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Fin dall’inizio,
infatti, la vicenda del torturatore libico ha evidenziato l’intento
dell’esecutivo di eludere le prime e di attaccare la seconda.
A cominciare dal video
in cui Giorgia Meloni – rivolgendosi ai suoi sostenitori invece che riferire in
parlamento – dopo aver dichiarato che la responsabilità del sorprendente
rimpatrio di un criminale era tutta dei giudici della Corte, aveva accusato
quelli italiani di perseguitarla: «La richiesta di arresto della Corte Penale
Internazionale», aveva affermato con la consueta grinta – «non è stata
trasmessa al Ministero italiano della Giustizia, come invece è previsto dalla
legge, e per questo la Corte d’Appello di Roma decide di non procedere alla sua
convalida. A questo punto, con questo soggetto libero sul territorio italiano,
piuttosto che lasciarlo libero noi decidiamo di espellerlo e rimpatriarlo
immediatamente per ragioni di sicurezza con un volo apposito come accade in
altri casi analoghi. Questa è la ragione per la quale la procura di Roma oggi
indaga me, il sottosegretario Mantovano e due ministri».
Una tesi fatta propria
con forza per giorni dal governo e dai giornali di destra, ma clamorosamente
smentita dallo stesso Nordio, chiamato a riferire in Parlamento e
costretto ad ammettere che la richiesta di arresto era in effetti stata
consegnata, ma, essendo scritta in inglese, c’erano stati problemi nella
lettura.
Quanto alla motivazione
della premier per spiegare il rimpatrio di Almasri – la sua pericolosità –
l’ovvia obiezione è stata che proprio per questo sarebbe stato più logico
tenerlo in prigione piuttosto rimandarlo in Libia, la roccaforte dove era al
sicuro e dove ha potuto continuare a consumare i suoi crimini.
Alla fine di una serie
di bugie e di scaricabarile, è venuta finalmente la dichiarazione che alla base
della decisione c’era stata la ragion di Stato. Ammettendo così i legami,
creati dal nostro governo e anche recentemente riaffermati, con la fazione
libica di cui Almasri è un importante esponente, per bloccare il flusso dei
migranti. Col risultato che, ora che questa fazione è stata messa in
minoranza, e Almasri è stato arrestato, la Libia risulta paradossalmente più
rispettosa dell’Italia nei confronti del diritto internazionale e della
Corte che lo tutela.
La riforma della
giustizia fra tecnica e politica
Non è un episodio
incoraggiante in un contesto in cui, da parte del governo e della maggioranza,
si continua a ripetere che la riforma della giustizia – in realtà riforma della
magistratura – costituisce, come hanno detto la premier e il ministro Nordio,
«un passo importante verso un sistema più efficiente, equilibrato e vicino ai
cittadini» e rappresenta «un traguardo storico (…) a favore degli
italiani», e non «una legge punitiva contro la magistratura».
Da qui il moltiplicarsi
delle raccomandazioni perché il referendum che dovrà decidere della sua
conferma o meno non venga affrontato in una prospettiva politica, ma solo
guardando al contenuto tecnico del testo approvato dal parlamento
«Il prossimo step sarà
il referendum», ha detto il ministro della Giustizia. «Mi auguro che venga
mantenuto in termini pacati, razionali e non politicizzati». Perciò, ha
aggiunto, «è bene che la magistratura, come io auspico, esponga tutte le sue ragioni
tecniche ma per l’amor del cielo non si aggreghi a forze politiche per farne
una specie di referendum pro o contro il governo».
A favore della riforma
In realtà, ci sono
argomenti giuridici che possono giustificare la separazione delle carriere.
Essa è la logica conseguenza del passaggio, con la riforma del codice di
procedura penale del 1989, dal sistema inquisitorio del processo a quello
accusatorio. Quest’ultimo, infatti, è basato sul principio dialettico secondo
cui la verità può essere accertata dando spazio alla discussione tra parti – il
pubblico ministero e l’avvocato – in una posizione di parità dialettica.
In questa logica la
figura del pubblico ministero e quella del giudice si diversificano nettamente
e non prenderne atto rende plausibili i timori di chi imputa all’attuale
processo di essere ancora sbilanciato a favore dell’accusa – di fatto ancora troppo
legata al giudice – rispetto alla difesa. Da qui anche il pericolo di
errori giudiziari a danno di innocenti, di cui purtroppo non mancano
esempi anche clamorosi, come il caso di Enzo Tortora.
Oltre a introdurre la
separazione della carriere e la conseguente creazione di due distinti Consigli
superiori della magistratura, la riforma prevede anche l’introduzione del
sorteggio come sistema per la scelta sia dei rappresentanti “togati” che di
quelli “laici”, provenienti cioè dalla politica.
Anche qui ci sono
motivazioni che possono essere riconosciute senz’altro ragionevoli, in
particolare la necessità di ridimensionare il ruolo delle correnti in cui
attualmente si distribuiscono i membri della magistratura, dopo le rivelazioni,
emerse nel corso del caso Palamara, circa il ruolo che l’appartenenza ad esse
ha finora avuto nell’assegnazione di cariche di prestigio nei tribunali.
Da qui, l’opportunità di
impedire che, grazie a un sistema elettorale basato sui giochi delle correnti,
accedano ai due nuovi CSM persone che poi, per restituire il
favore ricevuto, distribuiscano incarichi ai loro sostenitori. L’introduzione
del sistema del sorteggio mira a vanificare il peso che le correnti hanno già
alla base, annullando il loro ruolo nella scelta dei membri dei due CSM e di
conseguenza anche all’interno di essi.
È su questi punti che
molti giuristi, al di là degli schieramenti politici, insistono
nell’esprimere il loro favore alla riforma.
Tuttavia…
L’ermeneutica ci ha
insegnato, tuttavia, che un testo va letto nel suo contesto. È così anche di
quello della legge di riforma, che non è caduto dal cielo, ma si colloca
all’interno di un dibattito politico su cui non è possibile chiudere gli occhi.
E il caso Almasri
rientra in questo contesto, perché evidenzia, al di là delle assicurazioni, un
atteggiamento vittimistico persistente, da parte della nostra premier, nei
confronti dei magistrati sia stranieri che, soprattutto italiani, volto a mascherare
le reali responsabilità del governo nei confronti del principio di
legalità.
Un vittimismo ereditato,
del resto, dal personaggio – Silvio Berlusconi – che rappresenta in qualche
modo l’ispiratore e il nume tutelare non solo di Forza Italia (che ne mantiene
il nome nel suo simbolo elettorale), ma di tutta la maggioranza,
E al cavaliere, nella
sua vita « bloccato da una magistratura ideologizzata», come ha detto la
sua compagna Marta Fascina, è stata dedicata questa riforma da tutte le
forze di governo.
Paradossale che, al
tempo stesso, si sia potuto sostenere – come ha fatto il vicepremier
Tajani, celebrandola come «un momento storico, una vittoria epocale,
politica e morale», con cui «si realizza il grande sogno di Berlusconi». – che
essa «non ha nulla a che vedere con le interpretazioni malevole fatte, perché
nessuno vuole attaccare la magistratura».
Ora, senza entrare nel
merito dei torti e delle ragioni, nessuno può mettere in dubbio che una riforma
fatta in nome di Berlusconi vada “contro” quei giudici che il cavaliere ha
sempre accusato di essere «comunisti» o, in alternativa malati di
mente: «Questi giudici», affermava nel 2003, nella sua veste di presidente del
Consiglio, «sono doppiamente matti. Per prima cosa, perché lo sono
politicamente, e secondo sono matti comunque. Per fare quel lavoro devi essere
mentalmente disturbato, devi avere delle turbe psichiche. Se fanno quel lavoro
è perché sono antropologicamente diversi dal resto della razza umana».
Non stupisce, perciò,
che, il quotidiano più vicino a Meloni, «Libero», diretto dal suo ex
portavoce Mario Sechi, abbi sintetizzato il senso della nuova legge col
titolo «Vince Giorgia, brinda Silvio» e una vignetta in cui è
rappresentato Berlusconi pesantemente assiso – schiacciandolo sotto di sé
– su un palazzo di giustizia, mentre, in tenuta da veglione di capodanno,
brinda esultante.
La posta in gioco
E sulla scia del
cavaliere membri del governo e della maggioranza attuale, con toni sprezzanti,
ripetutamente attaccano i giudici, cercando di delegittimarli accusandoli di
travalicare per motivi ideologici le loro competenze. .
Proprio alla vigilia
dell’approvazione definitiva della riforma, la premier l’ha indicata come «la
risposta più adeguata a una intollerabile invadenza» tornando poi sulla
questione, dopo lo stop della Corte dei Conti al progetto del Ponte sullo
Stretto, definendolo «l’ennesimo atto di invasione della giurisdizione sulle
scelte del Governo e del Parlamento».
L’idea che la
magistratura, come del resto il governo e il parlamento, sia uno dei tre organi
costituzionalmente rappresentativi dello Stato e meriti dunque rispetto non
sembra neppure sfiorare la nostra presidente del Consiglio e i suoi ministri,
molto sensibili, invece, agli attacchi nei confronti dell’esecutivo che, a loro
avviso, infangano e danneggiano l’Italia.
Vengono misconosciute,
qui, la logica e le regole dello Stato liberal-democratico, che prevedono
precisamente il diritto/dovere dell’organo giudicante di esercitare un
controllo sulle attività degli altri due, sanzionandone le eventuali
illegittimità.
È questo il senso della
separazione dei poterei sancita dalla nostra Costituzione. Ed è questo il senso
dell’autonomia di ogni organo rispetto agli altri. la magistratura non può
dettare le linee politiche al governo. Ma quest’ultimo non può sindacare le
sentenze dei giudici.
È stato detto più volte
che per fermare l’azione di un governo e di un parlamento eletti con i voti dei
cittadini i giudici dovrebbero a loro volta candidarsi e farsi eleggere.
Dimenticando che è la nostra Costituzione ad aver posto un organo che non
dipende dal consenso popolare, nella consapevolezza, che il potere assoluto del
popolo ha sempre portato ai totalitarismi.
Le ragioni tecniche a
favore della riforma non possono per questo essere dimenticate. Ma il clima in
cui sono state fatte valere è chiaramente politico e non nel senso in cui
questo termine indica il riferimento al bene comune, ma nell’accezione meno
nobile, che identifica la politica con il gioco dei partiti.
In un quadro più sereno,
si potrebbe pensare al modo di garantire la parità tra accusa e difesa, ma
senza creare un corpo separato di pubblici ministeri consacrati
univocamente all’accusa e a rischio, perciò, di diventare veramente un pericolo
per la corretta amministrazione della giustizia.
Così come si dovrebbe
studiare insieme il modo di evitare l’indebita ingerenza delle correnti nelle
nomine degli alti magistrati, senza dover ricorrere a un sistema come
quello del sorteggio, che mortifica la logica della rappresentanza, sottraendola
alla scelta dei rappresentati e consegnandola al caso.
Questo dovrebbe accadere
in un paese democratico. Adesso la parola va ai cittadini, nella speranza che
essi siano più capaci di sviluppare un confronto più simile al dialogo di
quello che si è svolto finora in parlamento. Ma deve essere chiaro che la
posta in gioco non è il funzionamento della magistratura, ma la comprensione e
il rispetto dello spirito della nostra Costituzione.

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