Ucraina e
Palestina: due storie.”
Alessandro D’Avenia
Sono
andato a vedere la mostra «De bello - Notes on war and peace» (Sulla guerra -
Appunti su guerra e pace) organizzata nello spazio Gres Art 671 a Bergamo dalla
Fondazione Pesenti che ne fa anche il teatro di incontri per una cultura della
pace. Il titolo della mostra, in latino e inglese, mi ha
ricordato che le lingue di derivazione latina per dire «guerra» hanno preferito
l'antico tedesco werran (war in inglese) confondere, mischiare, al latino
bellum perché simile a bellus: bello, che indica al contrario ordine e
armonia.
La
storia della lingua testimonia che bellezza e guerra sono incompatibili e
inconfondibili, come evidente nella mostra, in cui a farmi da guida c'era un ex
alunno. Tra le opere mi ha colpito la serie «Lost&Found» dell'artista
ucraina Masha Shubina, che ha dipinto ordigni bellici su tovaglie, tovaglioli e
tendine un tempo ricamati a mano dalla nonna, mostrando l'opposizione tra bello
e bellum (guerra), tra chi fa casa e chi la disfa.
Voglio
allora raccontare due storie, una ucraina e una palestinese.
La
prima, simile ai ricami dipinti da Shubina, è narrata da Svitlana Dukovych su
VaticanNews. La protagonista è Viktoria, dottoressa ucraina 30enne che
all'inizio dello scontro era a Kyiv, ma non è voluta tornare nella città
d'origine: «I nostri militari avrebbero avuto bisogno di cure mediche. E poiché
sono un medico, ho deciso di rimanere».
Viktoria
lavora sull'ambulanza perché ci vogliono quattro ore per andare dal fronte al
primo ospedale: «Non esiste un paziente stabile in guerra e può diventare
critico durante il viaggio». Ha toccato la morte sin dal primo giorno di
servizio, nel soccorrere un giovane paramedico giunto in Ucraina come
volontario: «Abbiamo lottato più di mezz'ora, ma non è stato possibile
salvarlo. Ho chiuso i suoi occhi e l’ho affidato a Dio, affinché lo accogliesse
dopo un sacrificio così grande: esser venuto da un altro Paese per aiutarci.
Gli sono molto grata». Parole e gesti della dottoressa ricordano i ricami della
nonna della pittrice: «Uno sguardo, un sorriso, una parola di incoraggiamento:
sono cose che i protocolli non specificano ma fanno parte del mio lavoro. I
pazienti mi tengono spesso per mano, soprattutto chi subisce lesioni agli occhi
per schegge o ustioni. In una delle evacuazioni stavamo portando un soldato che
non riusciva a vedere. Abbiamo guidato per circa quattro ore. Mi teneva la mano
e quando la toglievo per fare un’iniezione all'altro ferito nell’auto, iniziava
ad agitarsi e mi chiedeva: Viktoria, dove sei? Voglio sentire la tua mano». La
giornalista le ha chiesto dove trova la forza: «Per me i barlumi di speranza
sono nella fede. Credo che il Signore abbia seminato un seme di sé e della sua
speranza in ogni persona... quindi vado al fronte, contribuisco a salvare vite
umane e faccio il possibile. Se sono una piccola goccia nell’oceano, ringrazio
Dio per questo... Credo che Dio operi attraverso ognuno di noi».
Qualche
metro oltre i ricami dipinti il mio ex-alunno mi ha introdotto in un vero e
proprio spazio bellico delimitato da tre foto gigantesche del fotoreporter di
guerra Gabriele Micalizzi, che ha voluto stamparle su tessuti grezzi cuciti tra
loro, come fossero arazzi medievali, ottenendo una grana dell'immagine che
rende tangibili, anche agli occhi, le asperità dell'evento.
Anche
in questo caso il supporto dell'opera evita qualsiasi estetizzazione degli
eventi narrati. Una delle foto è intitolata «L'umarell» ed è stata scattata a
Gaza: un ragazzo palestinese, seduto tra i gas lacrimogeni durante una
manifestazione, osserva da un striscia di pace la violenza che lo
circonda.
Ho
collegato la fotografia alla storia raccontata (sempre su VaticanNews) da
Roberto Cetera che ha incontrato le famiglie di circa 100 bambini palestinesi
ricoverati al Policlinico Umberto I di Roma. Tra loro, nel reparto di oncologia
pediatrica, c'è Zeina, quattro anni, con la sorellina di due e la madre, Manar
Farhat Murtaja, 29 anni, che racconta: «Siamo qui da quattro mesi, non sono mai
uscita; mangiamo e dormiamo tutte e tre in questa stanza. Grazie a un corridoio
umanitario siamo arrivate a Roma. Zeina stava male ma a Gaza non c’era
possibilità né di curarla né di diagnosticare la malattia. Gli ospedali più
vicini erano distrutti e le poche strutture in funzione danno la precedenza ai
feriti estratti dalle macerie in pericolo di vita. Per mesi non abbiamo saputo
cosa avesse e abbiamo perso tempo prezioso per aggredire il tumore. Tremila
chilometri per arrivare fin qui quando appena fuori Gaza ci sono strutture
efficienti che avrebbero potuto curare mia figlia».
Il
marito di Manar è a Gaza, non lo hanno fatto partire con loro: «Riesco a
parlare con lui solo qualche volta al telefono. Abbiamo perso tutto: la nostra
casa non c’è più, e con essa anche mio padre non c’è più, è stato ucciso dalle
bombe israeliane».
Come
il ragazzo della foto, Manar guarda la distruzione e rimpiange il fatto che ciò
che era vicinissimo le è sempre stato irraggiungibile: «Ho quasi 30 anni e non
sono mai uscita da Gaza. Non avrei mai immaginato che la prima volta sarebbe
stato in Italia per curare mia figlia. Mi sarei accontentata di vedere
Gerusalemme, che è a soli 60 km da dove vivevo, ma era un sogno».
Mostra
viene dalla radice mon- (contenuta in monito, ammonire, mostrare, mostruoso)
che significa avvertire, far sapere, ricordare, porre nella mente.
Che
cosa in questo caso? Che gli uomini da sempre cercano di individuarsi
(diventare se stessi) o con la guerra o con l'amore. La storia di Caino e
Abele, che erano fratelli, lo racconta perfettamente: gli uomini, a differenza
degli animali, non uccidono per necessità, ma perché vogliono essere (figli)
«unici» e soli, ed è lo stesso motivo per cui cercano l'amore. Ma mentre il
violento vuole l'unicità solo per se stesso, chi ama la riconosce anche
all'altro, lo riconosce «unico» come un altro se stesso, e rinuncia quindi al
potere su di lui.
Due
sono le strade nelle relazioni (amici, coppia, lavoro, popoli...): o l'io cerca
di esistere a scapito dell'altro o a favore dell'altro, o prende la vita o la
dà, o sacrifica l'altro o si sacrifica per l'altro, o fa il bellum o il
bello.
Ma
mentre il potere sull'altro dà solo l'illusione di essere unici e in realtà
rende soli, il potere con l'altro rende unici e libera dalla solitudine.
Lo
scriveva così David Foster Wallace in Infinte Jest: «Si è, solo ed
esclusivamente e completamente, ciò per cui si morirebbe senza pensarci due
volte. Tu, per cosa moriresti senza pensarci due volte?».
Alzogliocchiversoilcielo
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