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di ALESSANDRO
DEHO’
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Perché
non stiamo parlando di una ricerca di mercato, stiamo parlando della parte più
sacra e misteriosa di ogni uomo, la più difficile da decifrare, quella che
probabilmente rimane impermeabile ai sondaggi. Stiamo parlando di fede, e la
fede prevede sempre e solo una risposta personale, un incontro intimo e
segreto.
La
religione non l’ho mai cambiata ma io, io sono cambiato, e tanto, cambiata la
mia idea di uomo, la mia idea di mondo, la mia idea di Dio. Questo credo sia il
processo più delicato e importante e allora poco mi importa se qualcuno decide
di uscire da un mondo religioso per adottarne un altro, oppure per non aderire
a nulla, quello che mi sembra prezioso è sapere come quel processo sia
avvenuto. Se è stato accompagnato da qualcuno, se è stato doloroso oppure no,
che tracce ha lasciato in chi ha attraversato quel travaglio. Questo vale anche
in senso opposto, per i giovani che si riavvicinano alla religione, anche loro
per me non sono immediatamente una bella sorpresa, ci si può avvicinare alla
religione per il semplice bisogno di avere dei riti in cui identificarsi, per
un bisogno di sicurezza, per la nostalgia di regole chiare, per sentirsi
migliori, per non sentirsi soli (tutte motivazioni plausibili) ma il problema a
me sembra comunque un altro: come è stato vissuto quel passaggio? Chi ha
accompagnato la decisione ha avuto attenzione di non usurpare lo spazio sacro
dell’intimità? Abbracciare una religione ha aiutato l’emergere dell’identità
profonda del soggetto o al contrario l’ha soggiogata? La religione ha reso più
libera la vita oppure ha solo portato una serie di rassicuranti obblighi e
divieti? «Qual è la vostra religione attuale?», io non so cosa abbiano
inteso esattamente per “religione” le persone che hanno ipotizzato questa
domanda ma quello che mi è piaciuto è l’uso di “attuale”, mi pare una precisazione
coraggiosa. Attuale, cioè la nostra appartenenza in questo momento, e se per i
sondaggisti si tratta di una precisazione dovuta alla presa di coscienza della
fluidità del vissuto religioso io provo a forzare il testo e mi dico che la
religione non può che essere “attuale”, sempre, nel senso che si tratta di un
modo concreto e valido solo in questo spazio e in questo tempo per provare a
balbettare qualcosa di noi in relazione a Dio. Qualcosa di valido solo qui,
adesso, la vera sfida quindi non è allacciare le nuove generazioni alle antiche
religioni ma ipotizzare cammini dove si impari la transitorietà di ogni cosa,
anche delle prassi religiose, per dimorare nell’unica cosa che sarà sempre
attuale, perché eterna, perché senza fine: l’Amore. Cioè Dio.
«La
carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle
lingue cesserà e la conoscenza svanirà. Infatti, in modo
imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. Ma
quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto
scomparirà. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo
da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato
ciò che è da bambino». Quello che Paolo canta splendidamente nel
famoso tredicesimo capitolo della prima lettera ai Corinzi mi pare
di dirompente attualità anche per quanto riguarda la nostra
appartenenza religiosa, non importa quale sia la nostra
condizione “attuale” quello che conta è che anche la
religione, fortunatamente, sparirà, quello che conta è se, come
Chiesa, stiamo creando le condizioni per far scomparire tutto ciò
che è imperfetto. Più ancora, questi versetti biblici ci aiutano
anche a correggere la seconda domanda del sondaggio: non è importante
sapere se siamo stati fedeli alla religione della nostra infanzia ma se la
nostra fede è cresciuta dalla nostra infanzia, se la religione ci ha
accompagnato in un cammino personale e profondo di trasfigurazione, un processo
eucaristico, o se ci ha tenuto ancorati ad antiche paure e immaturità.
Io
non so cosa abbiano inteso i ricercatori con il termine “religione” ma so che
solo un uomo di fede può dire: «adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno
specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo
imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto.
Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la
più grande di tutte è la carità!”. Credo profondamente che ciò che salva la
vita non sia tanto ciò in cui credo ma percepire di essere creduto, non ciò che
conosco ma la commovente dolcezza provata quando ho sentito di essere
conosciuto dal Padre.
Davanti
a tanti numeri, preziosi sicuramente per cercare di comprendere il contesto in
cui ci stiamo muovendo, quello che manca sono i volti, più ancora è il volto
singolo e irripetibile di ogni uomo, è la storia di ognuno di noi, quella che
il Cristo risorge chiamandola per nome. Quello che manca non è comprendere il
contesto, non è gioire per il numero di persone presenti a un concerto di
musica cristiana, non è credere che l’evento di fede, quello che prevede una
lotta profonda, sia pubblicizzabile da un influencer, e non è nemmeno gioire
per il numero in aumento di Battesimi in alcune fasce di giovanissimi. Quello
che conta è se siamo finalmente pronti a sprofondare radicalmente nella fede
battesimale, quella che prevede un processo continuo di dolorosa morte e
altrettanto dolorosa rinascita, perché questa è la fede, e l’unica religione
che conta è quella della Carità che fa morire il seme in nome della vita
eterna, perché credere è morire ogni giorno per imparare l’arte dell’abbandono
tra le braccia del Padre. Ma nessun sondaggio potrà mai sapere se in questo
abbandono all’Eterno noi crediamo davvero, perché nemmeno noi lo sappiamo, lo
sapremo solo nell’attimo esatto della nostra morte. Intanto non resta che
allenarci, di deposizione silenziosa in deposizione silenziosa. Lontano
dai numeri e dai sondaggi.
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