontanò da Israele[1]. Secondo
alcuni rabbini la profezia sarebbe passata ai saggi. Tuttavia, secondo altri,
essa sarebbe rimasta negli infermi di mente e nei bambini, come testimonia il
rabbi Yohanan: «Dal giorno in cui il Tempio venne distrutto, la profezia venne
tolta ai profeti e data ai pazzi e ai bambini»[2]. Sebbene
queste parole riflettano un contesto polemico, dettato dalla continua
autoproclamazione di sedicenti profeti e liberatori d’Israele, l’accenno ai
bambini resta comunque misterioso. Tuttavia, poiché il compito del profeta era
quello di richiamare il popolo alla parola di Dio e di esortarlo alla
conversione, il bambino potrebbe essere interpretato come modello profetico, in
virtù di un comportamento di ascolto della parola di Dio e di fiducia nel
Signore.
Nella Regola di
san Benedetto c’è un riferimento interessante ai giovani, e all’obbligo che
l’abate ha di consultarli. Prima di compiere una scelta importante è, infatti,
suo dovere sentire tutti i membri della comunità, rivolgendo un’attenzione
particolare ai più giovani. Ne viene esplicitata anche la ragione: «Abbiamo
detto di consultare tutta la comunità, perché spesso è proprio al più giovane
che il Signore rivela la soluzione migliore»[3].
Il
riconoscimento del valore del bambino
Nel
corso dei secoli non si trovano affermazioni rilevanti sui bambini, mentre
bisogna giungere ai nostri giorni per avere attestazioni di valore sul loro
conto. Pablo Picasso, per esempio, uscendo da una mostra di disegni infantili,
ebbe a dire: «Quando avevo la loro età dipingevo come Raffaello, ho impiegato
tutta la vita per imparare a disegnare come i bambini»[4].
Maria
Montessori, nel secolo scorso, scriveva: «Se esiste per l’umanità una speranza
di salvezza e di aiuto, questo aiuto non potrà venire che dal bambino, perché
in lui si costruisce l’uomo»[5]. E proseguiva
affermando come l’uomo che si costruisce sia l’uomo nuovo, capace dunque di
costruire a sua volta una società nuova: «Il bambino possiede un potere
interiore che può guidarci verso un futuro più luminoso. L’educazione non
dovrebbe limitarsi a trasmettere delle nozioni, ma deve prendere vie nuove,
mirando allo sviluppo delle capacità potenziali dell’uomo. Quando dovrebbe
cominciare una tale educazione? […] Gli scienziati e gli psicologi sono giunti
alla conclusione che i primi due anni di vita sono i più importanti. […]
L’energia costruttiva del bambino, viva e dinamica, è rimasta ignorata per
millenni, ed è una miniera di tesori mentali proprio come gli uomini che per
primi calpestarono la superficie della terra nulla conoscevano delle immense
ricchezze nelle sue profondità. L’uomo è tanto lontano dal rendersi conto delle
energie celate nel mondo psichico del bambino che fin dall’inizio non ha fatto
altro che reprimerle e ridurle in polvere. Ora per la prima volta qualcuno è
arrivato a intuire l’esistenza di questo tesoro, che non è stato mai sfruttato,
un tesoro più prezioso dell’oro: l’anima stessa dell’uomo»[6].
Tali
attestazioni, seppure di epoche, ispirazioni, contesti e finalità completamente
diversi, hanno in comune l’alto riconoscimento del bambino come punto di
riferimento, modello e parametro.
I
nostri maestri
Gli
ultimi 100 anni di ricerche scientifiche hanno confermato queste affermazioni.
I maestri del secolo passato, da Freud a Piaget, da Vygotskij a Bruner, hanno
insegnato e dimostrato come senza dubbio l’età più importante della vita di una
donna e di un uomo sia la prima infanzia. A una giornalista che gli chiedeva
quale fosse stato l’anno più importante della sua vita, Freud rispose senza
esitazioni: «Certamente il primo».
Effettivamente
nei primi giorni, mesi e anni di vita i bambini compiono uno sviluppo cognitivo
e sociale impressionante, ponendo le fondamenta sulle quali poggeranno le
conoscenze e le abilità che la famiglia, la scuola, la società proporranno loro
durante il corso della vita. Purtroppo, il grande sviluppo e la crucialità di
questo periodo iniziale della vita soffre, per così dire, dello stesso problema
di cui soffrono le comuni fondamenta di un palazzo: non si vedono, non ci si fa
caso. Il bambino, dal canto suo, naturalmente non può rendersi conto e
ricordarsi di questo suo veloce sviluppo esponenziale, e purtroppo quasi mai i
genitori sono preparati ad apprezzare e guidare questa decisiva esperienza del
figlio. Quando per la prima volta un bambino entra in un’aula scolastica a sei
anni, si valuta che quasi l’80% delle sue potenzialità si sia già sviluppato.
Tali
indicazioni sono oggi confermate dalle più recenti ricerche di neuropsicologia:
esse attestano che l’attività neuronale dei primi periodi della vita ha una
intensità che non si riproporrà mai più in seguito. Per questo possiamo dire
che le cose più importanti succedono «prima». Questa considerazione va in
totale controtendenza alla normale e apparentemente indiscussa valutazione
dell’esperienza scolastica, secondo la quale le cose importanti verranno
«dopo». Sembra normale pensare che la scuola dell’infanzia prepari la primaria
e questa la secondaria, e così via fino all’università. Ma le ricerche
scientifiche indicano il contrario.
Nonostante
tutto quel che si è detto, oggi il bambino continua a essere sottovalutato, non
riconosciuto, poco stimato nei suoi valori e nelle sue potenzialità. Continua a
essere considerato un «non ancora», un essere in fieri, in
preparazione, che, grazie alla famiglia, all’educazione e alla scuola,
diventerà un futuro cittadino. Il fatto di considerare il bambino come futuro
cittadino è funzionale, perché permette agli adulti di porsi davanti a lui
quali modelli per il suo futuro o come genitori o come insegnanti. Eppure
questa è una proposta fortemente conservatrice, perché presenta come modello
per il domani l’oggi che siamo noi, che in realtà è il nostro ieri.
La
«Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia»
Anche
questo luogo comune è stato clamorosamente e formalmente smentito il 20
novembre del 1989, quando le Nazioni Unite hanno approvato la Convenzione
internazionale sui diritti dell’infanzia[7]. Essa conferma
in modo più solenne e vincolante i diritti riconosciuti dalla Dichiarazione
dei diritti del bambino del 1959[8], come il
diritto alla vita, alla salute, alla famiglia, all’istruzione, a non essere
sfruttati né per il lavoro, né per il sesso, né per la guerra, ma aggiunge
alcuni articoli riguardo «alla cittadinanza», dove si riconoscono i bambini
come cittadini fin dalla nascita.
Da
questo momento, dire che i bambini sono i «futuri cittadini» non è esatto, anzi
è una falsità. E naturalmente ciò modifica o dovrebbe modificare profondamente
i nostri rapporti con l’infanzia, perché dovremo accettare i bambini come tali,
per come sono oggi, con la loro diversità. Anzi, sarà proprio questa loro
diversità a costituire il contributo più importante che essi potranno dare alle
nostre scuole, alle nostre città, alla nostra politica. Inoltre, proprio perché
sono riconosciuti come cittadini, accanto al diritto alla protezione e alla
cura, i bambini possono reclamare il loro diritto alla partecipazione e ad
esprimere le proprie opinioni nelle questioni che li riguardano (art. 12), il
diritto di parola (art. 13), quello di libera associazione (art. 15) e il
diritto al tempo libero e al gioco (art. 31).
Quella
del 1989 è la Convenzione più riconosciuta in assoluto,
essendo stata ratificata da quasi tutti i Paesi del mondo[9], ma è anche
quasi completamente sconosciuta. È interessante notare che l’articolo 42
recita: «Gli Stati [che ne fanno parte] si impegnano a far largamente conoscere
i princìpi e le disposizioni della presente Convenzione, con mezzi
attivi e adeguati sia agli adulti che ai fanciulli». Occorre dunque che la
conoscano gli adulti, perché non si dimentichino di rispettarla e di assolvere
agli obblighi che impone e ai diritti che promette; ma pure che la conoscano i
bambini, perché possano rivendicarne l’osservanza, e protestare ogniqualvolta
gli adulti se ne dimentichino.
Nei
primi anni dopo la sua ratifica in Italia, avvenuta nel 1991, in alcune città
il 20 del mese di novembre si distribuirono agli studenti copie della Convenzione;
ma certamente ciò non può essere considerato un «far largamente conoscere». Di
fatto, dopo ripetute verifiche, si nota come i diritti salvaguardati da
tale Convenzione rimangano ancora sconosciuti ai politici,
agli amministratori, agli educatori e ai genitori. Probabilmente molti sanno
degli impegni assunti rispetto alla fame, alle malattie, all’ignoranza e allo
sfruttamento, ma quasi nessuno sospetta che si parli di cittadinanza, di
diritto alla parola, alla libera espressione e associazione nei riguardi dei
bambini.
L’interesse
superiore del bambino
L’articolo
3 afferma che in ogni assunto l’interesse del bambino va sempre considerato
superiore[10]: ciò
significa che ogniqualvolta tale interesse entri in conflitto con interessi di
altri debba prevalere.
È
sorprendente notare come le affermazioni che gli adulti fanno quando si tratta
dei bambini siano sempre assolute, senza riserve, radicali e generose fino
all’esagerazione. Poiché quasi tutti i Paesi del mondo aderiscono a
questa Convenzione, l’interesse dei bambini dovrebbe prevalere su
quello degli altri: in realtà, nella pratica, tali promesse vengono non solo
tradite, ma risultano oltretutto sconosciute. Rispetto all’articolo 3 possiamo
domandarci perché, ad esempio, un bambino debba smettere di prendere il latte
dal seno materno a quattro o cinque mesi. È per il suo bene? E perché i bambini
debbono stare in un nido o in una scuola dell’infanzia o primaria otto ore
consecutive? È per il loro interesse? Evidentemente no, ma è per l’utilità dei genitori
o, meglio, per adeguarsi all’orario di lavoro dei loro genitori.
Ci
sono bambini di meno di tre anni che vivono in carcere con le loro mamme. È
questo il loro interesse? Certamente no. Se fosse rispettato l’articolo 3, nel
caso di donne in carcere, l’esigenza primaria del bambino imporrebbe che madre
e figlio vivessero in casa loro, in ragione della dignità del bambino e del suo
accudimento. Gli adulti dovrebbero trovare altre forme per proteggersi rispetto
alla pericolosità sociale delle loro madri. Se l’articolo 3 venisse osservato,
quando nasce un bambino in una famiglia, tutte le regole e gli orari dovrebbero
cambiare per rispettare il suo interesse, compresi gli orari di lavoro, perché
i genitori possano dedicargli tutto il tempo necessario. Non è un caso che i
Paesi del Nord prevedano due anni di maternità: numerose ricerche dimostrano
oltretutto che solo in apparenza questo periodo prolungato sarebbe una spesa
sociale, perché, in realtà, i bambini che hanno potuto essere allattati e
accuditi più a lungo risultano generalmente più sani, e quindi costano meno
alla società.
Il
diritto alla partecipazione
L’articolo
12 afferma il diritto dei bambini a esprimere il loro parere sulle questioni
che li riguardano, particolarmente nelle procedure giudiziarie e
amministrative, tenendo conto della loro età e maturità[11]. Si tratta
di una «promessa» enorme, la cui realizzazione, sotto la guida di educatori e
genitori, favorisce la loro crescita intellettuale, morale e spirituale.
Dal
1991 è nato un progetto, «La città dei bambini»[12], che propone
ai sindaci di sentire e prendere in considerazione il parere dei bambini per
governare meglio e salvare le nostre città. Ci sono varie ragioni che
giustificano questa iniziativa apparentemente eccessiva e stravagante. La prima
ragione è già stata illustrata: la scienza ci dice che i bambini sono
competenti, capaci di esprimere il loro parere e di contribuire al
miglioramento del loro ambiente.
La
seconda ragione è morale: gli adulti, specialmente di sesso maschile, hanno
sempre pensato che il «potere» spettasse a loro in modo esclusivo. Storicamente
la gestione del potere per mano maschile viene giustificata come senso di
responsabilità, di dovere e di servizio. La storia però insegna che essi hanno
gestito il potere a modo loro e spesso nel modo peggiore. Non è difficile
dimostrarlo, se osserviamo i diversi aspetti della nostra gestione del Pianeta:
stiamo utilizzando l’ambiente come se fossimo l’ultima generazione sulla terra,
come se non avessimo nulla da lasciare a figli e nipoti; l’ingiustizia sociale
nel mondo aumenta e i ricchi diventano ogni anno più ricchi e i poveri più
poveri; nonostante il drammatico insegnamento del secolo passato, i nostri
Paesi continuano a partecipare a guerre e a produrre armi; gli incidenti
stradali sono la prima causa di morte fino ai 26 anni; per la prima volta nella
storia, la generazione che verrà dopo di noi avrà una speranza di vita minore
della nostra; dopo l’ultima guerra mondiale abbiamo ricostruito le città in
base alle nostre esigenze di adulti e a quelle delle nostre automobili.
C’è,
inoltre, una terza ragione, molto interessante e affascinante: le proposte che
emergono dai «Consigli dei bambini» sono molto vicine alle proposte degli
scienziati e degli esperti (urbanisti, sociologi, psicologi, pediatri,
ambientalisti) e quasi sempre lontane da quelle dei politici e degli
amministratori.
Nonostante
questa premessa, risulta ancora impensabile proporre ai sindaci di formare
«Consigli dei bambini», ai dirigenti scolastici di formare «Consigli degli
alunni», ai primari dei reparti di lunga degenza «Consigli dei bambini» in
ospedale, o comunque dare la parola ai bambini per conoscere il loro punto di
vista, le loro esigenze e le loro proposte. Eppure, questo tipo di ascolto
potrebbe certamente rendere migliori la città, la scuola, l’ospedale, la nostra
società nel suo complesso.
Il
diritto al gioco
L’articolo
31 della Convenzione afferma il diritto dei bambini al riposo,
al tempo libero e a dedicarsi al gioco[13]. La versione
originale inglese è ancora più forte: «to engage in play»
(«impegnarsi nel gioco»). La Convenzione riconosce con due
articoli il diritto all’istruzione[14] e il
diritto al gioco[15],
sottolineando l’importanza delle due esperienze. Il problema è che, mentre il
diritto all’istruzione è unanimemente riconosciuto, rispettato e anzi
trasformato solo in dovere, il diritto al gioco continua a essere considerato
dal mondo adulto una eventualità, una possibilità, che diminuisce con il
crescere dell’età (e dei doveri scolastici), e comunque non viene ritenuto un
diritto quotidiano e una necessità per un corretto sviluppo dei bambini e dei
ragazzi.
Se
è vero che il massimo sviluppo nella vita si realizza nel periodo iniziale,
esso avviene grazie al gioco. Il gioco va riconosciuto come un’esperienza
fondamentale che deve continuare lungo tutta la vita, ma certamente con
un’importanza primaria nell’infanzia. Per poter giocare, però, si devono
rispettare alcune condizioni indispensabili: una sufficiente autonomia, degli
amici per condividerlo, un tempo libero, uno spazio adeguato e strutture
sufficienti. Purtroppo oggi queste cinque condizioni sono quasi completamente
scomparse.
Per
giocare con gli altri i bambini devono poter uscire di casa senza
accompagnamento degli adulti, vivere l’esperienza dell’avventura, della
scoperta, del confronto e anche del rischio, con amici e amiche, per poi
tornare a casa e raccontare.
Per
giocare con gli altri si deve avere tempo libero a disposizione, quello
promesso dalla Convenzione, un tempo che i bambini hanno sempre
avuto fino a 30, 40 anni fa e che è ormai scomparso dalla vita dei nostri figli
e nipoti. Il tempo dei bambini di oggi si consuma fra le tante (troppe?) ore di
scuola, quelle passate a fare i compiti, le attività pomeridiane svolte in
scuole di calcio, ballo, inglese, ceramica, musica, che però sempre scuole
sono. Le ore che rimangono vengono assorbite dalla televisione o, sempre di
più, dal cellulare, playstation o smartphone.
Bisogna restituire ai bambini il tempo libero.
La
scuola deve rinunciare a dare compiti per casa, inutili per gli scopi che si
prefiggono, perché gli alunni che più hanno bisogno di recuperare le loro
lacune scolastiche quasi mai hanno famiglie che sono in grado di aiutarli a
casa. Insistendo in questa direzione, si finisce fatalmente per ottenere come
unico risultato il peggioramento del rapporto di fiducia e di affetto fra
alunni e scuola, e recentemente anche tra famiglie e scuola. Se occorre
provvedere al recupero e al rafforzamento degli apprendimenti, queste attività
si dovrebbero svolgere a scuola, sotto il controllo e la garanzia degli
insegnanti. D’altra parte, la famiglia dovrebbe ridurre le attività pomeridiane
(peraltro costose) dei figli e permettere loro di uscire di casa per giocare
con gli amici. Probabilmente questa è anche la sola proposta vincente di fronte
al potere della televisione e delle tecnologie.
Per
poter giocare si deve avere uno spazio adeguato. È consuetudine accompagnare
ogni giorno o il più frequentemente possibile i propri figli al parco giochi
più vicino a casa, dove i più piccoli possono utilizzare giochi a dondolo e
giostrine, scivoli e altalene, e altre strutture per salire e scendere, di
solito sempre uguali in tutte le città e in tutti i Paesi. Questi spazi
tuttavia non hanno alcuna relazione con il gioco creativo dei bambini: sono
luoghi di intrattenimento, di consumo di giochi, che non prevedono alcuna di
quelle attività di fantasia, di creatività e di socializzazione tipiche e
necessarie nel gioco vero.
Per
poter giocare i bambini devono poter utilizzare lo spazio adatto al gioco che
hanno scelto. Spazio adeguato possono essere le scale di casa, il cortile, il
marciapiede, la piazza, il giardino, il parco, il greto del fiume, ma mai il
giardinetto con scivoli e altalene. Lo spazio adatto al gioco dei bambini è lo
spazio pubblico e variegato della città.
La
responsabilità della città e dell’ambiente
Lo
spazio pubblico della città è oggi praticamente scomparso. Diverse indagini
dimostrano che è quasi completamente e costantemente privatizzato per la
presenza, in parcheggio o in movimento, di mezzi privati. Lo spazio pubblico va
considerato come uno dei diritti fondamentali di cittadinanza, come la salute e
l’istruzione. Ma mentre questi ultimi due dipendono anche dalle Regioni e dallo
Stato, lo spazio pubblico dipende solo dalle città: la sua restituzione alle
persone è un dovere specifico dei sindaci e delle loro amministrazioni.
Naturalmente
restituire spazio pubblico alle persone significa sottrarlo alle automobili,
come pure ampliare i marciapiedi e restringere le carreggiate, liberare le
piazze dai parcheggi e dal traffico, ridurre i parcheggi di superficie,
liberare spazio nelle vicinanze delle scuole. Spazio pubblico significa
privilegiare i pedoni, le persone, perché tutti possano uscire di casa e
muoversi con sicurezza e facilità, compresi i portatori di handicap e le
carrozzine con i neonati, spesso spinte dagli anziani. Dovrebbe voler dire che
il percorso dei pedoni non perda mai la sua quota di spazio, sia nei
marciapiedi, sia negli attraversamenti. Un bambino del «Consiglio dei bambini»
di Rosario, in Argentina, diceva: «Bisogna curare lo spazio pubblico perché per
molti è l’unico».
Una
ragazza svedese, Greta Thunberg, ha parlato davanti alla Commissione Europea
per chiedere impegni concreti contro i mutamenti climatici che stanno
distruggendo il pianeta e ha proposto con successo uno sciopero scolastico per
ricordare a tutti che il mondo deve essere salvato dall’inquinamento: il Global
Strike for future. Non c’è un mondo «B» di riserva, ma un unico mondo di
cui tutti facciamo parte, ma che stiamo rovinando. Sembra proprio che si stia
realizzando la profezia di Elsa Morante nel romanzo Il mondo salvato
dai ragazzini.
Immagine: Four kids hanging out together in the garden (iStock/monkeybusinessimages)
NOTE
1].
Cfr A. Cohen, Il Talmud, Bari, Laterza, 1935, 161.
[2]. Koren Talmud
Bavli (The Noé Edition), Bava Batra, I, 12b, Jerusalem,
Koren, 2016, 68.
[3]. Regola III,
2. Il testo risale al 534; va tenuto presente che già dall’età di 3 anni i
bambini venivano accolti nel monastero (si veda il capitolo LIX, «I piccoli
oblati»). Se è vero che essi potevano tranquillamente uscirne prima dei 15
anni, i più vi rimanevano tutta la vita.
[4]. M.
Fagioli, Pablo Picasso. L’immaginazione al potere,
Firenze, Clichy, 2014, 93.
[5]. M.
Montessori, Educazione per un mondo nuovo, Milano, Garzanti, 1991
(or. 1947), 12.
[6]. Ivi, 12 s.
[7]. Cfr il testo
della Convenzione in www.unicef.it//doc/601/convenzione-diritti-infanzia/ Si
tratta della risoluzione 44/25 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del
20 novembre 1989. È entrata in vigore il 2 settembre 1990. L’Italia ha
ratificato la Convenzione con la legge del 27 maggio 1991, n.
176: Ratifica ed esecuzione della Convenzione internazionale dei
diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, pubblicata
nella Gazzetta ufficiale dell’11 giugno 1991, n. 135,
S.O. La Santa Sede ha ratificato la Convenzione il 20 aprile 1990,
depositando in pari tempo una riserva e 3 interpretazioni dichiarative.
[8]. Tale
dichiarazione era stata preceduta nel 1923 da un documento redatto a Ginevra
dalla Società delle Nazioni e adottata l’anno seguente dall’Assemblea Generale
della Società delle Nazioni con la Dichiarazione dei diritti del
bambino, dove tuttavia il bambino era considerato destinatario di diritti
passivi.
[9] . In realtà l’hanno
ratificata tutti i Paesi eccetto gli Usa, alcuni dei cui Stati, tra l’altro,
prevedono la pena di morte per minori di 18 anni.
[10].
Art. 3: «In tutte le decisioni relative ai bambini, di competenza sia delle
istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle
autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del
bambino deve essere una considerazione preminente».
[11].
Art. 12: «1. Gli Stati [che ne fanno parte] garantiscono al
fanciullo capace di discernimento il diritto di esprimere liberamente la sua
opinione su ogni questione che lo interessa, le opinioni del fanciullo essendo
debitamente prese in considerazione tenendo conto della sua età e del suo grado
di maturità. 2. A tal fine, si darà in particolare al
fanciullo la possibilità di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o
amministrativa che lo concerne, sia direttamente, sia tramite un rappresentante
o un organo appropriato, in maniera compatibile con le regole di procedura
della legislazione nazionale».
[12].
Per conoscere il progetto, cfr F. Tonucci, La città dei bambini. Un
modo nuovo di pensare la città, Bergamo, Zeroseiup, 2015; Id., Se i
bambini dicono: adesso basta!, Bari, Laterza, 2002; e il sito web: www.lacittadeibambini.org
[13].
Art. 31: «1. Gli Stati [che ne fanno parte] riconoscono al
fanciullo il diritto al riposo e al tempo libero, di dedicarsi al gioco e ad
attività ricreative proprie della sua età e di partecipare liberamente alla
vita culturale ed artistica. 2. Gli Stati rispettano e
favoriscono il diritto del fanciullo di partecipare pienamente alla vita
culturale ed artistica ed incoraggiano l’organizzazione, in condizioni di
uguaglianza, di mezzi appropriati di divertimento e di attività ricreative, artistiche
e culturali».
[14].
Art. 28: «Gli Stati […] riconoscono il diritto del fanciullo all’educazione, ed
in particolare, al fine di garantire l’esercizio di tale diritto gradualmente
ed in base all’uguaglianza delle possibilità: a) rendono
l’insegnamento primario obbligatorio e gratuito per tutti; b) incoraggiano
l’organizzazione di varie forme di insegnamento secondario sia generale che
professionale, che saranno aperte ed accessibili ad ogni fanciullo e adottano
misure adeguate come la gratuità dell’insegnamento e l’offerta di una
sovvenzione finanziaria in caso di necessità; c) garantiscono
a tutti l’accesso all’insegnamento superiore con ogni mezzo appropriato, in
funzione delle capacità di ognuno; d) fanno in modo che
l’informazione e l’orientamento scolastico e professionale siano aperti ed
accessibili ad ogni fanciullo; e) adottano misure per
promuovere la regolarità della frequenza scolastica e la diminuzione del tasso
di abbandono della scuola».
[15].
Art. 31: «1. Gli Stati [che ne fanno parte] riconoscono al
fanciullo il diritto al riposo ed al tempo libero, di dedicarsi al gioco e ad
attività ricreative proprie della sua età e di partecipare liberamente alla
vita culturale ed artistica».
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