I nostri giovani? Vittime di una società che non li aiuta a
elaborare un pensiero critico che li blocchi quando la rabbia esplode, facendo
pensare loro che la violenza sia la risposta giusta. Per Claudia Bongiorno,
psicoterapeuta dell'Asp nel carcere Pagliarelli di Palermo, la rissa che lo
scorso fine settimana è sfociata nel triplice omicidio di alcuni ragazzi lancia
l'allarme su quanto i giovani abbiano bisogno di aiuto.
Per Claudia Bongiorno, psicoterapeuta del Servizio di Salute Mentale dell’Asp nel carcere
Pagliarelli di Palermo, bisogna partire dal livello di violenza in cui si
trovano immersi i giovani di oggi, protagonisti di crimini sempre più efferati.
Un fenomeno da indagare dal punto di vista sociologico?
È da circa vent’anni che c’è una sorta di sdoganamento della
violenza, già a partire dai videogame. Già vent’anni fa ricordo
l’uscita di tutta una serie di videogiochi, tipo “Assassin’s Creed”, con
una tecnologia talmente realistica da fare impressione. E ricordo che allertavo
mio figlio, oggi ventisettenne, sulla consapevolezza che si trattasse di
videogame e non di verità. I ragazzi, fin da piccolissimi, sono stati
abituati a tutto questo. Quelli che oggi hanno 20 o 25 anni
risentono dell’essere cresciuti in un sistema in cui la violenza è stata
sdoganata come normalità, dai videogiochi ai film. Inoltre, prima i
film violenti andavano in seconda serata, quanto i bambini erano già a
letto. Adesso, accendi la tv alle quattro del pomeriggio e vedi cose
talmente violente senza nessunissima protezione, senza nessunissimo
filtro. Perché dico questo? Perché, in una società diventata
sempre più violenta, il fenomeno si è normalizzato. A noi,
giovani di allora, faceva impressione la violenza, infatti
tutt’ora, quando vediamo un film violento ci giriamo impressionati,
mettendoci le mani davanti alla faccia.
Ma come si passa dai videogiochi al mettere mano a un’arma e
sparare? Cosa fa esplodere tanta rabbia?
Il punto è la disinibizione. Se prima, in uno scatto di
prepotenza, si finiva alla scazzottata, adesso si va oltre. Ma questo perché
l’elemento violento si è normalizzato, non lo si considera più neanche una cosa
particolarmente deprecabile. Questa è la cosa che fa impressione. Ma anche
perché, dietro a queste azioni così incontrollate, a volte c’è proprio
un’assenza di pensiero. Manca la funzione pensiero. Per cui, passano subito
all’azione. Sono arrabbiato, mi hai provocato e devo reagire, devo
dimostrare quanto valgo. Questo passaggio all’azione presuppone che la funzione
pensiero sia veramente scarsa, minima. A volte proprio non c’è. Quindi,
il nostro lavoro è spessissimo proprio questo: attivare una funzione
rielaborativa critica e autocritica. Per far sì che queste persone, se non ce
l’hanno, maturino una consapevolezza di sé, della vita, di ciò che è giusto e
ciò che è sbagliato, ma anche delle conseguenze delle proprie azioni. Partendo
dal presupposto che nessuno vuole rimanere in carcere per trent’anni, se
commetti reati come quello a cui ci riferiamo e pensi di farla franca…
significa che la consapevolezza non l’avevi proprio.
Consapevolezza che torna quando si confrontano con il
carcere?
Il lavoro è duro quando arrivano ragazzi che incappano in
situazioni di questo genere. Generalizzare non si può, non ha senso, ma
posso dire che arrivano quelli totalmente inconsapevoli, quelli che si
giustificano come se fosse un banale errore, incuranti del fatto che magari è
morto qualcuno. Ovviamente ci sono anche quello che capiscono ciò che hanno
fatto e si disperano, ma naturalmente é troppo tardi. Se, poi,
dobbiamo fare un sforzo di media statistica, dobbiamo considerare che molto
spesso sono ragazzi che usano il crack. E sono quelli che fanno cose tanto
violente e incomprensibili. Anche perché tutte le nuove droghe sono eccitanti,
disinibenti, in qualche modo rendono più onnipotenti, incapaci di gestire
l’impulsività. Il crack disinibisce, quindi da semplici rapine si può passare a
lesioni gravi, anche a omicidi come accaduto pochi giorni fa. Ovviamente non
può essere una giustificazione ma, anche se non in tutti i casi, l’utilizzo di
droghe, di sostanze, spiega molti dei reati che vanno a finire malissimo.
Che tipo di lavoro vi trovate a fare in carcere quando
arrivano questi giovani?
Lavoriamo su quei passaggi di pensiero mancanti e cerchiamo
di ricostruirli. Li accompagniamo in
un’esperienza durissima, come è solitamente la detenzione, aiutandoli anche
quando c’è di base l’uso di sostanze. Proviamo a fare capire loro tutto quello
che significa avere affidato alle droghe il proprio cervello. Il nostro lavoro è
aiutarli a ragionare, a sviluppare un pensiero.
Quanto il carcere riesce a svolgere la sua funzione
rieducativa?
Ovviamente il carcere dovrebbe essere l’ultima ratio,
purtroppo in tantissimi casi diventa la prima risposta. Nella nostra società
per primi abbiamo tolto potere alle agenzie educative che devono avere cura
deii nostri figli. Se tu prima prendevi quattro a scuola, nessun genitore si
sognava di andare a minacciare i professori perché ti avevano dato un brutto
voto, che peraltro ti meritavi. Se deleggittimiamo l’istituzione
preposta all’educazione dei nostri figli, al contenimento dei fenomeni
devianti, succede che l’unico baluardo diventa la legge, la giustizia, quindi
il carcere nei casi più gravi. Che sia difficile educare lo sappiamo
tutti, ma se non riusciamo a trasmettere i valori della legalità nella società,
a scuola, in famiglia, non potremo mai immaginare di avere e ottenere
giustizia.
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