Rocca n° 6/2025
Vorrei
spezzare una lancia ‘sociologica’ nei confronti di questo tipo di religiosità
che – anche nel nostro Paese e anche per il cristianesimo, come per altre fedi
religiose – rappresenta la componente credente più diffusa. Da tempo definisco
questi credenti (o ‘quasi credenti’) come gli esponenti di religione
“culturale” che ha dei tratti ben distinti e in parte curiosi.
Ovunque
i ‘virtuosi della religione’ (per richiamare un termine caro a Max Weber) sono
una realtà rara, mentre è diversa la religiosità della maggior parte delle
persone che dicono (o credono) di credere, a cui più sembra applicabile il
detto evangelico “gente di poca fede”. C’è una indubbia parentela tra i
cattolici culturali di cui qui si parla e gli ‘ebrei di famiglia’ che
costituiscono la metà circa del mondo giudaico a livello mondiale (e che si
distinguono marcatamente dagli ‘ebrei osservanti’); così come c’è una
somiglianza di famiglia tra il cristianesimo culturale e la quota di musulmani
che (accanto a quelli assai convinti) si dichiarano tali per il luogo da cui
provengono, per l’identità dei loro genitori e nonni, per le tradizioni e la
cultura in cui sono cresciuti; la cui presenza viene in genere offuscata
dall’idea – diffusa nei media e nell’opinione pubblica – che tutti i musulmani
che giungono da noi siano religiosamente più impegnati dei cristiani.
Si
può avere un rapporto labile e ambivalente con la fede e la Chiesa, ma nello
stesso tempo ritenere che la religione sia un valore di fondo della propria
famiglia di origine, essere favorevoli all’educazione religiosa dei figli,
rivolgersi agli ambienti religiosi per solennizzare le tappe più importanti
della vita. La Chiesa nei suoi piani alti, pur con qualche eccezione, continua
a fare problema, ma non mancano dal basso delle testimonianze di rilievo
soprattutto nel campo della carità; e inoltre si apprezzano di tanto in tanto
dei richiami da quel versante sulle cose che contano.
Non
so se sia plausibile applicare a questo insieme di ‘credenti’ o ‘quasi
credenti’ la distinzione evocata a suo tempo dal cardinal Martini con il binomio “pensanti / non pensanti”. In
prima istanza verrebbe spontaneo ritenere che i cattolici ‘culturali’ o
‘anagrafici’ siano persone non particolarmente riflessive, visto che il loro
legame religioso sembra più un retaggio della tradizione che il frutto di
un’opzione consapevole. Tuttavia, credo occorra essere rispettosi delle diverse
condizioni in cui le persone si rapportano alla questione religiosa, senza
avere un metro di giudizio tarato soltanto sulle alte temperature. Non è affatto
detto, infatti, che quanti occupano la parte meno centrale dell’albero della
fede o della Chiesa (ad es. il tronco o la corteccia, rispetto alla linfa) non
abbiano anch’essi una domanda di senso che merita di essere accolta e
valorizzata. Una domanda di senso che può essere non priva di limiti, ma che
perlopiù rispecchia l’esperienza vissuta nella propria biografia, le figure e
le proposte incontrate o ‘non incontrate’ nel corso degli anni, i tratti del
contesto in cui si è cresciuti. Sta di fatto, come emerge da alcune ricerche,
che anche i ‘cattolici culturali’ non sono insensibili nei confronti di
richiami religioso-spirituali capaci di interpellare la loro sensibilità;
espressi con un linguaggio loro familiare, forse più affettivo che razionale;
rispettoso dei percorsi tortuosi e degli alti e bassi (sia in termini di fede
che di etica) di cui è ricca l’esperienza umana.
Perlopiù
tutto fila liscio in una generale indifferenza, condita qua e là da momenti di
brusio. Ad eccezione del fatto che nella cerimonia vi siano dei momenti
toccanti, che il prete ad esempio nell’omelia dica qualcosa di particolarmente
significativo. Allora, il silenzio semina domande, qualcuno può sussurrare al
proprio vicino una frase che pur avendo del velleitario indica un moto
dell’animo: “Beh, con un prete di questo tipo nella mia parrocchia, forse
andrei in chiesa tutte le domeniche!”.
Un
altro esempio mi giunge da un’esperienza personale. Anni fa, insieme a colleghi
ho preso parte al funerale di uno studioso di orientamento laico che per volere
della famiglia è stato celebrato in chiesa. La partecipazione umana è stata
calda, quella religiosa pressoché assente. Alla fine, mi sono rivolto a Gianni
Vattimo, un amico vicino di banco in quella circostanza, dicendogli che non
aveva senso organizzare riti di commiato come quelli, era di gran lunga
preferibile una funzione civile in un luogo pubblico. Ricorderò sempre la sua
risposta: “Franco, non fare il talebano, noi non sappiamo come Dio parla alle
persone e cosa si nasconde nel cuore degli esseri umani”.
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