martedì 31 marzo 2020

TANTO TEMPO LIBERO, MA NESSUN TEMPO DI FESTA

Come la crisi portata dal coronavirus
 sta ridefinendo il valore delle relazioni

L’emergenza ci ricorda che il 'gioco' di cui abbiamo bisogno è simile a un concetto più sano di lavoro: qualcosa che attraverso di noi agisca sulla realtà trasformandola
Chi di noi in questa fase non può lavorare, sente anche che gli manca la possibilità di impegnare energie, pensieri, vitalità, in una attività che è orientata a qualcosa che si trova fuori di sé Tutti sentiamo la nostalgia di sentirci utili, e iniziamo a capire che il momento del lavoro non è solo una fatica necessaria.

M. Ceriotti Migliorese

Quello che sta accadendo oggi, a causa della pandemia da coronavirus, ci sconcerta: molti di noi non possono lavorare, devono prendere permessi o ferie obbligatorie, sono dunque forzatamente liberi dal proprio lavoro. Potremmo dire che godono di una grande quantità di tempo libero. Eppure chi si trova in questa situazione, pur cercando di fare buon viso a cattivo gioco, non riesce a rallegrarsi; e non è solo perché rimanere in casa rende più difficile usare bene del tempo a disposizione: c’è qualcosa che ci manca e che è collegato proprio al fatto stesso di lavorare. Ce lo provano le tante piccole grandi testimonianze che incontriamo, il sollievo di chi è autorizzato ancora a lavorare, come la farmacista che oggi mi dice: «Mi sento davvero grata di poter fare questo lavoro». Chi può lavorare, oggi, sente in questo il riconoscimento gratificante della propria utilità, perché ciò di cui si occupa serve alla collettività. Professioni come quella medica, che stava sempre più soffocando in adempimenti burocratico–tecnologici, ritrovano la loro natura: quella del supporto di cura ai più fragili, dell’accompagnamento coraggioso e generoso della sofferenza. I medici, e con loro tutti gli operatori sanitari, insieme alla grande fatica avvertono anche una nuova, legittima fierezza; la percezione certa della propria utilità giustifica un impegno non monetizzabile, e mostra con chiarezza quanto per gli esseri umani il dare contenga in sé la propria ricompensa. Chi di noi non può lavorare, sente che gli manca la possibilità di impegnare energie, pensieri, vitalità, in una attività che è orientata a qualcosa che si trova fuori di sé: qualcosa che riguarda il dare piuttosto che il prendere. Chi invece può lavorare, ma solo da casa, avverte da un lato la grande e nuova opportunità che questo rappresenta, ma sente anche che gli manca il confronto diretto e la vicinanza concreta e fisica degli altri, con cui di solito condivide spazi di lavoro senza dare importanza al valore di questa prossimità. Tutti, indistintamente, sentiamo la nostalgia di sentirci utili, e iniziamo a capire che il tempo del lavoro non è solo il tempo di una fatica necessaria, ma spesso povera di senso, quanto piuttosto un tempo nel quale mettere a frutto, giorno dopo giorno, le nostre migliori capacità e investire le nostre energie in modo consapevole e positivo, in mezzo agli altri. D ue cose caratterizzano l’essere umano fin dalla più tenera infanzia: il bisogno di condividere e il bisogno di agire in senso trasformativo sulle cose. Azioni come riempire, svuotare, costruire, distruggere, aprire, chiudere, esplorare, rappresentano bene l’attività spontanea del bambino già nel primo anno di vita. Queste at- tività che producono piacere sono ciò che noi definiamo “gioco”; quello che le rende interessanti non è tanto l’oggetto in sé con le sue caratteristiche, quanto piuttosto la possibilità di produrre un effetto, un cambiamento, attraverso la propria azione su di esso o attraverso di esso. Il gioco è il modo che ogni bambino sano ha per avvicinare e conoscere il mondo: è un fare che origina dalla curiosità e che ci porta ad agire sulla realtà per scoprirla, capirla, modificarla grazie a un apporto che è personale e perciò sempre creativo. Inoltre, ciò che rende ancora più interessante e piacevole l’attività di gioco è la possibilità di condividerlo: un bisogno così specificamente umano che l’attitudine alla condivisione viene considerata dai neuropsichiatri infantili come un segno importante di salute mentale.
D obbiamo però aggiungere una seconda caratteristica che viene attribuita in modo specifico al gioco: il gioco non ha come obiettivo diretto un utile, un guadagno, un risultato prestazionale; il tempo del gioco è tale se è un tempo di libertà e gratuità. Al gioco si contrappone in questo senso l’idea che abbiamo comunemente del lavoro, nel quale l’energia è rivolta a uno specifico fine (tra cui, per primo, quello di produrre un reddito) ed è associata molto spesso allo sforzo e alla fatica: il lavoro è in questo senso un obbligo, una necessità cui non possiamo sottrarci; il nostro sforzo maggiore sarà dunque quello di renderlo il più possibile “produttivo”, perché possa darci un utile da spendere nel tempo che il lavoro non risucchierà.
In questa logica, si lavora perché è necessario e perché si deve guadagnare per vivere, ma il tempo “vero”, quello in cui esprimersi e godere della vita, non è il tempo del lavoro, ma piuttosto quello del non–lavoro, ed è qui che concentriamo ormai le nostre attese e le nostre speranze di benessere. La contrapposizione culturale tra gioco e lavoro fa sì che, divenuti adulti, separiamo in modo sempre più netto il “tempo lavorativo” e il “tempo libero”, che diventa a questo punto lo spazio in cui possiamo collocare non tanto il gioco quanto piuttosto il divertimento: qualcosa che, come dice la parola, ci porta da un’altra parte (divertire viene da de–vertere, volgere altrove), ci allontana per un po’ dal peso che proprio il lavoro rappresenta, insieme a tutte le preoccupazioni quotidiane. Nella vita adulta il concetto di gioco, con la sua caratteristica essenziale (essere l’espressione della nostra capacità di agire creativamente sulle cose) sembra dunque scomparso: da un lato c’è il lavoro, necessario, ma privo di un senso proprio, e dall’altra il divertimento, come riposo dalla fatica e aiuto a non pensare.
G li eventi di questi giorni sembrano rimettere in discussione questo approccio, aprire pensieri nuovi. Ci diventa più evidente che, in continuità con il bambino che siamo stati, abbiamo sempre strutturalmente bisogno di agire creativamente sulla realtà: abbiamo bisogno di fare cose che abbiano un potere trasformativo nei confronti del mondo. Non ci basta “divertirci”: abbiamo bisogno di “giocare”, e il gioco di cui abbiamo bisogno come adulti è molto simile a un concetto più sano di lavoro: qualcosa che attraverso di noi possa agire sulla realtà trasfor-mandola. Abbiamo bisogno che ciò che facciamo possa cambiare almeno un po’ il mondo, portando la nostra impronta personale e unica. Questo è il nostro mandato, il nostro contributo possibile alla creazione; è la scintilla che ci fa simili al Padre, unico vero Creatore: noi non possiamo creare le cose dal nulla, ma possiamo dare una forma personale a quello che tocchiamo. Possiamo farlo in tanti modi, e lo facciamo ogni volta che, invece di subire passivamente quello che ci troviamo a dover fare, siamo capaci di assumerlo in modo attivo, diventandone protagonisti. Per questo non ci sono lavori in assoluto non–creativi: perché la creatività non è mai nell’attività, ma piuttosto nell’attore.
E ssere capaci di vivere così il lavoro lo tiene anche nei giusti confini di tempo e ci permette di alternarlo in modo più equilibrato con il riposo; il lavoro vissuto bene non ha più bisogno di “tempo libero” ma piuttosto di tempo “festivo”: un tempo pensato non solo per “fare” cose finalmente divertenti, ma anche e soprattutto per coltivare le relazioni e per rinforzare i legami. Un tempo per incontrare gli altri, per celebrare fianco a fianco i piccoli grandi riti che fanno di noi una comunità. Un tempo che il cuore umano non cessa mai di desiderare, e che soprattutto oggi, in queste circostanze drammatiche, ci manca: oggi che abbiamo tanto “tempo libero” e nessun tempo di festa.





AIMC - NOTES marzo nn.5-6

lunedì 30 marzo 2020

LIBERTA' E RESPONSABILITA'


Se sulla costa dell’oceano Atlantico, in arrivo al porto di New York, i passeggeri incontrano la statua della Libertà, sarebbe meraviglioso poter edificare sulla costa opposta la statua della Responsabilità.

di VIKTOR E. FRANKL

È suggestiva l’idea di queste due statue poste a sorvegliare la superpotenza mondiale. A proporla è lo psicoterapeuta austriaco Viktor E. Frankl (1905-97), vissuto a lungo negli Stati Uniti, nella sua opera Alla ricerca di un significato della vita. La libertà, certo, è la base per il riconoscimento della dignità e delle capacità della persona. Ma, se è lasciata da sola, può sconfinare ben presto nell’ egoismo e nella prevaricazione. Ecco, allora, la necessità di esaltare l’altra componente umana, altrettanto decisiva, la responsabilità. Essa nasce dalla coscienza e si nutre della morale ed è pronta a imporsi autonomamente limiti e obblighi perché la presenza della persona nella società non sia devastatrice ma costruttrice.
Se la libertà è il territorio in cui ci muoviamo, la responsabilità è il tracciato delle strade e, se si vuole, anche il perimetro o confine. Purtroppo spesso assistiamo ad atti «irresponsabili» che sbocciano dalla libertà senza essere sottoposti al controllo della ragione e della volontà. La responsabilità è la consapevolezza del proprio limite e dei doveri che si hanno nei confronti del bene comune. Lo stesso Frankl scriveva ancora: «Quanto più l’uomo sentirà la propria vita come compito, tanto più essa apparirà significativa». L’educazione dovrebbe condurre a quel senso di responsabilità che tanto spesso registriamo assente dai comportamenti di tutti, giovani e adulti. Lo scrittore francese Antoine de Saint-Exupéry in Terra degli uomini (1939) dichiarava: «Essere uomo è precisamente essere responsabile».

Testo tratto da: G. Ravasi, Breviario laico, Mondadori


CORONAVIRUS. DALLA PAURA ALL'APPRENDIMENTO. SAPER SORRIDERE

NEL TEMPO DEL CORONAVIRUS
REGALIAMO SORRISI E BUONUMORE,
NON FAKENEWS, ANSIE e MANIE !

E’ un periodo difficile quello che stiamo vivendo. Questo maledetto e infido virus che beffardamente cerca di annidarsi in ogni dove (… finanche nei cervelli !) rende apprensivi, guardinghi, insicuri, nervosi, suscettibili, aggressivi .... Altri virus colonizzano con rapidità molta gente: paura e diffidenza, buoni amici del coronavirus.
Martellanti “bollettini di guerra” ci opprimono: sin dal mattino accompagnano le nostre giornate e finanche il nostro inquieto dormire (…. e se il virus si fosse infilato anche tra le lenzuola ? !!!).
Vari politici, giornalisti, attori snocciolano come litanie le opportune precauzioni da prendere (mani, viso bocca, ….). Tanti esperti (e, purtroppo, anche pseudo esperti) ci tartassano con norme igieniche e di comportamento. Girano anche centinaia di false notizie: ognuno scarica nel web problemi, paure, ansie, pregiudizi e stereotipi che disorientano la gente. Allarmanti telefonate si susseguono, unitamente a pettegolezzi vari. Perciò occorre l’intelligente discernimento, evitando sempre comportamenti superficiali e irresponsabili.
Certamente la cattiveria del virus non è da sottovalutare ed è necessario essere accorti e responsabili per ostacolare la diffusione di questo sconosciuto malanno.
E’ bene esprimere gratitudine a tutti coloro che vigilano sulla nostra salute: i nostri familiari, le autorità,  gli scienziati, i medici e gli operatori sanitari, e coloro (istituzioni, associazioni di volontariato e singoli) che si danno da fare, instancabilmente, con competenza e spirito di servizio per venire incontro a chi soffre.
Mentre speriamo che la responsabilità di ciascuno e le ricerche scientifiche blocchino l’espandersi del male, occorre prendersi cura anche del benessere psichico di ciascuno e della serenità della vita familiare e sociale. Infatti, le malattie fisiche possono essere vinte, e sovente non lasciano strascico, ma quelle mentali non tanto.
Le norme igienico-sanitarie vanno opportunamente e responsabilmente applicate, con oculatezza e serenità (senza farne l’unica occupazione di ogni giornata!).  Ci sono tante cose buone da fare in questi giorni di isolamento: non possiamo farci intrappolare dai rovi delle lamentazioni e dalle paludi delle inutili chiacchiere e dei pettegolezzi, né incartapecorirci nella noiosa passività. Il tempo, comunque, passa e difficilmente si potrà recuperare. Abbiamo il coraggio di non rispondere a telefonate stupide o inutili e dannose. Abbiamo il coraggio di non correre alla fobica ricerca dell’ultima notizia di facebook o dell’ultimo post di WhatsApp o dell’ultimo pettegolezzo televisivo.
Non sciupiamo inutilmente il nostro tempo, le nostre risorse e la nostra intelligenza. Ne vale la nostra dignità e il nostro futuro!
E’ opportuno aiutarsi l’un l’altro ad  evitare comportamenti ossessivi e conflittuali che, anche se fatti a fin di bene, rischiano di tarlare i nostri cervelli, opprimendo e distruggendo la serenità delle persone e, finanche, le relazioni familiari e sociali.
A volte, purtroppo, le inquietudini personali possono associarsi alle paure e dar luogo a pericolose manie e fobie che, di certo, danneggiano chi le vive e chi le subisce.
Ad esempio, un conoscente, in una lunga telefonata, mi ha raccontato che, più volte al giorno, è abituato ad affacciarsi al balcone per prendere una boccata d’aria. Nulla di strano nel passato. Ora, appena rientra, si sente assaltato da un familiare: “Cambiati le ciabatte, togliti subito tutti gli indumenti e mettili in lavatrice, fatti la doccia, pulisci la maniglia della porta … !”  con martellanti:  Sei un’incosciente! Ti sei affacciato al balcone senza mascherina!!!, ecc. ecc.”
 “Se vado in bagno – mi ha detto- vengo controllato per vedere se mi lavo bene le mani …. Mi sento considerato un imbecille e un irresponsabile! ....  E così via nel corso della giornata.
Casa mia è un continuo utilizzo di lavabiancheria e lavaggio di pavimenti, disinfezione scarpe, cose e suppellettili. Mi sento oppresso e controllato in ogni momento del giorno.  Inoltre, se mi affaccio al balcone (secondo piano), vedo spesso facce di conoscenti truci e guardinghe, incapaci di rispondere ad un buon giorno; se scendo per le scale al fine di ritirare la posta, un condomino mi apostrofa duramente per invitarmi a cambiare scarpe e a disinfettare corrimano ed altro  …. Non so proprio come muovermi!!! 
Vorrei essere lasciato in pace e soltanto avere regalato qualche sorriso che mi aiutasse a vivere meglio!”

Lo sappiamo bene: il buonumore, la fiducia nel futuro, la serenità aiutano a stare meglio e anche a guarire prima. Ansia, paura, nervosismo, tensione continua, fobie sono ottimo humus per la crescita di malanni e virus.
Allora, nonostante tutto, aiutiamoci a vicenda a sorridere ad ogni nuovo giorno e alla vita. Evitiamo che il virus attacchi anche i nostri cervelli, condizioni i nostri pensieri e danneggi i nostri rapporti umani.
Non possiamo per ora regalare abbracci, ma almeno regaliamo sorrisi. Staremo meglio e faremo stare meglio.
Un sorriso sincero, responsabile e incoraggiante, sin dal mattino, allontanerà più facilmente il malefico virus e migliorerà la qualità del nostro quotidiano e futuro vivere.
Giovanni Perrone








sabato 28 marzo 2020

VIVERE DA VIVI !

 - V Domenica di Quaresima   -                                                             Visualizza Gv 11,1-45

Commento di 


La liturgia di questa ultima domenica di quaresima ci porta a Betania, nella casa degli amici di Gesù: Marta, María e Lazzaro. Betania significa “casa del povero” e anche noi, in qualche modo, siamo cittadini di Betania che mettiamo la nostra povertà nelle mani di Dio. In queste ultime settimane tutti abbiamo fatto i conti con la fragilità delle nostre sicurezze. Siamo stati obbligati a scoprirci poveri, deboli, come giganti dai piedi d'argilla (Daniele 2,1-49).
Proviamo a rivivere questo incontro, a mescolarci tra i famigliari e gli amici di Lazzaro, a stare lí in punta di piedi e contemplare la bellezza e la dolcezza di questo momento.
I personaggi che si muovono sulla scena sono numerosi, ma al centro, come sempre, sta Gesù nominato ben 22 volte. Tutta la scena ruota attorno a Lui, alla sua presenza e alla Sua Parola.
Nel Vangelo di domenica scorsa, Gesù rimodelló con il fango della nuova creazione gli occhi del cieco perché vedesse e riconoscesse il Figlio di Dio. Oggi, il maestro, anticipa l'esodo definitivo dalla morte alla vita: “Riconoscerete che io sono il Signore, quando apriró le vostre tombe e vi risusciterò dai vostri sepolcri” (Ez 37,13).
La resurrezione di Lazzaro è segno e anticipo di quella di Gesù, ma con una differenza fondamentale: Lazzaro ritorna alla vita di prima, è un passo indietro; mentre Gesù entra in una dimensione nuova, è un passo avanti. Lazzaro morirà di nuovo, certo. Ma il suo ritorno alla vita indica che non siamo piú schiavi della morte, che Gesù è entrato nei nostri sepolcri, nelle nostre povertà e miserie, nel nostro peccato e nei nostri tradimenti. Gesù non ci salva dalla morte, ma nella morte.
Vorrei attirare la vostra attenzione su un ultimo particolare: il pianto di Gesù. Il maestro piange per il suo amico Lazzaro. Le sue lacrime irrigano e fecondano la terra che si prepara a far germogliare il seme nascosto, il chicco di grano caduto in terra che muore per dare frutto (cf Gv 12,24).
Coraggio, cari amici! Rotoliamo via le pietre dai nostri sepolcri, lasciamo che Gesù ci raggiunga, ci prenda per mano e ci insegni a vivere da vivi!

PERCHÉ' AVETE PAURA? NON AVETE ANCORA FEDE?



" .... Il Signore ci interpella e, in mezzo alla nostra tempesta, ci invita a risvegliare e attivare la solidarietà e la speranza capaci di dare solidità, sostegno e significato a queste ore in cui tutto sembra naufragare. Il Signore si risveglia per risvegliare e ravvivare la nostra fede pasquale. Abbiamo un’ancora: nella sua croce siamo stati salvati. Abbiamo un timone: nella sua croce siamo stati riscattati. Abbiamo una speranza: nella sua croce siamo stati risanati e abbracciati affinché niente e nessuno ci separi dal suo amore redentore. In mezzo all’isolamento nel quale stiamo patendo la mancanza degli affetti e degli incontri, sperimentando la mancanza di tante cose, ascoltiamo ancora una volta l’annuncio che ci salva: è risorto e vive accanto a noi. Il Signore ci interpella dalla sua croce a ritrovare la vita che ci attende, a guardare verso coloro che ci reclamano, a rafforzare, riconoscere e incentivare la grazia che ci abita. Non spegniamo la fiammella smorta (cfr Is 42,3), che mai si ammala, e lasciamo che riaccenda la speranza.
Abbracciare la sua croce significa trovare il coraggio di abbracciare tutte le contrarietà del tempo presente, abbandonando per un momento il nostro affanno di onnipotenza e di possesso per dare spazio alla creatività che solo lo Spirito è capace di suscitare. Significa trovare il coraggio di aprire spazi dove tutti possano sentirsi chiamati e permettere nuove forme di ospitalità, di fraternità, di solidarietà. Nella sua croce siamo stati salvati per accogliere la speranza e lasciare che sia essa a rafforzare e sostenere tutte le misure e le strade possibili che ci possono aiutare a custodirci e custodire.
Abbracciare il Signore per abbracciare la speranza: ecco la forza della fede, che libera dalla paura e dà speranza. .... "  
Papa Francesco, 27 marzo 2020


CORONA VIRUS E AMBIVALENZA UMANA

Il coronavirus ci fa riscoprire
 l’ambivalenza dell’umano

- Giuseppe Savagnone

Il coronavirus, sconvolgendo le regole della quotidianità, sta evidenziando l’ambivalenza e l’imprevedibilità del “fattore umano”, come avveniva in passato durante le guerre, quando il pericolo faceva uscir fuori in ognuno risorse di coraggio insospettate fino ad allora, oppure fragilità nascoste. C’è un modo costruttivo di reagire alla drammatica sfida di questa epidemia, e ce n’è uno che può distruggerci. In ogni caso siamo davanti a una prova che ci costringe a chiederci chi siamo e, soprattutto, chi vogliamo essere.
Un nuovo contesto spaziale…
All’origine di questa prova ci sono le condizioni quasi surreali in cui le nostre giornate trascorrono. Privati della corazza delle preoccupazioni e delle attività abituali, stiamo avendo tutti una nuova percezione dello spazio e soprattutto del tempo.
Vivere giorno dopo giorno, per settimane, fra le pareti di un luogo chiuso, è un esperimento che forse avevamo visto fare con i topi, per verificarne le reazioni,  ma di cui non ci saremmo mai immaginati di diventare noi i protagonisti. Con esiti diversi, ma egualmente problematici, se si vive da soli o in famiglia.
Nel primo caso, a pesare è l’innaturalità dell’assenza di rapporti umani. Abbandonati come Robinson Crusoe nella sua isola, si è liberi sì, ma di una libertà che si rivela un vuoto e che suscita la fame di sentire la voce di altre persone.
Nel secondo, di persone ce ne sono anche troppe, perché non si era abituati a dividere con loro il proprio spazio vitale, col rischio di urtarsi (e non solo fisicamente) ad ogni parola detta e ad ogni movimento fatto.
Giocano molto anche fattori materiali: altro è vivere questa forzata reclusione in un appartamento spazioso, provvisto di tutti i confort, altro trovarsi a gestire un gruppo familiare numeroso in un angusto bivani, o in una casa senza riscaldamento.
…e temporale
Ancora più irreale è il rapporto con un tempo che è improvvisamente diventato lunghissimo, svuotato com’è dagli appuntamenti che lo scandivano. Anche chi ha continuato a studiare e a lavorare da casa, lo fa ormai con margini di libertà molto più ampi e senza essere incalzato dalle scadenze che prima scandivano la sua giornata. C’è poi chi, nel nuovo contesto, ha poco o nulla da fare e che la mattina, alzandosi dal letto, guarda alle ore che lo aspettano come a una immensa pianura senza strade e senza segnaletica.
Qui soprattutto possono pesare differenze culturali: questo vuoto acquista un peso diverso per coloro che sono abituati alla lettura e per quelli che non lo sono; per i ragazzi che, sapendo padroneggiare i mezzi  telematici, potranno egualmente seguire le lezioni collegandosi on line, e per quelli sprovvisti di queste competenze.
Alla prova della solitudine
In questa nuova situazione le persone stanno reagendo nei modi più disparati, riconducibili però a due alternative fondamentali. C’è chi, nella solitudine, ha l’impressione di impazzire e chi, invece, scopre con stupore di poter vivere anche senza aggrapparsi agli altri.
Per i primi il silenzio risulta insopportabile, e reagiscono tuffandosi nei social, magari inviando ai loro conoscenti raffiche di foto, barzellette, clamorose notizie più o meno veritiere raccattate sulla rete (è il trionfo delle fake news).
I secondi possono viverlo come una liberazione dalle vuote chiacchiere della routine quotidiana e l’inattesa scoperta del proprio mondo interiore, in cui far risuonare il grande grido di dolore che in questi giorni si leva tutt’intorno .
Gli altri possono essere “inferno”…
Anche nella forzata coabitazione di gruppo scattano comportamenti di segno opposto. Ci sono famiglie per cui vivere insieme tutto il giorno è un dramma, o perlomeno un problema. Per alcune coppie il vivere in gran parte fuori casa, in ambienti diversi, ritrovandosi solo in alcune ore, consentiva il mantenimento di un discreto, anche se fragile, equilibrio. Costretti a stare tutto il giorno insieme, si può scoprire di avere ben poco da dirsi. E la noia è un pessimo indizio in una vita di coppia.
Per non dire che ci sono situazioni in cui il rapporto era già così logorato dalle reciproche incomprensioni da ricordare la triste considerazione di Jean-Paul Sartre: «L’inferno sono gli altri». Si può passare il tempo a litigare per ogni minima cosa, fingendo di confrontarsi, ma in realtà solo per dirsi “no” a vicenda.
Ci può essere di peggio. Proprio in questi giorni si è parlato sui quotidiani della condizione di donne esposte a violenze domestiche, che non sanno, in questa situazione, come sfuggire ad esse.
Qualcosa di analogo può accadere fra genitori e figli. I più giovani sono sottoposti, in queste circostanze, alla prova più dura. La loro voglia di vivere, di uscire, di frequentare amici, di vedersi con il proprio ragazzo o la propria ragazza, è pesantemente frustrata. Da qui la maggior suscettibilità, le tensioni, gli scatti d’ira da parte dei figli nei confronti dei genitori e l’esasperazione di questi ultimi nei confronti dei figli.
…oppure, se non “paradiso”, “purgatorio”
Ci sono però anche famiglie che stanno cercando di cogliere il positivo in questa forzata convivenza h24. Essa può essere l’occasione, per una coppia, di parlare finalmente con calma di se stessi, del proprio rapporto, dei propri problemi. Può sembrare strano, ma in un rapporto di coabitazione questo avviene molto di rado. La comunicazione, spesso, è soprattutto funzionale alla gestione della vita familiare e dei problemi pratici che essa comporta. Proprio perché ci si vede sempre, si crede di essere vicini. Ma quello che ognuno dei due vive nel suo intimo non sempre riesce a trovare il modo di esprimersi. E perfino la comunione fisica realizzata nel rapporto sessuale può diventare una copertura delle rispettive solitudini.
Stare in casa tutto il giorno crea le condizioni favorevoli a comunicare “davvero”. A guardarsi. A manifestarsi la gioia di volersi bene, scambiandosi quegli atti di attenzione che esplicitano un amore troppe volte dato per scontato… A fermarsi, per poter finalmente dirsi le parole non dette per la fretta di andare al lavoro o per la stanchezza dopo una giornata stressante in ufficio.
Non è detto che questo porti pace. Tra l’inferno dei reciproci insulti e i paradiso di una famiglia sul modello del “mulino bianco” c’è la più probabile via intermedia di una reciproca correzione, dolorosa ma salutare, che sarà per entrambi una specie di purificazione  – un purgatorio –, ma nella fiducia di volersi bene.
Oltre la portaerei
Anche con i figli il rapporto in questi giorni può essere più difficile, ma anche più costruttivo. La vera emergenza educativa, nella nostra società, è costituita dalla mancanza di tempo per dialogare. I genitori, specialmente se impegnati entrambi fuori casa per lavoro, ne hanno ben poco per fermarsi e ascoltare. Fanno, sì, domande ai loro figli – «com’è andata a scuola?», «ti sei divertito alla gita?»; «ma chi è quel ragazzo con cui ti ho visto più di una volta?» –, ma non sono quelle giuste. “Ascoltare” non significa voler sapere, in breve, quello che ci interessa, ma lasciare che l’altro dica, prendendosi il tempo di cui ha bisogno, quello che interessa a lui. Il genitore indaffarato e frettoloso non è in grado di aver questa pazienza.
Reciprocamente, i figli non sono spontaneamente inclini a parlare delle proprie cose. A volte per pudore, a volte per la sfiducia di poter essere capiti, a volte perché non vedono nei genitori persone capaci di ascoltarli davvero.
I riti della vita quotidiana favoriscono in modo decisivo questa incomunicabilità. Non ci sono più i momenti comuni di una volta, quando la sera si mangiava insieme e ci si raccontava a vicenda la giornata trascorsa. Già la televisione aveva interrotto questo scambio. Ma almeno si assisteva allo stesso programma. Oggi ormai spesso non si mangia nemmeno più insieme o lo si fa per fuggire via subito dopo. Molte famiglie danno così l’idea di una portaerei su cui continuamente atterrano degli aeroplani mentre altri ne decollano, senza incontrarsi.
Ora che i voli sono vietati – tutti a casa –, e si è obbligati a stare insieme, i genitori possono avere più tempo per ascoltare e i figli per parlare. Anche in questo caso non bisogna farsi illusioni: il percorso è difficile e può intrecciarsi con fasi che ricordano il clima di scontro di cui parlavamo prima. Ma è una opportunità che alcuni stanno riuscendo a sfruttare.
Non è un destino
Queste alternative non sono così nette come può sembrare dalla presentazione che ne abbiamo fatto. In realtà tra i due estremi c’è tutta una gamma di situazioni dove luci e ombre coesistono e si mescolano. Resta vero che la maledizione del coronavirus, se da un lato sta seminando sofferenze inaudite e morte, dall’altro ci pone di fronte a noi stessi e ci impone delle scelte. Non certo scelte asetticamente libere: abbiamo visto quanto sia grande il peso dei condizionamenti esterni in una situazione che è comunque patologica. Eppure, in una certa misura è anche dalla nostra consapevolezza e dai nostri sforzi – o, viceversa, dalla nostra resa passiva alla sfida del coronavirus –, che dipende ciò che saremo diventati, quando tutto questo sarà finito.





venerdì 27 marzo 2020

CONTA LA CURA DELL’ESSENZIALE

Quando il tempo non sarà più ingombrato dalla emergenza, prendiamoci la responsabilità di una politica più attenta al necessario, un politica impegnata a cercare risorse per tutto ciò per cui ne va della qualità della vita. Nel frattempo a noi tutti è chiesto di praticare una virtù troppo spesso dimenticata: sapere ringraziare.

 -        LUIGINA MORTARI *
-         
La tecnologia è essenziale alla vita umana, lo sappiamo ogni giorno, ma diventa evidente in momenti come quelli che stiamo vivendo: le mascherine, i respiratori, tutti i dispositivi necessari ad allestire una terapia intensiva.
Essenziale è la ricerca scientifica che consente di preparare i vaccini, di fabbricare i farmaci. Sono i momenti come questi che dicono la verità della necessità di investire di più nella ricerca, in quella che sta in ascolto dei bisogni essenziali. Non c’è vita umana se non c’è ricerca e non c’è tecnologia che produce quegli artefatti utili a rendere quanto più possibile buona la qualità della vita. Ma non tutta la ricerca e non tutta la tecnologia si costituiscono come risposta a questo bisogno essenziale; nella seconda metà del secolo scorso Hannah Arendt ci ha fatto notare che molti sforzi scientifici sono diretti a rendere il più artificiale possibile la vita, quasi a perseguire il sogno di poter recidere i legami con il mondo naturale sempre troppo imprevedibile.
Proprio perché la tecnologia consente di costruire il mondo umano (quello che noi facciamo) come altro dal mondo della natura (quello che noi troviamo già) si rischia di dimenticare quello che noi siamo: materia vivente nel tessuto naturale della vita. Ma noi siamo parte della natura.
Per quanta conoscenza scientifica riusciamo ad acquisire la vita naturale, quella che ci troviamo a vivere, resta in molti suoi aspetti imprevedibile, perché capace di generare sempre forme nuove. Come quelle piccole ma tremende “invenzioni” che sono i virus. Pensare la vita nella sua complessità e imprevedibilità è azione salutare del pensiero: obbliga all’umiltà, a uno sguardo più misurato, a cercare un pensare che anziché recidere i legami con la Terra ci ricordi che noi siamo fatti della stessa cosa di cui è fatto il resto del mondo naturale. È questo nostro essere parte di un mondo che non possiamo controllare alla radice di quella fragilità che oggi un semplice e terribile virus ci ricorda.
Non cambia l’ordine delle cose sapere tutta la nostra vulnerabilità, ma pensarla e accettarla obbliga ad altre scelte, ad altri ritmi, obbliga soprattutto ad aver cura della vita.
Perché la vita ha bisogno di cura.
Senza cura non c’è vita. C’è una cura che procura quanto è necessario a nutrire la vita e a conservarla. C’è una cura per fare fiorire le potenzialità dell’essere, che si fa arte dell’esistere.
C’è una cura che ripara le ferite, quelle del corpo o dell’anima, così che il quotidiano camminare nel tempo possa riprendere.
Questo momento è di emergenza per la cura che ripara: medici, infermieri e operatori della salute, tutti quelli che ogni giorno riparano la vita quando si inceppa, oggi sono lì a fare di più. A fare oltre la misura.
Facciamo, noi tutti, in modo di non dimenticarlo quando finalmente tutto questo sarà finito, quando butteremo le mascherine, quando torneremo a respirare nell’aperto, senza quella paura che impedisce di esserci veramente, di esserci con sé e con gli altri. Quando il tempo non sarà più ingombrato dalla emergenza, prendiamoci la responsabilità di una politica più attenta al necessario, un politica impegnata a cercare risorse per tutto ciò per cui ne va della qualità della vita.
Nel frattempo a noi tutti è chiesto di praticare una virtù troppo spesso dimenticata: sapere ringraziare.
Ringraziare, primi fra tutti, coloro che negli ospedali stanno resistendo nella fatica di riparare la vita.



* Luigina Mortari è professore ordinario di Epistemologia della ricerca qualitativa e Direttore del Dipartimento di Scienze Umane dell’Università degli studi di Verona. Le sue ricerche hanno per oggetto la filosofia dell’educazione, la filosofia e la pratica della cura, la definizione teorica e l’implementazione dei processi di ricerca qualitativi, la formazione dei docenti e dei professionisti sociali, educativi e sanitari, e le politiche formative.



LA MINISTRA ALLA COMUNITÀ' SCOLASTICA


La Ministra dell'Istruzione, Lucia Azzolina, ha scritto una lettera aperta al personale della scuola (dirigenti scolastici, direttori dei servizi generali e amministrativi, docenti, personale educativo, collaboratori scolastici, assistenti tecnici e amministrativi), agli studenti e alle loro famiglie.




giovedì 26 marzo 2020

RAFFAELLO ALLE SCUDERIE DEL QUIRINALE. VISITA LA MOSTRA



"Raffaello era un uomo che sapeva vivere, questa la sua dote principale". La pensa così Melania Mazzucco, che ha visitato per noi la mostra Raffaello 1520 - 1483, alle Scuderie del Quirinale, allestita in occasione dei 500 anni dalla morte dell'artista urbinate. La scrittrice per introdurci alla grandezza dell'opera del maestro rinascimentale ha scelto di soffermarsi su alcuni capolavori e un prezioso documento: il Ritratto di Leone X tra i cardinali Giulio de' Medici e Luigi de'Rossi, il Ritratto di donna nei panni di Venere (Fornarina) e la Lettera a Leone X, scritta con Baldassare Castiglione, "pietra miliare per la tutela del patrimonio storico e artistico". .  .
La mostra che doveva essere aperta fino al 2 giugno, al momento è sospesa.
Le Scuderie del Quirinale rimarranno chiuse al pubblico fino a nuove disposizioni del governative per effetto del "Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri dell'8 marzo relativo alle misure per il contrasto e il contenimento del diffondersi del virus Covid-19 sul territorio nazionale". .  .

Riprese di Sonny Anzellotti e Leonardo Meuti .A cura di Valentina Tosoni .Montaggio di Alberto Mascia


IO RESTO A CASA, SIGNORE .....

Io resto a casa, Signore!
Ed oggi mi accorgo che, anche questo,
me lo hai insegnato Tu
rimanendo, in obbedienza al Padre,
per trent’anni nella casa di Nazareth
in attesa della grande missione.

Io resto a casa, Signore!
E nella bottega di Giuseppe,
tuo e mio custode,
imparo a lavorare, ad obbedire,
per smussare gli spigoli della mia vita
e approntare un’opera d’arte per Te.

Io resto a casa, Signore!
E so di non essere solo
perché Maria, come ogni mamma,
è di là a sbrigare le faccende
e a preparare il pranzo per noi,
tutti famiglia di Dio.

Io resto a casa, Signore!
E responsabilmente lo faccio per il mio bene,
per la salute della mia città, dei miei cari,
e per il bene di mio fratello
che Tu mi hai messo accanto
chiedendomi di custodirlo
nel giardino della vita.

Io resto a casa, Signore!
E, nel silenzio di Nazareth,
mi impegno a pregare, a leggere,
a studiare, a meditare,
ad essere utile con piccoli lavoretti
per rendere più bella e accogliente la nostra casa.

Io resto a casa, Signore!
E al mattino Ti ringrazio
per il nuovo giorno che mi doni,
cercando di non sciuparlo
e accoglierlo con stupore
come un regalo e una sorpresa di Pasqua.

Io resto a casa, Signore!
E a mezzogiorno riceverò di nuovo
il saluto dell’Angelo,
mi farò servo per amore,
in comunione con Te
che ti sei fatto carne per abitare in mezzo a noi;
e, affaticato per il viaggio,
sitibondo Ti incontrerò
presso il pozzo di Giacobbe,
e assetato d’amore sulla Croce.

Io resto a casa, Signore!
E se a sera mi prenderà
un po’ di malinconia,
ti invocherò come i discepoli di Emmaus:
Resta con noi, perché si fa sera
e il giorno è ormai al tramonto.

Io resto a casa, Signore!
E nella notte,
in comunione orante con i tanti malati
e le persone sole,
attenderò l’aurora
per cantare ancora la tua misericordia
e dire a tutti che,
nelle tempeste,
Tu sei stato il mio rifugio.

Io resto a casa, Signore!
E non mi sento solo e abbandonato,
perché Tu mi hai detto:
Io sono con voi tutti i giorni.
Sì, e soprattutto in questi giorni
di smarrimento, o Signore,
nei quali, se non sarà necessaria la mia presenza,
raggiungerò ognuno con le sole ali della preghiera.

Amen.

Giuseppe  Giudice, Vescovo



martedì 24 marzo 2020

IL "TEMPO SOPSESO" CHE STIAMO VIVENDO - Comunicato AIMC

PANDEMIA, SCUOLA, DIDATTICA, IMPEGNO CIVILE ED ECCLESIALE, ASSOCIAZIONE ... 

La  pandemia  da  coronavirus  che  sta  interessando  l’intera  popolazione  mondiale  sta  portando  a provvedimenti  di  emergenza  che  stanno  profondamente modificando  la  quotidianità  di  ciascuno.  Stiamo vivendo  un  “tempo  sospeso”  nell’attesa  che  il  peggio  possa  passare  ma  nessuno  di  noi  sa  esattamente immaginare quale possa essere il “peggio” rispetto  a quello che stiamo vedendo e ascoltando nei mezzi  di informazione e nei social. È stato ripetuto più volte che siamo coinvolti in una guerra che nessuno ha voluto e che non ha precedenti per l’umanità. La memoria storica e letteraria va alle epidemie di peste, alla febbre  spagnola, al secondo conflitto mondiale, ma la pandemia da coronavirus è unica e nessuno di noi ha vissuto niente di paragonabile. Le vie e le piazze delle città, dalle metropoli ai paesini, della nostra meravigliosa Italia danno un’inedita immagine di assenza. Assenza di auto, di persone, di “normalità”, di vita. 
Un Paese con le serrande abbassate, un Paese chiuso, un’Europa chiusa, un mondo che giorno dopo 
giorno si sta chiudendo in se stesso. Un mondo che stentiamo a riconoscere e in cui il rapporto con l’altro, l’andare verso l’altro, ricevere un abbraccio, darsi la mano è vietato, ma ancor prima ci fa paura. In  questo tempo sospeso fra ciò che è stato, ciò  che è e ciò che non sappiamo come sarà, a tutti noi italiani si chiede  di essere ancor più parte della comunità nazionale,cittadini responsabili che compiono gesti responsabili  offrendo il proprio personale contributo al bene comune nazionale e mondiale. Come in tutte le guerre c’è una prima linea e una retrovia: in prima linea ci sono i professionisti della sanità e le forze dell’ordine e di sicurezza. Non chiamiamoli oggi eroi perché lo sono da sempre, il loro sacrificio è da sempre per l’altro. 
L’importante sarà ricordarcelo anche dopo e ringraziarli rispettandoli. C’è tutto il mondo del volontariato che  da  sempre  è  la  colonna  vertebrale  etica  di  questo  Paese,  come  le  attività  produttive  che  ne  sono  il cuore  economico.  Ci  sono,  poi,  i  singoli  cittadini  che  devono  fare  la  propria  parte,  in  questo  momento restando responsabilmente a casa e limitando all’indispensabile le occasioni di contatto esterno e, dopo, contribuendo, ciascuno per la propria funzione, alla ripartenza della nazione. 
Nelle emergenze i principi democratici devono ancor di più ispirare l’azione di chi ha l’onere della decisionalità per il bene comune. I ruoli e le funzioni costituzionali vanno rispettati e garantiti ancor di più quando  si  ragiona  in  termini  di  limitazioni  di  alcuni  diritti  costituzionali  per  la  salvaguardia  della salute pubblica.  Non  è  il  tempo  delle  contrapposizioni  partitiche,  la  responsabilità  democratica  chiama  a  corresponsabilità tutte le forze politiche a supporto  delle difficili decisioni del Governo. Il giusto equilibrio fra libertà  e  diritti  personali  e  interessi  e  bene  della  comunità  ancor  di  più  deve  essere  inderogabilmente rispettato. 
Questo tempo è, per chi come noi è credente, quello di far risuonare delle nostre preghiere tutte le chiese, vuote ma sempre aperte, per affidarci all’abbraccio paterno e alla consolazione del Signore. Papa Francesco  con  l’esempio  e  la  Parola  ci  invita  ad  essere  gli  uni  vicino  agli  altri  come  fratelli,  uniti nella comunità cristiana nell’affidarci spiritualmente al nostro Credo. 
In questo tempo inimmaginabile i più deboli, i soggetti fragili sono quelli più a rischio. L’infanzia e la giovinezza  devono  avere  la  giusta,  doverosa  e  necessaria  attenzione.  La  presidenza  nazionale dell’Associazione Italiana Maestri Cattolici (AIMC)  ritiene che “fare scuola” oggi come non mai significhi “essere scuola”. La scuola non è “solo” un luogo fisico, è un contesto di crescita formalizzato in cui si cresce quotidianamente educandosi e istruendosi in una continua sinergia educativa con le famiglie. Come detto, siamo  in  una  situazione  imprevista,  inimmaginabile  fino  a  meno  di  20  giorni  fa.  Non  ci  sono  regole  già scritte o procedure da applicare, non ci sono esperienze consolidate da “riutilizzare”. 
Una sospensione delle attività didattiche con l’attivazione di una didattica a distanza sostitutiva non 
era prevista dal CCNL, dal testo Unico e da nessunanorma precedente all’emergenza sanitaria. Un intero Paese  “sospeso”  non  si  era  avuto  nemmeno  negli  anni drammatici  della  II  Guerra  mondiale  quando  le scuole  restarono  aperte.  Non  è,  quindi,  il  tempo  di richiamarsi  solo  alle  norme  ma  al  buon  senso  e  alla deontologia  e  all’etica  dei  professionisti  di  scuola.  Non  è  un  caso  che,  responsabilmente,  in  tutt’Italia i docenti dalla scuola dell’infanzia alla secondaria  superiore si sono attivati, fin dall’inizio, per mantenere i contatti con i propri alunni “improvvisandosi” gestori di learning objects e di classi virtuali. Va sottolineato, infatti, che non si deve confondere la competenza abbastanza diffusa che esiste nella scuola italiana  nella didattica multimediale con quello che si sta facendo oggi che è e-learning, didattica a distanza con l’ausilio del digitale. Saper fare un power point o utilizzare al meglio la LIM non significa, infatti, essere in grado di progettare, realizzare e gestire percorsi curricolari con l’utilizzo di modalità e-learning. La diversità non è formale  è  sostanziale.  Nonostante  le  difficoltà  i  docenti  non  si  sono  tirati  indietro  e  la  comunità professionale sta mostrando alto senso di responsabilità nonostante molto sia affidato alla limitatezza delle dotazioni personali. 
Quello che però va salvaguardato, in questo periodo, è il senso  del fare e essere scuola nel tempo dell’emergenza  che  stiamo  vivendo  ma  che  soprattutto  stanno  vivendo  i  nostri  alunni/studenti.  Sarebbe sbagliato non considerare il trauma che, seppur ancora non esplicitato, stanno subendo in modo diverso dagli adulti. La paura, la mancanza di socialità inpresenza, l’impossibilità di praticare sports, il confrontarsi con la morte, la convivenza familiare anomala per tempi e forma sono aspetti che incidono profondamente su  tutti  e  ancor  più  sui  soggetti  in  età  evolutiva. I  docenti  devono  essere  vicini  ai  propri  allievi,  devono applicare  il  principio  fondamentale  dell’I  care,  devono  prendersi  cura  professionalmente  delle  loro  classi ponendo  l’accento  più  sull’elemento  educativo  che  su  quello  di  istruzione  della  scuola.  Soprattutto  è importante che la didattica a distanza non aumenti  la distanza fra la scuola e gli alunni dell’ultimo  banco, quei bambini e bambine, ragazze e ragazzi che hanno normalmente bisogni educativi speciali e che ora, nel bisogno  educativo  speciale  diffuso  della  collettività,  gridano  silenziosamente  la  loro  presenza.   Parlargli, essere  vicini,  ascoltarli,  farsi  presenti  al  loro  bisogno  anche  non  espresso:  questo  viene  assolutamente prima dell’assegnare compiti, spiegare contenuti, procedere con il percorso curricolare. 
La didattica a distanza sta chiamando a corresponsabilità le famiglie che forse mai come in questo periodo stanno vivendo la “quotidianità” della didattica, gli sforzi e l’attenzione dei docenti per i propri figli. Da questo dovremo ripartire quando tutto sarà finito. 
Questo è un anno zero: l’anno della scuola che viaggia anche grazie ai tanti vituperati  smartphone che  adesso,  finalmente,  si  riscoprono  come  device per  la  didattica;  l’anno  in  cui  il  tempo  scuola è  senza tempo; l’anno in cui l‘alunno entra nella cucina del docente e il docente entra nel salotto dell’alunno. Va da sé che anche per la valutazione e per il concetto di validazione dell’anno scolastico e della legalità del titolo di studio non può che essere un anno zero. 
La  valutazione  non  potrà  che  essere  intesa  nella  sua  prioritaria  valenza  formativa  e  le  votazioni tradizionali andranno ripensate se non sospese. Per gli esami, costituzionalmente obbligatori, si dovranno probabilmente utilizzare forme semplificate in videoconferenza così come le università hanno fatto per le sedute  di  laurea.  In  tempi  “nuovi”  vanno  adottati  parametri  “nuovi”  adattando  l’esistente  a  contesti  e esigenze mutati. 
Quello di cui dobbiamo essere consapevoli è che, finita l’emergenza, perché con l’aiuto del Signore 
questa emergenza finirà, niente potrà essere come prima. Sarà l’economia della post-pandemia, saranno la sanità  e  il  welfare  della  post-pandemia,  sarà  la  società  della  post-pandemia,  sarà  la  cultura  della  postpandemia,  saranno  la  politica  e  la  democrazia  della post-emergenza,  dovranno  essere  l’educazione  e  la scuola nell’epoca della post-pandemia. Noi, come Associazione Italiana Maestri Cattolici ci saremo e come 75 anni fa abbiamo dato il nostro contribuito alla rinascita dell’Italia e della sua scuola post-fascista e postbellica  così  ci  impegneremo,  grazie  all’impegno  volontario  di  tutti  i  nostri  soci  e  di  tutte  le  nostre realtà territoriali, per riaprire ad un futuro diverso e migliore tutto il Paese. 
#Insieme ai nostri alunni e alle loro famiglie ce la faremo !
24 marzo 2020
La Presidenza nazionale AIMC




I BAMBINI AL TEMPO DEL CORONAVIRUS

Alle prese con l’inedita condizione di isolamento, i bambini ci insegnano quanto la creatività e la tenerezza possano aiutarci ad affrontare l’emergenza sanitaria, facendoci riconoscere più uniti e più solidali.

Alessandro Gisotti

“Quando riapriranno le scuole?”. Da settimane i genitori italiani, e con il passare dei giorni sempre più anche i genitori di altri Paesi, si sentono rivolgere questa domanda dai loro bambini sorpresi e “sospesi” a causa dell’emergenza sanitaria dovuta al contagio da Coronavirus. 
E’ una domanda a cui non si era abituati in questa parte del mondo, una situazione inedita all’interno di una condizione di vita senza precedenti. E tuttavia, proprio questo è il drammatico interrogativo che milioni di genitori - pensiamo per esempio alla Siria - anche negli ultimi anni si sono sentiti rivolgere dai propri figli in Paesi lacerati dalla guerra, da terribili malattie o disastri naturali che però, nonostante i tanti e accorati appelli di Papa Francesco, ci sembravano forse troppo distanti per occuparcene più di tanto.
Ora, in questo scorcio di 2020 che ha rovesciato tante abitudini e messo in crisi molte certezze, anche i bambini dei Paesi “più fortunati” si trovano a vivere una situazione simile (e tuttavia meno traumatica) di tanti loro coetanei in altre nazioni. E’ bello constatare, e gli esempi sono innumerevoli, che il virus non ha intaccato la riserva di creatività dei bambini. Ed è altrettanto straordinario e commovente vedere come tanti fra loro manifestino solidarietà verso i propri coetanei in un modo che, per riprendere la Dichiarazione di Abu Dhabi, esprime autenticamente la dimensione della “fratellanza umana”, del sentirsi davvero tutti figli dello stesso Padre e dunque tutti veramente fratelli gli uni degli altri. In tanti hanno visto il video della scolaresca di bambini dello Zambia che, guidati dalla propria insegnante, ricordano e ci ricordano che “l’Italia è una nazione fortissima che ha superato tantissimi ostacoli nella storia” e che, perciò, “ce la farà” anche questa volta. Ad Aleppo, città martire siriana, i bambini cristiani pregano per i loro coetanei in Italia. Spontaneamente, hanno offerto la Via Crucis del secondo venerdì di Quaresima proprio per i bambini che in Italia, a causa del Coronavirus, non possono andare a scuola. Una privazione che loro conoscono bene, purtroppo.
Particolarmente significativo anche ciò che sta raccontando l’Ospedale Bambino Gesù che, in questi giorni, condivide attraverso i suoi profili social, gli incoraggiamenti di chi, superando malattie anche molto gravi, rivolge messaggi di speranza a quanti sono nella prova a causa dell’emergenza sanitaria. E’ il caso di Rayenne e Djihene, 2 gemelline siamesi separate nel novembre del 2017, che dalla loro casa in Algeria hanno inviato ai medici del Bambino Gesù e ai bambini ricoverati una foto con l’immancabile disegno dell’arcobaleno accompagnato dalla scritta “Andrà tutto bene”. Forte anche il messaggio che arriva da Nicholas, 6 anni, tornato a respirare in autonomia grazie all'impianto, avvenuto l’anno scorso, di un bronco stampato in 3d. Un intervento senza precedenti in Europa. Oggi Nicholas sorride alla vita e sorride anche nell’immagine che il Bambino Gesù ha condiviso su Twitter con un messaggio del piccolo che dà coraggio e speranza ai bambini e ai loro genitori.
Accanto e assieme a questo dialogare “a distanza” tra i bambini è interessante rilevare anche come il dialogo intergenerazionale trovi nuove forme di espressione al tempo del Coronavirus. Come è noto, all’Angelus di domenica scorsa, il Papa ha esortato a rispondere alla pandemia del virus “con l'universalità della preghiera, della compassione, della tenerezza”. 
Quest’ultima contraddistingue proprio l’atteggiamento, “lo stile” dei bambini in particolare verso i nonni, le persone più fragili oggi a causa del Covid19. Costretti a star loro lontani per proteggerli, uno dei paradossi che stiamo vivendo in questo periodo, i bambini non hanno rinunciato però a comunicare con loro, a condividere esperienze e sentimenti anche aiutandosi con le potenzialità offerte dalla tecnologia informatica. Anche questa, in fondo, è “cultura dell’incontro”. Un incontro tra radici e futuro che il virus non ha potuto spezzare. 











lunedì 23 marzo 2020

LA PESTE, IL MOZZO E IL CAPITANO

"Capitano, il mozzo è preoccupato e molto agitato per la quarantena che ci hanno imposto al porto. Potete parlarci voi?"
"Cosa vi turba, ragazzo? Non avete abbastanza cibo? Non dormite abbastanza?"
"Non è questo, Capitano, non sopporto di non poter scendere a terra, di non poter abbracciare i miei cari".
"E se vi facessero scendere e foste contagioso, sopportereste la colpa di infettare qualcuno che non può reggere la malattia?"

"Non me lo perdonerei mai, anche se per me l'hanno inventata questa peste!"
"Può darsi, ma se così non fosse?"
"Ho capito quel che volete dire, ma mi sento privato della libertà, Capitano, mi hanno privato di qualcosa".
"E voi privatevi di ancor più cose, ragazzo".
"Mi prendete in giro?"
"Affatto... Se vi fate privare di qualcosa senza rispondere adeguatamente avete perso".
"Quindi, secondo voi, se mi tolgono qualcosa, per vincere devo togliermene altre da solo?"
"Certo. Io lo feci nella quarantena di sette anni fa".
"E di cosa vi privaste?"
"Dovevo attendere più di venti giorni sulla nave. Erano mesi che aspettavo di far porto e di godermi un po' di primavera a terra. Ci fu un'epidemia. A Port April ci vietarono di scendere. I primi giorni furono duri. Mi sentivo come voi. Poi iniziai a rispondere a quelle imposizioni non usando la logica. Sapevo che dopo ventuno giorni di un comportamento si crea un'abitudine, e invece di lamentarmi e crearne di terribili, iniziai a comportarmi in modo diverso da tutti gli altri. Prima iniziai a riflettere su chi, di privazioni, ne ha molte e per tutti i giorni della sua miserabile vita, per entrare nella giusta ottica, poi mi adoperai per vincere.
Cominciai con il cibo. Mi imposi di mangiare la metà di quanto mangiassi normalmente, poi iniziai a selezionare dei cibi più facilmente digeribili, che non sovraccaricassero il mio corpo. Passai a nutrirmi di cibi che, per tradizione, contribuivano a far stare l'uomo in salute.

Il passo successivo fu di unire a questo una depurazione di malsani pensieri, di averne sempre di più elevati e nobili. Mi imposi di leggere almeno una pagina al giorno di un libro su un argomento che non conoscevo. Mi imposi di fare esercizi fisici sul ponte all'alba. Un vecchio indiano mi aveva detto,anni prima, che il corpo si potenzia trattenendo il respiro. Mi imposi di fare delle profonde respirazioni ogni mattina. Credo che i miei polmoni non abbiano mai raggiunto una tale forza. La sera era l'ora delle preghiere, l'ora di ringraziare una qualche entità che tutto regola, per non avermi dato il destino di avere privazioni serie per tutta la mia vita.
Sempre l'indiano mi consigliò, anni prima, di prendere l'abitudine di immaginare della luce entrarmi dentro e rendermi più forte. Poteva funzionare anche per quei cari che mi erano lontani, e così, anche questa pratica, fece la comparsa in ogni giorno che passai sulla nave.

Invece di pensare a tutto ciò che non potevo fare, pensai a ciò che avrei fatto una volta sceso. Vedevo le scene ogni giorno, le vivevo intensamente e mi godevo l'attesa. Tutto ciò che si può avere subito non è mai interessante. L' attesa serve a sublimare il desiderio, a renderlo più potente.
Mi ero privato di cibi succulenti, di tante bottiglie di rum, di bestemmie ed imprecazioni da elencare davanti al resto dell'equipaggio. Mi ero privato di giocare a carte, di dormire molto, di oziare, di pensare solo a ciò di cui mi stavano privando".
"Come andò a finire, Capitano?"
"Acquisii tutte quelle abitudini nuove, ragazzo. Mi fecero scendere dopo molto più tempo del previsto".
"Vi privarono anche della primavera, or dunque?"

"Sì, quell'anno mi privarono della primavera, e di tante altre cose, ma io ero fiorito ugualmente, mi ero portato la primavera dentro, e nessuno avrebbe potuto rubarmela più".


Dal Libro Rosso di Carl Gustav Jung