Significa porsi in una posizione che sa coniugare impotenza e non-inutilità.
Impotenza di fronte al suo soffrire, non-inutilità nel restare accanto donando tempo e presenza, ascolto e parola.
- di Luciano Manicardi
Chiedendo
di offrire segni di speranza agli ammalati e alle persone con disabilità, papa Francesco auspica che «le loro sofferenze possano
trovare sollievo nella vicinanza di persone che li visitano e nell’affetto che
ricevono» (Spes non confundit 11). Il testo echeggia
le parole di Agostino: «Io non so come accada che, quando un membro soffre, il
suo dolore divenga più leggero se le altre membra soffrono con lui. E
l’alleviamento del dolore non deriva da una distribuzione comune dei medesimi
mali, ma dalla consolazione che si trova nella carità degli altri» (Epist.
99,2).
Ora, la
malattia è esperienza di stranierità: il malato è come un emigrato in un
Paese straniero di cui non conosce lingua, usi e costumi. Per questo opponiamo
resistenze a farci vicini a un malato: ci rende a nostra volta stranieri. La
debolezza del malato fa emergere la paura di essere «contagiati» dalla sua
sofferenza. Sicché la visita a un malato può divenire il penoso teatro in
cui vanno in scena imbarazzo e ipocrisia, reticenza e falsità, doppiezza e
condiscendenza, banalità e congiura del silenzio: non a caso nell’Antico
Testamento, che pure esorta a visitare il malato («Non esitare nel visitare gli
ammalati», Sir 7,35), manca la testimonianza in favore della buona riuscita del
rapporto dei visitatori con il malato. Il libro di Giobbe è la storia
di amici che diventano nemici mentre visitano un malato.
Gli
amici di Giobbe sbagliano, non solo perché fanno del capezzale del malato il
luogo di una catechesi, ma soprattutto perché vanno presumendo di «sapere» ciò
di cui il malato ha bisogno meglio del malato stesso e ritenendo di poterlo
consolare adeguatamente. Presentandosi come salvatori
essi innescano un circolo vizioso in cui colpevolizzano il malato, ne fanno una
vittima divenendo i suoi persecutori, e diventano a loro volta i bersagli delle
sue accuse. Visitatori e malato entrano in un complesso rapporto in cui
rivestono entrambi, di volta in volta, le vesti del persecutore e della
vittima, e questo a partire dalla pretesa dei visitatori di essere dei
salvatori. Si verifica il triangolo drammatico teorizzato dallo psicologo
Stephen Karpman. La visita diviene un inferno. Non bastano le buone intenzioni:
chi visita un malato deve entrare nell’ottica di non aver potere sul malato,
attenersi al quadro relazionale che egli presenta, convertire la propria
posizione di potere in una posizione di servizio. Più che l’intento di fare del
bene è importante la consapevolezza del perché si vuol visitare un
malato.
Gesù,
poi, si identifica con il malato, non con il visitatore: «Ero malato e mi avete
visitato» (Mt 25,36). Il malato è «sacramento di Cristo», sicché il
visitatore deve entrare in quella povertà grazie a cui può avvenire l’incontro
durante il quale il malato stesso, nella sua debolezza, condurrà il visitatore
alla somiglianza con il Cristo che «da ricco si fece povero» (2Cor 8,9). E
il malato chiede essenzialmente di essere ascoltato e accettato, anche se ciò
che fa o dice non dovesse incontrare l’approvazione del visitatore. Dice
Giobbe: «Per il malato c’è la lealtà degli amici, anche se rinnega
l’Onnipotente» (Gb 6,14). Zittire le parole sconvenienti del malato o censurare
i suoi moti di rivolta, significa negargli la possibilità di mettere parola
(per quanto alterata) su ciò che sta avvenendo nella sua vita. Invece,
ascoltare è lasciar essere presente l’altro con ciò che sente ed esprime. Visitare
il malato significa fargli spazio, non occupare o negare il suo spazio.
Significa porsi in una posizione che sa congiungere impotenza e non-inutilità.
Impotenza di fronte al soffrire del malato, non-inutilità nel restare accanto
donando tempo e presenza, ascolto e parola, senza giudicare.
La
crisi in cui ci pone il malato diviene radicale di fronte alla persona con
disabilità, soprattutto mentale. Quell’umano che abitavamo pacificamente
diventa una domanda drammatica: che cos’è l’umano? Che cos’è vivere? Chi sono
io? Chi e come potrei diventare? E prima di suscitare domande, l’incontro con
la persona con disabilità suscita inquietudine e paura, turbamento e volontà di
fuga. L’identità personale di chi è segnato da disabilità è praticamente
sequestrata da quella disabilità che è come la sua seconda pelle, quella che si
impone all’osservatore. È lo stigma, e noi, di fatto, crediamo che la persona
con uno stigma sia meno umana o «non sia proprio umana» (Erving Goffman). Siamo
di fronte al problema radicale che la disabilità pone: che cos’è un essere
umano? Ed è così che, paradossalmente, la disabilità si rivela un’esperienza
specifica capace di «illuminare la complessità dell’umano» (Julia Kristeva).
Più precisamente: «Quando diciamo che l’esperienza ci aiuta a capire
l’handicap, omettiamo la parte più importante, e cioè che l’handicap ci aiuta a
capire noi stessi» (Giuseppe Pontiggia).
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