venerdì 30 maggio 2025

VOI SIETE MIEI TESTIMONI

 


*1 giugno 2025*

Ascensione di N.S. Gesù Cristo

Luca 24,46-53 (At 1,1-11; Eb 9,24-28; 10,19-23)

In quel tempo Gesù disse «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, 47e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. 48Di questo voi siete testimoni. 49Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto».50Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. 51Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. 52Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia 53e stavano sempre nel tempio lodando Dio.

Commento di Luciano Manicardi

Secondo il vangelo (Lc 24,46-53) l’ascensione di Cristo è accompagnata da una benedizione (Lc 24,51: “Mentre Gesù benediceva i discepoli, si staccò da loro e fu portato verso il cielo”) e secondo la prima lettura (At 1,1-11) da una promessa (At 1,11b: “Gesù verrà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”): con l’ascensione, infatti, il Signore fa dono all’umanità della sua presenza in una forma nuova (benedizione) e non abbandona i suoi, ma verrà nuovamente per incontrarli (promessa).

Testimonianza e attesa

La promessa e la benedizione dell’ascensione impegnano la chiesa nella storia a testimoniare la presenza del Risorto e ad attendere la sua venuta gloriosa. Testimonianza e attesa sono i riflessi ecclesiali e spirituali dell’evento dell’ascensione come promessa e benedizione. La seconda lettura (Eb 9,24-28; 10,19-23) ribadisce a suo modo la dimensione di benedizione del distacco di Gesù dai suoi, affermando che l’ascensione è “a loro favore” (“Cristo è entrato nel cielo per comparire al cospetto di Dio in nostro favore”: Eb 9,24). Colui che siede alla destra del Padre nei cieli, infatti, è il grande intercessore: “Egli è sempre vivo per intercedere a loro favore” (Eb 7,25).

La promessa

La lettera agli Ebrei ribadisce anche la dimensione di promessa insita nell’ascensione: “Cristo apparirà una seconda volta a coloro che l’attendono per la salvezza” (Eb 9,28). La dimensione della promessa è ben presente anche nella prospettiva in cui sono collocati i discepoli quali destinatari del dono dello Spirito santo come espresso da Luca tanto alla fine del vangelo quanto all’inizio degli Atti. Nel vangelo il Risorto dice ai discepoli: “Io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso” (promissum Patris mei: Lc 24,49); negli Atti chiede loro di “attendere l’adempimento della promessa del Padre” (promissionem Patris: At 1,4), ovvero di “essere battezzati in Spirito santo” (At 1,5). Viene così stabilito il saldo rapporto tra ascensione e pentecoste: entrambi gli eventi sono parte costitutiva dell’atto unico e indivisibile che è l’evento pasquale. Evento ricordato come sintesi del messaggio delle Scritture (“Così sta scritto: ‘Il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno’”: Lc 24,46) che estendono la loro visione anche al compito dei discepoli e alla missione della chiesa nella storia: “Nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati” (Lc 24,47). I testi liturgici ci pongono così di fronte alle Scritture che promettono e allo Spirito che è promesso. E nella lettera agli Ebrei siamo rinviati all’origine della promessa, Dio stesso. Il brano liturgico termina in 10,23 con questa esortazione: “manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso”.

Tutto questo ci dice che l’esaudimento della promessa non ne è l’esaurimento, il compimento non ne segna la consumazione o la fine, ma il suo rilancio. Colui che è venuto e che ora sale al Padre, verrà di nuovo. Il credente è rinviato all’attesa di una nuova venuta. E tra compimento della promessa e suo rilancio escatologico si inserisce il distacco, il crearsi di un’assenza. Nel Vangelo si dice che Gesù diéste ap’auton /recessit ab eis, “si distanziò”, “si distaccò” dai discepoli, si allontanò da loro, cioè da quegli uomini con cui aveva condiviso la sua vita comunitaria, la sua missione, la predicazione. Negli Atti degli Apostoli si sottolinea il sottrarsi di Gesù alla visibilità, alla vista dei suoi discepoli: “Una nube lo sottrasse ai loro occhi” (v. 9). È un concreto sottrarsi ai sensi di quegli uomini che prima, ricorda il prologo della Prima lettera di Giovanni, lo avevano visto, toccato e ascoltato, avevano mangiato e bevuto con lui, avevano condiviso tanto con lui. È la fine di qualcosa di intenso e concretissimo, di sensibile, di un rapporto spiritualmente ricco e fisicamente connotato come lo è ogni rapporto.

Un cammino

L’ascensione è ancora narrata negli Atti come un “andarsene” (At 1,10-11), un “camminare” verso un altro luogo, come uno che si incammina per una strada e a un certo punto sparisce dalla nostra vista, come uno che da un certo luogo va verso un altro luogo, distante, lontano. E quel luogo viene chiamato “cielo” sia da Atti che da Ebrei. “Cristo è entrato nel cielo stesso” dice Eb 9,24. Non si può pensare a distanza più radicale nei confronti di chi resta quaggiù sulla terra. Eppure, per il vangelo, quella distanza, quell’allontanamento, quell’andare in un altro posto da parte di colui che prima era insieme con i suoi, è benedizione: “Mentre li benediceva, si distaccò da loro” (Lc 24,51). Vi è sovrapposizione e coincidenza tra distacco e benedizione. Come se non potesse esserci benedizione senza distacco. Quel distacco è benedetto perché non è un abbandono (“Non vi lascerò orfani”: Gv 14,18; “Vado e tornerò da voi”: Gv 14,28). È una benedizione perché è un atto generativo, un atto che trasmette vita creando quel vuoto che potrà essere occupato da chi resta. È una benedizione perché sollecita la responsabilità di chi resta, che si trova chiamato a “succedere” a colui che se n’è andato. I discepoli sono generati a testimoni di colui che se n’è andato. “Di questo voi siete testimoni” (Lc 24,48); “Voi sarete miei testimoni a Gerusalemme e fino ai confini della terra” (At 1,8). I compagni di vita di Gesù si vedono trasformati dall’esodo di Gesù e dal dono dello Spirito in suoi testimoni. Come in una dinamica antropologica di crescita e di divenire, il distacco e la separazione aprono la strada a un nuovo attaccamento, alla creazione di un nuovo legame, così la partenza di Gesù situa i discepoli in una relazione radicalmente rinnovata con lui. Il suo distacco dai discepoli instaura una forma nuova di presenza e di relazione con loro.

La benedizione

E questo è esattamente il senso della benedizione. La benedizione con cui Gesù si accomiata dai suoi e con cui Luca termina il suo vangelo, rinvia il lettore all’inizio del vangelo, quando il sacerdote Zaccaria non poté concludere la liturgia al tempio perché reso muto (Lc 1,22). Egli avrebbe dovuto impartire la benedizione sacerdotale il cui testo si trova in Numeri 6,24-26: “Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace”. Queste parole venivano accompagnate da un gesto solenne: il sacerdote, al termine dell’azione liturgica, tendeva le braccia e alzava le mani sull’assemblea radunata. Sir 50,20 mostra la scena del sacerdote che “alzava le sue mani su tutta l’assemblea d’Israele, per dare con le sue labbra la benedizione del Signore”. La combinazione di gesto e parole oggettivava la realtà convogliata dalla benedizione e così il gesto esprimeva il fatto che Dio stesso poneva la sua presenza tra il popolo. In Numeri 6,27 troviamo queste parole in bocca al Signore stesso che commentano la formula della benedizione sacerdotale: “Così porranno il mio nome sui figli d’Israele e io li benedirò”. Quel gesto e quelle parole simboleggiano l’azione del Signore stesso. Porre il nome del Signore sui figli d’Israele significa confermare la relazione di appartenenza particolare del popolo al suo Dio e rivendicare alla signoria di Dio l’esistenza di tutto Israele e di ciascun figlio d’Israele. E poiché il Nome indica la presenza, la benedizione pone in relazione la presenza di Dio con il popolo. 

In Luca 24,50 Gesù compie la benedizione alzando le mani sui suoi discepoli, ma ormai non nel tempio, bensì al di fuori di ogni spazio o recinto sacro e inaugura una forma di presenza nuova con i suoi: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). La lettera agli Efesini afferma: “Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per essere pienezza di tutte le cose” (Ef 4,10). L’ascensione attesta che nessun spazio umano è sottratto alla presenza di Cristo. Meglio: ogni spazio è abitabile del Risorto. Memoria escatologica, della venuta gloriosa di Cristo, l’ascensione è in piena continuità con la sua venuta nella carne. 

Possiamo dire che l’Asceso al cielo è il Veniente ed è colui che passò tra gli uomini facendo il bene e guarendo (At 10,38). Gli Atti degli Apostoli riportano il forte richiamo rivolto ai discepoli da due uomini in bianche vesti (appartenenti, cioè, alla sfera del divino; forse vi è un riferimento a Mosè ed Elia come apparsi alla trasfigurazione: Lc 9,30): “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, verrà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo” (At 1,11). L’ascensione viene descritta come un “camminare verso il cielo” (così anche in At 1,10), usando il verbo poreúomai, “camminare”, che ha designato il cammino compiuto da Gesù nelle contrade di Galilea. Venuta escatologica e cammino quotidiano di Gesù sono in stretta continuità: per conoscere, confessare e testimoniare il Veniente non occorre guardare in cielo, ma ricordare i passi compiuti da Gesù sulla terra.

 L’umanità di Gesù attestata dai vangeli è il magistero che indica ai cristiani la via da percorrere per testimoniare colui che, asceso al cielo, non è più fisicamente presente tra i suoi e verrà nella gloria.

Ecco a cosa mirano le Scritture e lo Spirito santo: all’umanità di Gesù Cristo, all’umanità di Gesù di Nazaret quale compimento del volere di Dio.

Monastero di Bose

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LEONE E AGNELLO


Leone 

è un agnello: 

lavora alla pace.


Il Papa non si presterà a entrare in politica, neppure quella nobile della pacificazione tra Russia e Ucraina.

 Resterà a livello pre-politico, senza invadere lo spazio del conflitto geopolitico.

 

-         di Enzo Bianchi 


Sono solo venti i giorni dell’esercizio del ministero petrino da parte di Leone XIV: pochi per prevedere il cammino del suo pontificato, ma abbastanza per delinearne il profilo. Perché sono già molti gli atti e gli interventi del papa che, unitamente alle sue parole, non sono mai stati formali, ma sempre univoci nello stile e nella preoccupazione, e ci manifestano ciò che determina la sua persona e la sua pastorale. 

 Papa Leone, un papa inatteso? Un papa emerso da strategie e cordate già preparate e delineate per la successione a Papa Francesco? No, lo possiamo dire con una qualche certezza entrata nel nostro cuore dopo alcuni fatti avvenuti alla vigilia della scomparsa di Papa Francesco. Proprio per questo è stato eletto in brevissimo tempo e con una convergenza rara rispetto agli ultimi conclavi: un cardinale capace di non interrompere il cammino aperto da Francesco, ne verrebbe fuori un disordine e una confusione nella chiesa difficili da dissolvere in qualche decennio. Al tempo stesso, un cardinale diverso, proveniente dalla missione, da una vita monastica comunitaria come quella agostiniana, un uomo che dunque incontrava la gente, e anche chi non lo conosceva o lo conosceva poco ne intuiva “la clemenza”, la capacità di com-muoversi, di com-patire, di entrare in sintonia con chi incontrava. Da questo atteggiamento di ascolto, di cristiano ferito, nasce in Leone l’umiltà monastica di chi, senza essere preda del cinismo, sa che le autorità ecclesiali passano, che i piani pastorali mostrano presto dei limiti, che dalle vane ideologie – anche quelle che entrano ad accusare la vita della chiesa – occorre stare lontani perché ciò che era, è, e resta è solo Gesù Cristo, il Signore! Leone non sarà un papa protagonista, con una strategia per attirare tutti a sé, per coprire con la sua voce le diverse voci episcopali che presiedono la chiesa. Non sarà un condottiero ma un testimone, più Agnello che Leone, più con i tratti dell’Agnello messianico che del Messia Leone di Giuda. 

 Sono sempre significative le citazioni dei padri della chiesa nelle sue omelie: non brani apologetici, non ammonizioni severe, ma l’evocazione di parole autorevoli, efficaci anche per l’oggi, per la nostra vita ecclesiale e per la fraternità universale da estendersi a tutta l’umanità. Figlio dell’Occidente ma con una visione evangelica della vita del mondo sa che, come scriveva Bernardo di Chiaravalle: Amaritudo ecclesiae sub tyrannis est amara, sub haereticis est amarior, sed in concordia mundi amarissima! (L’amarezza della chiesa è amara quando la chiesa è perseguitata, è più amara quando la chiesa è divisa, ma è amarissima quando la chiesa se ne sta tranquilla e in pace). Perciò il mondo inteso come mondanità si scaglierà contro di lui e lui dovrà come Pietro la Roccia, mantenere salda la fede: la cercherà come un rabdomante anche presso i non cristiani, ma non permetterà alle mode di entrare nella chiesa per compiacere e agire in concordia con il mondo. Egli sa che se il sale perde il sapore può solo essere gettato via e calpestato. Sa che nell’indifferenza regnante attuale occorre vivere e mostrare “la differenza cristiana”, soprattutto oggi che un vago spirito divino, una forma di cristianesimo ridotto a morale, una religione narcisistica dello star bene con sé stessi sembra guadagnare terreno ed estendersi nell’emisfero Nord. 

 Per questo Papa Leone non si presterà a entrare nella politica, anche quella nobile della pacificazione tra Russia e Ucraina. Resterà a livello pre-politico come quasi sempre ha fatto la Santa Sede, invocando la pace, lavorando per la pace, aiutando i contendenti a incontrarsi, ma non entrerà nello spazio del conflitto geopolitico. La Santa Sede ha un’autorità superiore, un magistero che trascende anche la diplomazia, ha la parola di Cristo senza la quale è nulla voce. 

 Il Papa sa che non è possibile ospitare in Vaticano colloqui di pace, che le chiese ortodosse più distanti che mai da Roma non si sognano neanche di portare un loro conflitto in Vaticano. Lo ha detto anche Lavrov, anche se continuano giungere in Vaticano messaggi che dichiarano che l’autorità papale è riconosciuta dal governo russo e dal patriarcato di Mosca come una voce autorevole di pace e riconciliazione. Certo, occorreva un altro atteggiamento della chiesa cattolica in questo conflitto tra chiese ortodosse (russa e di Costantinopoli, russa e ucraina) e in tal modo non saremmo giunti ad un ecumenismo così frantumato. 

 Dunque, dobbiamo nutrire buone speranze, Leone XIV è un dono alla chiesa che saprà condurre come un Agnello tra agnelli e pecore per vie sinodali, ma soprattutto indicando una sola realtà alla quale aderire: il Signore Gesù Cristo.

Con Papa Leone tanti cristiani dovranno lavare le loro vesti nel sangue dell’Agnello. 

 Alzogliocchiversoilcielo

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GAZA, LA DIMENTICATA

 

Davvero 
nessun governo 

ha fatto di più

 per Gaza?

 

-di  Giuseppe Savagnone 



 All’inizio di tutto

«Quello che abbiamo fatto noi a Gaza non l’ha fatto nessun governo europeo», ha detto il nostro ministro degli Esteri, Tajani, il 20 maggio, in margine ad un incontro organizzato dall’Università Cattolica di Milano, polemizzando con l’opposizione che il giorno prima, durante l’informativa alla Camera, gli aveva rimproverato di non aver fatto abbastanza.

In quella occasione Tajani aveva dichiarato: «Il governo non ha mai abbassato la guardia sui comportamenti del governo israeliano che abbiamo ritenuto meritevoli di censura». E aveva citato tre o quattro episodi in cui l’Italia ha protestato per attacchi ingiustificati a singole realtà religiose o umanitarie, come quello alla parrocchia cattolica di Gaza o quello agli operatori umanitari di World Central Kitchen. Bocciando come «facili slogan, buoni solo per le piazze», le critiche di coloro che pretendono di additare alternative alla linea seguita dal nostro governo.

In un clima politico surriscaldato come quello attuale, è importante, per esercitare un serio giudizio critico, guardarsi dai pregiudizi che spesso caratterizzano lo scontro tra “destra” e “sinistra”.

Vale la pena, perciò, di valutare queste affermazioni stando semplicemente ai fatti. E, poiché la vicenda drammatica a cui si riferiscono risale a più di un anno e mezzo fa, il solo modo di verificarne la fondatezza o meno è provare a fare un esercizio di memoria e di ripercorrere le prese di posizione del governo italiano nel corso di questi diciotto mesi.

Dopo il 7 ottobre 2023 è scattata subito la risposta israeliana, col duplice obiettivo, dichiarato dal premier Netanyahu, di liberare gli ostaggi e di distruggere Hamas. Prima ancora dell’invasione di terra, l’aviazione di Tel Aviv ha cominciato a scaricare sulla Striscia, ininterrottamente, tonnellate di bombe, con l’intento di smantellare la rete di gallerie sotterranee che il movimento islamico in questi anni ha costruito.

L’opinione pubblica occidentale era tutta dalla parte delle vittime dell’atroce massacro che si era consumato a danno di innocenti giovani israeliani. Il motto ricorrente era «Israele ha il diritto di difendersi».

Pure, anche allora, in un mio Chiaroscuro del 13 ottobre – proprio all’inizio di questa lunga tragedia – scrivevo, prendendo le mosse da un raduno promosso dal fondatore del «Foglio» a sostegno dello Stato ebraico: «“Bisogna liberare Gaza anche con le bombe, anche con i carri armati, anche con l’esercito”, ha gridato tra gli applausi scroscianti Giuliano Ferrara nel suo infiammato discorso. Ma, in un territorio che è fra i più densamente popolati del mondo, con due milioni di persone stipate su una superficie di 360 km quadrati (aggiungo oggi: poco più di metà della città di Madrid), le bombe sono inevitabilmente destinate a colpire prevalentemente i civili. Il bilancio di sei giorni di raid aerei sulla Striscia è di più di 1.500 morti, di cui 500 bambini».

Tutti sapevano che, per colpire l’ala militare di un gruppo come Hamas, profondamente e capillarmente radicato nel territorio, sarebbe stata inevitabile una carneficina di innocenti civili, sicuramente ostili a Israele (molti erano profughi, rifugiati a Gaza dopo la Nakba), ma certo non direttamente responsabili dell’attacco terroristico del 7 ottobre.

 Una tregua umanitaria

Da questa consapevolezza è nata la mozione, presentata e votata già il 27 ottobre 2023 nell’Assemblea Generale dell’ONU, con cui si chiedeva una tregua umanitaria che fermasse i raid. La mozione è stata approvata con 120 voti favorevoli, 45 astenuti e 14 contrari. Il nostro paese, in questa votazione, si è astenuto. Hanno invece votato a favore, in base al principio espresso dal rappresentante francese che «niente può giustificare le sofferenze dei civili», Francia, Spagna, Belgio, Irlanda, Lussemburgo, Malta, Portogallo, Slovenia.

«L’Italia» – ha spiegato in quell’occasione il nostro ambasciatore alle Nazioni Unite, Maurizio Massari – «è e rimarrà fermamente solidale con Israele. Per noi, la sicurezza israeliana non è negoziabile in alcun modo. Questo è ciò che il governo italiano, a tutti i livelli, dal nostro Primo Ministro al nostro Ministro degli Esteri, ha affermato fin dall’inizio». Dei palestinesi, già allora colpiti senza pietà, nessuna parola.

Le successive Assemblee dell’ONU sul problema di Gaza

In base alla stessa logica l’Italia si è di nuovo astenuta nella votazione con cui, il 13 dicembre successivo, l’Assemblea Generale, ha chiesto  un «immediato cessate il fuoco umanitario» e il «rilascio incondizionato di tutti gli ostaggi», approvando la risoluzione con 153 voti favorevoli – tra cui quelli di 17 paesi dell’UE – , 10 contrari e 23 astensioni. E sì che questa volta la mozione includeva la richiesta dell’immediato rilascio degli ostaggi, la cui assenza era stata citata come motivo per la mancata adesione alla risoluzione precedente.

Fin dal 27 ottobre, il nostro rappresentante aveva tenuto a sottolineare che l’Italia è favorevole alla soluzione “due popoli – due Stati”, che implica la nascita di uno Stato palestinese accanto a quello israeliano, come previsto dalla risoluzione del 1947 dell’ONU. Ma quando, il 10 maggio 2024, nell’Assemblea delle Nazioni Unite si è votata una nuova risoluzione – approvata con 143 voti a favore, tra cui quelli di Francia e Spagna –  per il riconoscimento della Palestina come qualificata a diventare membro a pieno titolo dell’ONU, l’Italia è stata ancora una volta, insieme ad altri 24 Stati, tra gli astenuti.

Questa volta l’ambasciatore Massari, nello spiegare il voto, ha ribadito che l’Italia è favorevole a questa soluzione. Tuttavia, ha aggiunto, «riteniamo che tale obiettivo debba essere raggiunto attraverso negoziati diretti tra le parti e dubitiamo che l’approvazione della risoluzione odierna contribuirà all’obiettivo di una soluzione duratura al conflitto. Per questo motivo abbiamo deciso di astenerci».

Ma già allora in Italia l’opposizione, per bocca della segretaria del PD, Elly Schlein, criticava con energia la scelta del governo: «Il popolo palestinese non è Hamas, per isolare Hamas non bisogna schiacciare la legittima aspirazione dei palestinesi ad avere uno Stato in cui vivere in pace e in sicurezza, come è giusto che gli israeliani possano vivere in pace e in sicurezza».

Il 15 settembre dello stesso 2024 l’Assemblea generale dell’ONU ha di nuovo votato, chiedendo questa volta la fine dell’occupazione di Gaza da parte dell’esercito israeliano «entro 12 mesi». Nel documento si chiedeva, oltre al ritiro delle truppe dai territori palestinesi, la cessazione di nuovi insediamenti, la restituzione delle terre e delle proprietà sequestrate e la possibilità di ritorno dei palestinesi sfollati. La risoluzione è stata ancora una volta approvata a larga maggioranza: 124 voti a favore, 14 contrari e 43 astensioni. Ma, ancora una volta, tra gli astenuti c’era l’Italia. 

Anche in questo caso c’è stata una ferma protesta da parte delle opposizioni. «L’Italia», ha detto il segretario dei 5stelle Giuseppe Conte, «si astiene ancora una volta, all’ONU, su un voto per mettere fine all’occupazione israeliana dei territori palestinesi. Che vergogna! Continuiamo a girare la testa dall’altra parte di fronte a una occupazione illegale, allo stesso modo in cui rimaniamo indifferenti alla barbarie a Gaza, con il massacro di oltre 40mila civili».

La difesa di Netanyahu e gli attestati di vicinanza ad Israele

Il 21 novembre 2024, la Corte penale internazionale dell’Aja, all’unanimità, ha emesso mandati di arresto per il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l’ex Ministro della Difesa Yoav Gallant, colpevoli di «crimini contro l’umanità» per l’embargo degli aiuti umanitari nella striscia di Gaza.

La reazione della premier italiana Giorgia Meloni è stata di ribadire innanzi tutto la solidarietà con gli incriminati: «Un punto resta fermo per questo governo: non ci può essere una equivalenza tra le responsabilità dello Stato di Israele e l’organizzazione terroristica Hamas». Ha poi avanzato il sospetto che le motivazioni della sentenza fossero viziate da ragioni politiche: «Approfondirò in questi giorni le motivazioni che hanno portato alla sentenza. Motivazioni che dovrebbero essere sempre oggettive e non di natura politica».

E quando il presidente americano Trump, anche lui solidale con Netanyahu, ha emesso una serie di misure punitive nei confronti della Corte per la sua decisione, e 79 Stati membri dell’ONU – tra cui tutti i paesi dell’Europa occidentale, tra cui  Regno Unito, Francia, Germania e Spagna –  in una dichiarazione congiunta hanno preso le distanze da questa presa di posizione, denunciandone l’incompatibilità con il rispetto del diritto internazionale, l’Italia ha rifiutato di firmare.

Il 20 maggio scorso, davanti al dilagare delle violenze israeliane a Gaza, la Commissione europea ha accolto la richiesta, sostenuta da 17 stati membri nel Consiglio dell’Unione europea, di valutare se Israele abbia violato gli obblighi previsti dall’articolo 2 dell’Accordo di cooperazione tra Unione europea e Israele, che riguarda il rispetto dei diritti umani e dei principi democratici. L’Italia, insieme alla Germania, ha votato no.

In questo lasso di tempo, il governo italiano per due volte, a distanza di pochi mesi – il 25-26 luglio 2024 e il 19-21 febbraio 2025 – , nel pieno svolgimento dell’offensiva israeliana a Gaza – ha accolto in visita ufficiale il presidente di Israele, Herzog, attestandogli l’amicizia incondizionata nei confronti del suo paese e la solidarietà per la strage del 7 ottobre, limitandosi a parlare dell’importanza di «giungere al più presto a un cessate il fuoco e alla liberazione degli ostaggi», senza mai fare cenno al massacro di cui Israele si stava rendendo responsabile. Nemmeno l’ombra delle appassionate richieste che il nostro ministro degli Esteri, appena tre mesi dopo quella visita, ha espresso nell’informativa alla Camera: «I bombardamenti devono finire, l’assistenza umanitaria deve riprendere al più presto, il rispetto del diritto internazionale umanitario deve essere ripristinato».   Eppure, i morti erano già a quella data decine di migliaia, in maggioranza donne e bambini…

Parole tardive rivolte agli italiani smemorati

Difficile, alla fine di questa ricapitolazione, sottrarsi alla conclusione il ministro Tajani, sostenendo che «il governo non ha mai abbassato la guardia sui comportamenti del governo israeliano che abbiamo ritenuto meritevoli di censura» e che «quello che abbiamo fatto noi a Gaza non l’ha fatto nessun governo europeo», ha evidentemente confidato nella mancanza di memoria degli italiani. E ha avuto ragione, perché la grande maggioranza dei giornali e degli opinionisti non ha avuto nulla da ridire.

Ma la verità è che diversi altri Stati europei in questi diciotto mesi hanno mostrato – e continuano a mostrare – ben maggiore solidarietà nei confronti degli sventurati abitanti della Striscia, battendosi per la fine del massacro di cui erano e continuano ad essere vittime, senza esitare a entrare in netto contrasto con le posizioni del governo israeliano, che ne ha sempre rivendicato la piena legittimità. 

Niente di lontanamente simile nella linea italiana, sempre molto attenta a «non isolare Israele», ma molto meno a cercare di risparmiare la vita e la dignità di un popolo ridotto a carne da macello. Anzi, con le sue reiterate scelte di neutralità, con la sua esplicita difesa dello Stato ebraico, l’Italia è stata di fatto complice di quello che ormai sempre più chiaramente si presenta come un genocidio.

Le parole di Tajani avrebbero dovuto essere pronunziate – e in sede internazionale – nell’ottobre del 2023. Oggi suonano solo come una concessione tardiva al clima di indignazione ormai sempre più diffuso tra i governi e nell’opinione pubblica occidentale. E non basta, per smentire l’accusa di aver chiuso gli occhi, evocare la condanna dell’attacco alla parrocchia cattolica di Gaza. 

 www.tuttavia.eu



 

 

LO STUPORE DELL'ESSERE


  Tommaso d’Aquino,

 ottocento anni di luce




- di Vittorio Possenti

Luce alta sui monti e stella orientatrice del cammino della Chiesa e dei popoli è stato ed è il pensiero di san Tommaso d’Aquino, di cui in quest’anno giubilare ricorre l’800° anniversario della nascita: 1225-2025. Egli è stato dalla Chiesa chiamato in vari modi: Doctor AngelicusDoctor CommunisDoctor Humanitatis, etc. Giovanni Paolo II nel discorso all’Unesco (giugno 1980) lo indicò come uno dei più grandi geni del cristianesimo, non solo teologo ma pure filosofo. Da quasi due secoli e con alterne vicende il Tommaso filosofo e metafisico è ritornato ad essere meditato, sia pure fiocamente, dai filosofi che cercano sin dai tempi più lontani la verità dell’essere. Dico fiocamente in quanto rimane in una parte della cultura, forse però in declino, una diffidenza quasi sprezzante per il Medioevo e per l’Aquinate, in specie nell’area continentale, e in minor misura in ambito anglosassone. Meditare sull’essere, la vita, Dio, l’uomo e la verità fu il suo itinerario, mosso dallo stupore e dalla sete di conoscenza; coloro che anche oggi lo seguono provano lo stesso sentimento. Un bel libro di Giuseppe Savagnone (Lo stupore dell’essere. Il pensiero alternativo di Tommaso d’Aquino, Marcianum Press, pagine 280, euro 23,00) invita il lettore a percorrere un cammino simile al suo. Savagnone incontrò il pensiero di Tommaso quando era giovane, trovandovi” una chiave di lettura della realtà alternativa alle mode culturali che oggi dominano la scena”, e un vivaio inesauribile di itinerari.

Il libro si compone di dodici conversazioni che, partendo dalla situazione culturale del giovane Tommaso (1240 e oltre), descrivono il suo stile di pensiero e la ricerca, anche filosofica, vissuta come la compenetrazione tra ricerca intellettuale e ricerca spirituale, in cui hanno parte l’intelletto, la volontà e il cuore. Chi filosofa con tutto sé stesso non è semplicemente assimilabile all’esperto accademico che dispensa saperi specializzati. Le dodici conversazioni concernono le questioni massime di una filosofia che si volge a tutta la realtà, senza operare esclusioni preliminari, tra cui frequente quella relativa alla trascendenza: un rapporto positivo tra ragione e fede, la scoperta dell’essere e delle sue leggi, l’esistenza di Dio, la creazione, l’identità della persona umana, il fascino del bene e le domande sull’amore. Nel percorso dell’autore si avvertono la meraviglia, la gratitudine, la responsabilità dinanzi all’essere e alla vita di cui fu testimone l’Aquinate. L’esposizione si dipana entro un costante riferimento ai suoi testi, ampiamente citati per offrire al lettore un appoggio di verifica e di ricerche ulteriori, e con il ricorso a pensatori contemporanei che osservano la condizione umana. Il cammino è necessario per distinguere il pensiero di Tommaso da quello di Aristotele. Certamente il primo conobbe e commentò a fondo l’opus aristotelico, ma non fu un aristotelico in più, perché oltrepassò l’aristotelismo in nuclei essenziali. Il testo ricorda i punti su cui Tommaso segue Aristotele non meno di quelli in cui va oltre. Da molti decenni numerosi studiosi hanno notato che la formula “filosofia aristotelico-tomista”, a lungo in auge, emette un suono non genuino e dovrebbe essere posta da parte.

In certo modo il nucleo primario dell’esposizione di Savagnone riguarda il rapporto del soggetto con la realtà: qui Tommaso non fu né un cartesiano né un hegeliano o un’idealista ante litteram. Egli afferma il primato del piano reale dove vivono ed operano solo gli enti reali, gli individui e le sostanze individuali. L’Aquinate aborre dall’assumere che il piano reale sia quello delle Idee, di modo che l’approccio alla realtà diventa essenzialmente logico. Il reale non è una deduzione dell’idea, ma è la cosa stessa da cui si deve partire, e il reale è composto di individui concreti. Non si può modellare il mondo concreto sul pensiero; occorre viceversa prendere le mosse dal mondo di vita, dagli enti che si danno e che stupiscono. Tommaso non poteva prevedere che una parte più che consistente della filosofia moderna avrebbe preso la via senza uscita del primato dell’idea e della deduzione dell’esistenza dall’essenza, ossia la schematizzazione logica del Tutto. Ci ha però fornito gli strumenti essenziali per rigettare l’identità hegeliana di Logica e di Metafisica. Bisogna dimenticarsi di sé e delle categorie a priori quando ci si confronta con l’oggetto. Questo è ciò che ci sta dinanzi e con cui occorre fare i conti. Allontanare il proprio narcisismo e lasciare il campo ad un ‘puro guardare’: nel nostro connaturale desiderio di conoscere il primato compete perciò all’ente e all’essere che dovunque ci circondano Proprio su questi aspetti spicca il contributo preziosissimo dell’Aquinate che contemplando le cose e il cosmo, intende che una corrente universale di vita e di esistenza percorre il tutto. Il suo fu un esistenzialismo metafisico: la grande scoperta dell’atto d’essere (actus essendi) che vivifica dall’interno ogni esistente concreto. Siamo così posti dinanzi alla questione di Dio quale esse ipsum per se subsistens che è causa di tutto l’essere diveniente. Dio abbraccia tutto e niente lo può abbracciare. La cultura tardo moderna e contemporanea manifesta in genere una considerevole indifferenza verso Dio, già notata da Nietzsche. Nella “civiltà della Tecnica” in cui siamo immersi fino al collo, col palpabile rischio di essere da essa soverchiati, il pensiero dell’Aquinate rappresenta l’oltrepassamento di tutte le chiusure cui spesso ci inchiniamo e una rivendicazione della dignità umana: non siamo solo soggetti di consumo o oggetti di manipolazione tecnica. Anche per questo la sua “filosofia dell’essere e dell’uomo” è in potenza attiva verso il futuro. Il libro di Savagnone lo mostra con persuasiva chiarezza.

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AGIRE DA CRISTIANI

La constatazione è che non esiste più una unanimità cattolica, anche quando qualcuno pensa di agire in quanto cattolico


- di Luigi Berzano*

 È possibile identificare oggi il mondo dei cattolici, dopo le grandi trasformazioni sociali e culturali che sono avvenute? A rendere difficile tale domanda è quanto è avvenuto dopo gli anni del ’68: la laicizzazione della società, la secolarizzazione degli stili di vita, la rivendicazione sui diritti civili, l’autonomia in campo politico. Sono tali trasformazioni ad aver scomposto e differenziato anche i cattolici. Difficile quindi dichiarare che la Chiesa cattolica da maggioranza stia diventando minoranza. Nella società civile, nella scuola, nei quartieri, nella politica, nell’amministrazione, nella cultura i cattolici possono ormai essere su posizioni diverse in quanto cittadini. E anche quando pensano di agire come cattolici non si tratta più di unanimità imposta dal Magistero. 

La constatazione è che non esiste più una unanimità cattolica, anche quando qualcuno pensa di agire in quanto cattolico: «Ciò è un bene, nella stessa misura in cui è stata un male l’ingannevole, irreligiosa unità dei cattolici predicata e imposta prima del Concilio. In questo vortice, se così si può dire, ne sono irretiti anche i “sacri pastori”, le cui opinioni a livello europeo se non proprio italiano in materie politiche e sociali, dimostrano che neppure essi possono ancora rappresentare una risposta cattolica a una sfida che interpella gli uomini, non i cattolici» (P. De Benedetti, Humanitas 8-9 (1976), p. 655, citato da F. Capretti). 

 Su questi temi sono i mass-media e le dichiarazioni di opinion leaders a creare gli immaginari collettivi del pessimismo o dell’ottimismo. Si considerino il caso francese e quello italiano relativamente ai cattolici. Nel 2024 la Francia pare riscoprirsi più cristiana di quella degli ultimi anni: moltiplicazione dei catecumeni e dei battesimi di adulti, con un aumento del 31% rispetto all’anno precedente. Crescita percentuale di catecumeni ex musulmani pronti a convertirsi, nonostante il clima poco favorevole a queste traiettorie di fede nelle famiglie e comunità islamiche. Molti ambienti culturali, universitari, professionali conoscono un ripensamento della fede. Anche la stampa della gauche francese ha parlato di questa “schiarita per la Chiesa” e del ritorno della spiritualità fra i giovani adulti. Quale la ragione di questa nuova e inattesa attenzione alla religione? Molti l’hanno indicata nella povertà delle società secolari nell’offrire idee forti per dire ai giovani cosa fanno in questo mondo e dove stanno andando. 

In Italia, al contrario, cresce nel mondo cattolico una lettura della Chiesa come se fosse ormai destinata a diventare una tra le varie minoranze religiose, nonostante che tale atteggiamento contrasti in primo luogo con i rapporti privilegiati che la Chiesa cattolica intrattiene ancora con la società civile: il Concordato con lo Stato italiano, l’Otto per mille, l’insegnamento della religione nelle scuole di ogni ordine, i cappellani presso le istituzioni militari e sanitarie, le scuole private cattoliche. 

Ovviamente le ragioni di questo declino verso la condizione di minoranza sarebbero di altro genere e riguarderebbero la disaffezione crescente dei fedeli alle celebrazioni, la caduta della domenica quale giorno festivo, il venir meno delle vocazioni, la chiusura dei seminari, delle case religiose e dei monasteri, la diminuzione dei volontari nelle attività parrocchiali. 

Rimane ancora forte la dimensione religiosa nei riti di passaggio, ma questi rappresenterebbero soltanto più una parentesi insignificante, una “provincia finita di significato” – come dicono i sociologi – un universo a parte, totalmente esterno ai criteri ordinativi della Chiesa e della sua teologia. 

 SPIRITUALISTI LA DOMENICA E MATERIALISTI IL LUNEDÌ 

 Per chi condivide la visione della Chiesa ormai in minoranza l’indicatore principale sarebbe la crescente irrilevanza della Chiesa nella società civile. Anche le esperienze religiose ancora presenti sarebbero vissute dai partecipanti solo più come isole di senso spirituale insignificanti nelle conseguenze per gli spazi pubblici; e i partecipanti rappresenterebbero i fedeli che Marcel Gauchet definisce “spiritualisti la domenica e materialisti il lunedì”, cioè nella vita quotidiana. 

Si pone qui la domanda sull’opportunità di definire questa situazione della Chiesa cattolica in Italia quale condizione di minoranza. Questa idea della Chiesa di minoranza, pur con la responsabilità di testimoniare ancora i propri valori e stili di vita nello spazio pubblico, accentua oggi le discussioni all’interno della Chiesa e rivela tensioni a tutti i livelli dell’istituzione. Tali tensioni, durante il periodo della pandemia Covid-19, si erano già manifestate, mettendo in luce opposte valutazioni non solo tra i fedeli, ma anche all’interno dell’episcopato. Oggi però si può rilevare una linea di divisione più forte tra chi si sforza di pensare che la fede cristiana si vive negli spazi pubblici in forme laiche e secolari – come richiede la società civile – e chi invece ritiene che la Chiesa non possa accettare questa situazione e debba interpretare la questione in termini di autodifesa e riconquista. 

Questa divisione in merito all’accettazione o al rifiuto della condizione di laicità come dato insormontabile del cristianesimo contemporaneo costituisce una linea di demarcazione che va oltre la contrapposizione tra cattolici conservatori e cattolici progressisti, ovvero tra cattolici di «apertura» e cattolici di «identità» – distinzione che inevitabilmente riduce il divario in questione a categorie di classificazione politica, con una «destra» e una «sinistra». In realtà c’è qualcosa di più in questa contrapposizione, non solo ideologica, ma teologica. La ragione del dissidio è il confronto tra una visione che associa la vitalità della Chiesa alla sua influenza geografica, culturale e politica sulla società, e la visione «diasporica», propria della fede cristiana, che accetta di essere in mezzo agli altri nella società civile, come scrive Michel de Certeau in La debolezza del credere

 CRISTIANI DISSEMINATI 

La definizione di de Certeau della Chiesa che accetta di essere «tra gli altri» in una società che a essa non si rivolge più, non significa, però, che la Chiesa non abbia più nulla da dire. Questa «conversione dello sguardo» su se stessa e sul proprio ruolo implica però una rivisitazione della teologia. La separazione tra Chiesa e Stato, tra sfera spirituale e sfera secolare della vita è sempre stata presente nella cultura cristiana, a differenza di altri contesti, quale quello teocratico dell’Islam. Per tale ragione i Paesi cristiani non conoscono i danni provocati anche oggi dalle teocrazie. 

È questa singolarità evangelica dei cristiani disseminati nella società civile che può produrre in alcuni la sensazione di essere minoranza nella vita pubblica, insignificanti, uguali e diversi tra “gli altri”, cioè in diaspora (dià-spora). Non così pensavano i cristiani dei primi secoli descritti nella Lettera a Diogneto i quali, pur dispersi nel mondo pagano, dicevano: «Come l’anima è per il corpo, così i cristiani sono per la società». In Occidente le società si organizzano secondo i principi della laicità dello spazio pubblico, del pluralismo dei valori e degli stili di vita. Vi sono coinvolte pure le religioni, in tutte le loro forme collettive e individuali. Può succedere così che in tale condizione i cristiani appaiano minoranze attive, pur essendo la maggioranza della popolazione. 

 LA SVOLTA SPIRITUALE 

 Dal Concilio di Trento (1545-1563) la Chiesa cattolica ha scelto una struttura organizzativa territoriale rigida, adottando le forme corrispondenti a quelle del potere politico del tempo. Il papa, il vescovo, il parroco: a ognuno il proprio territorio da amministrare. Questa territorializzazione con cui si organizzò la Chiesa – quasi sconosciuta per i primi mille anni – non appartiene all’essenza immutabile della Chiesa, ma alla sua forma sociale, storicamente mutevole. E, alla mutevole forma sociale della Chiesa non appartengono solo le sue strutture organizzative, ma anche le forme del suo messaggio, del suo linguaggio e della sua liturgia. Quale quindi la Chiesa nella sua forma sociale futura? 

Oggi, con il Sinodo e il Giubileo la Chiesa sta cercando la propria strada. Molti la definiscono una svolta spirituale per ritrovare la singolarità evangelica della Chiesa, privata della sua influenza politica e del potere sociale. Centrali in ogni svolta spirituale sono il linguaggio e le piccole comunità che la compongono. 

 LINGUAGGIO E LITURGIA 

 Nella Chiesa il linguaggio per comunicare è la liturgia. Anche nel linguaggio liturgico è essenziale che chi parla e chi ascolta abbiano la stessa cultura: giovani, professionisti, studenti, operai, ricercatori, artisti, poeti, stranieri. È necessario fare parte della cultura dell’individuo 2025 coinvolto nel mondo digitale, nel pluralismo religioso, nella laicità, nella fisica quantistica, nell’arte-moderna, nella post-modernità. Nella liturgia (parole, simboli, formule, preghiere, vestiti, musiche) si richiede di “dire Dio”, “dire Gesù”, “dire resurrezione”, “dire il Credo”, “pregare”, “cantare”, in modo che ogni cosa non assomigli solo ad un copione recitato da tutti e ormai privo di sapore. Lo stesso parlare del celebrante non trova più ascolto senza la sua identificazione nella cultura di chi ascolta. 

Forse, il problema del linguaggio, essenziale per la sopravvivenza del cristianesimo, va risolto più indietro, a livello dell’ecclesiologia. Di che cosa possono parlare le comunità cristiane al cospetto di Dio? E sono cristiane di qualsiasi cosa parlino? E quando parlano, hanno già ascoltato? O sono invece prigioniere di una cultura che le costringe ad ascoltare solo se stesse? Anche queste domande impongono di imparare a parlare e ancor prima a tacere ascoltando le voci del mondo, perché la Chiesa non è altra cosa dal mondo e quando essa pensa di essere altra cosa è semplicemente il mondo di ieri. 

 COMUNITÀ DI RICONOSCIMENTO 

 La forma elementare e “di base” della Chiesa futura – simile alla parrocchia territoriale – non potrà che essere un sistema aperto di comunità relazionali, ambienti, luoghi, infrastrutture collettive e altre forme sociali concrete che favoriscono rapporti, esperienze di fraternità, legami, consapevolezza di un’unica fede, forme di interazione e divergenze attorno al messaggio evangelico. La Chiesa accetterà anche il rischio di qualche indeterminatezza, sapendo che sono le forme innovative ad incoraggiare la maggiore consapevolezza collettiva. Solo modelli simili potranno ospitare nuove esperienze e accettare l’indeterminatezza che permetta molteplici possibilità e il continuo adattamento a forme future. Lasciare la possibilità allo Spirito promesso da Gesù di fornire sempre nuovi elementi ed esperienze. 

Nelle comunità di riconoscimento troveranno risposta i bisogni di appartenere a una Chiesa accogliente, affidabile, credibile, come erano un tempo le piccole comunità parrocchiali. Questa è la riscoperta, dopo il concilio Vaticano II, della Chiesa comunità in cui si è riconosciuti e “a casa”. Questa comunità in cui ci si «sente bene» è quella che accoglie il più radicale bisogno dell’epoca contemporanea: il bisogno di riconoscimento. Un bisogno ricco, complesso, a volte contraddittorio poiché nel suo significato e nell’uso nella vita quotidiana indica una reciproca dipendenza dall’apprezzamento e dalla considerazione da parte di un altro e dei rispettivi altri (A. Honneth, 2018). 

Bisogno di riconoscimento fino alla forma dell’amore di cui scrive il teologo greco ortodosso Christos Yannaras leggendo il Cantico dei cantici. Riconoscimento come amore che trasforma e trasfigura tutto ciò che il giorno prima non aveva sapore, colore, profumo. È l’amore tensione vitale verso l’infinito. «Se esci dal tuo Io, sia pure per gli occhi belli di una zingara, sai cosa domandi a Dio e perché corri dietro a Lui». Poiché in ogni amore genuino c’è lo slancio verso l’Amore infinito, totale, assoluto. 

È per questo che l’amore è grazia ed è definizione di Dio (G. Ravasi). 

 * Luigi Berzano è un sociologo, presbitero e professore ordinario dell’Università di Torino. Tra i suoi campi di ricerca: i comportamenti collettivi, gli stili di vita, le trasformazioni delle religioni nella modernità avanzata e le nuove forme religiose.

 Rocca n° 8/2025

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NOI E LA SOFFERENZA


 Visitare una persona malata significa farle spazio. 

Significa porsi in una posizione che sa coniugare impotenza e non-inutilità.

 Impotenza di fronte al suo soffrire, non-inutilità nel restare accanto donando tempo e presenza, ascolto e parola.




- di Luciano Manicardi

 

Chiedendo di offrire segni di speranza agli ammalati e alle persone con disabilità, papa Francesco auspica che «le loro sofferenze possano trovare sollievo nella vicinanza di persone che li visitano e nell’affetto che ricevono» (Spes non confundit 11). Il testo echeggia le parole di Agostino: «Io non so come accada che, quando un membro soffre, il suo dolore divenga più leggero se le altre membra soffrono con lui. E l’alleviamento del dolore non deriva da una distribuzione comune dei medesimi mali, ma dalla consolazione che si trova nella carità degli altri» (Epist. 99,2). 

Ora, la malattia è esperienza di stranierità: il malato è come un emigrato in un Paese straniero di cui non conosce lingua, usi e costumi. Per questo opponiamo resistenze a farci vicini a un malato: ci rende a nostra volta stranieri. La debolezza del malato fa emergere la paura di essere «contagiati» dalla sua sofferenza. Sicché la visita a un malato può divenire il penoso teatro in cui vanno in scena imbarazzo e ipocrisia, reticenza e falsità, doppiezza e condiscendenza, banalità e congiura del silenzio: non a caso nell’Antico Testamento, che pure esorta a visitare il malato («Non esitare nel visitare gli ammalati», Sir 7,35), manca la testimonianza in favore della buona riuscita del rapporto dei visitatori con il malato. Il libro di Giobbe è la storia di amici che diventano nemici mentre visitano un malato

Gli amici di Giobbe sbagliano, non solo perché fanno del capezzale del malato il luogo di una catechesi, ma soprattutto perché vanno presumendo di «sapere» ciò di cui il malato ha bisogno meglio del malato stesso e ritenendo di poterlo consolare adeguatamente. Presentandosi come salvatori essi innescano un circolo vizioso in cui colpevolizzano il malato, ne fanno una vittima divenendo i suoi persecutori, e diventano a loro volta i bersagli delle sue accuse. Visitatori e malato entrano in un complesso rapporto in cui rivestono entrambi, di volta in volta, le vesti del persecutore e della vittima, e questo a partire dalla pretesa dei visitatori di essere dei salvatori. Si verifica il triangolo drammatico teorizzato dallo psicologo Stephen Karpman. La visita diviene un inferno. Non bastano le buone intenzioni: chi visita un malato deve entrare nell’ottica di non aver potere sul malato, attenersi al quadro relazionale che egli presenta, convertire la propria posizione di potere in una posizione di servizio. Più che l’intento di fare del bene è importante la consapevolezza del perché si vuol visitare un malato. 

Gesù, poi, si identifica con il malato, non con il visitatore: «Ero malato e mi avete visitato» (Mt 25,36). Il malato è «sacramento di Cristo», sicché il visitatore deve entrare in quella povertà grazie a cui può avvenire l’incontro durante il quale il malato stesso, nella sua debolezza, condurrà il visitatore alla somiglianza con il Cristo che «da ricco si fece povero» (2Cor 8,9). E il malato chiede essenzialmente di essere ascoltato e accettato, anche se ciò che fa o dice non dovesse incontrare l’approvazione del visitatore. Dice Giobbe: «Per il malato c’è la lealtà degli amici, anche se rinnega l’Onnipotente» (Gb 6,14). Zittire le parole sconvenienti del malato o censurare i suoi moti di rivolta, significa negargli la possibilità di mettere parola (per quanto alterata) su ciò che sta avvenendo nella sua vita. Invece, ascoltare è lasciar essere presente l’altro con ciò che sente ed esprime. Visitare il malato significa fargli spazio, non occupare o negare il suo spazio. Significa porsi in una posizione che sa congiungere impotenza e non-inutilità. Impotenza di fronte al soffrire del malato, non-inutilità nel restare accanto donando tempo e presenza, ascolto e parola, senza giudicare. 

La crisi in cui ci pone il malato diviene radicale di fronte alla persona con disabilità, soprattutto mentale. Quell’umano che abitavamo pacificamente diventa una domanda drammatica: che cos’è l’umano? Che cos’è vivere? Chi sono io? Chi e come potrei diventare? E prima di suscitare domande, l’incontro con la persona con disabilità suscita inquietudine e paura, turbamento e volontà di fuga. L’identità personale di chi è segnato da disabilità è praticamente sequestrata da quella disabilità che è come la sua seconda pelle, quella che si impone all’osservatore. È lo stigma, e noi, di fatto, crediamo che la persona con uno stigma sia meno umana o «non sia proprio umana» (Erving Goffman). Siamo di fronte al problema radicale che la disabilità pone: che cos’è un essere umano? Ed è così che, paradossalmente, la disabilità si rivela un’esperienza specifica capace di «illuminare la complessità dell’umano» (Julia Kristeva). Più precisamente: «Quando diciamo che l’esperienza ci aiuta a capire l’handicap, omettiamo la parte più importante, e cioè che l’handicap ci aiuta a capire noi stessi» (Giuseppe Pontiggia).

 Messaggero di Sant'Antonio

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I RAGAZZI PAGANO IL CONTO


 “Abbiamo fallito 

e i ragazzi 

pagano il conto”




 Lo psicanalista: «Pur vivendo in un tempo di libertà di massa, non hanno desideri. Dobbiamo aiutarli a ritrovare lo slancio, azzerato dalla sfiducia, verso l’aspirazione»

 

-di Massimo Recalcati

 Nell'epoca della disillusione culturale e della caduta dei punti saldi e dei mostri sacri, dei confini sgretolati, della consapevolezza etica, della rinascita woke e della definizione a tutti i costi, sembra che le nuove generazioni facciano fatica a trovare un proprio posto nella società reale e che abbiano la tendenza a vivere individualmente nella tela globale e interconnessa che le invischia. Tra dipendenze sempre più virtuali, narcisismo, crisi di identità, riduzione dell'individuo a "profilo" e caccia ai like al di fuori di qualsiasi significato profondo, è facile perdersi e confondersi. È facile non capire, e nel caso del divario tra generazioni, l'incomprensione è un classico. 

Massimo Recalcati (che sarà ospite al Festival Internazionale dell'Economia, ma che è anche promotore del Moby Dick Festival di Noli) dedica parte della propria esperienza e della propria attività psicanalitica proprio a sbrogliare le matasse generazionali. A comprendere il disagio e a ipotizzarne cause e soluzioni. 

Cos'è, oggi, il disagio giovanile? «Ci sono due forme prevalenti. La prima si manifesta nella sregolazione pulsionale, nella spinta a raggiungere un godimento immediato, in una libertà che vorrebbe escludere ogni esperienza del limite. Questo disagio si manifesta emblematicamente nelle dipendenze patologiche: alcolismo, tossicomania, bulimia, Internet addiction, per esempio, e nei comportamenti platealmente trasgressivi, quali sono il ricorso alla violenza, i comportamenti illegali, eccetera. La seconda assume le caratteristiche del ritiro sociale, dell'isolamento, del rifiuto del legame. Sono i ragazzi e le ragazze che abbandonano la scuola, abbandonano il lavoro e si rintanano nelle loro abitazioni che diventano dei rifugi dalla vita. La spinta competitiva, l'essere perennemente in gara, conduce molti giovani a rifiutare di far parte di questo mondo». 

È un'autodifesa? «Diciamo che implica la messa in atto di una pulsione securitaria che spinge a far prevalere la sicurezza, la difesa dei propri confini, la tutela di sé, di fronte al rischio che il carattere ingovernabile della vita comporta. Tendenza che si è accentuata negli ultimi anni come effetto di una più generale destabilizzazione dell'ordine della realtà. Si pensi al Covid, alla crisi economica e alle guerre. La compromissione del futuro favorisce sempre l'incentivarsi della pulsione securitaria. Si tratta di una forma di sovranismo psichico». 

Controllo di sé, in pratica? «Sviluppato all'eccesso, sì». 

Ha a che fare con la maggiore consapevolezza di genere? «È indubbio che la vita sessuale non è più oppressa dai tabù della morale. Questo permette maggiore libertà e consapevolezza dei propri diritti. Ma proprio questa legittima libertà rischia di alimentare confusione e disorientamento». 

Fluidità

La fluidità può confondere? «Non in sé stessa, ma non so quanto la cosiddetta fluidità dell'identità sessuale sia un guadagno o la manifestazione di un disagio. Se un tempo veniva rivendicata la libertà sessuale contro la repressione della morale, oggi si rivendica la libertà di decidere l'identità del proprio sesso. È una seconda grande rivoluzione sessuale. Per la psicoanalisi l'identità sessuale è però sempre il frutto di una scelta inconscia. Occorrerebbe non perdere di vista questo elemento centrale». 

Le rivoluzioni spesso derivano da oppressioni precedenti. «Questa, che si manifesta anche attraverso la prima declinazione del disagio, cioè la ricerca compulsiva dell'appagamento immediato, deriva dal fatto che viviamo nel tempo del dominio incontrastato di quello che Lacan chiamava "discorso del capitalista". Questo discorso sostiene l'illusione che la salvezza sia data al consumo dell'oggetto. Per questo mette a disposizione illimitatamente qualunque tipo di oggetto per colmare la nostra mancanza. In realtà, l'astuzia di questo discorso consiste nel fare in modo che gli oggetti creino sempre nuove pseudo-mancanze. Una mia paziente diceva: «Vado al supermercato per vedere quello che mi manca». In questo caso l'oggetto non colma la mancanza ma la elettrizza, la riduce alla dimensione convulsa di una domanda continua di nuovi oggetti. Pasolini vide per primo gli effetti catastrofici di questa "mutazione antropologica"». 

Cioè? «Il piegamento della società verso il mondo omologante del consumismo. Lo schiavismo confuso con l'illusione di essere padroni. Era il 1974 e fa impressione, se pensiamo al futuro». 

Futuro

Le nuove generazioni lo vedono, il futuro? «Ne percepiscono la drammatica incertezza. Che cosa abbiamo lasciato a loro in eredità? Mancanza di lavoro, di prospettiva, un pianeta saccheggiato e ridotto al collasso, guerre crudeli, lotte di religione, miti fasulli legati al successo individuale e al profitto. Non siamo stati in grado di trasmettere loro un'eredità viva. Gli abbiamo lasciato un corpo morto da trascinare. Hanno tutte le ragioni di sentirsi spaesati. Il disagio delle nuove generazioni non può mai essere scorporato dal fallimento delle vecchie». 

La psicanalisi può aiutare? «Il denominatore comune del disagio giovanile contemporaneo è la fatica di desiderare, la perdita del nesso profondo che unisce il desiderio alla vocazione. Sebbene i giovani vivano in un tempo inedito di libertà di massa, in molti di loro la vita non sembra essere animata dalla forza del desiderio. È quello che io definisco come la cifra neomelanconica del disagio contemporaneo. Nella festinazione perpetua, nella girandola spettacolare dei miti del consumo e dell'immagine, la fatica di desiderare mostra il vero volto del discorso del capitalista. Sotto l'obbligo del divertimento senza freni, dell'accumulo dei like, della coltivazione narcisistica del proprio profilo, nell'apatia frivola del godimento, si nasconde il volto triste di un soggetto melanconico, separato dal suo desiderio». 

Quindi? «Quindi sì, ma va ritrovato lo slancio verso l'aspirazione».

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