martedì 30 aprile 2019

VERSO LE ELEZIONI EUROPEE. L'EUROPA A FAVORE DELL'UOMO E DELLA PACE TRA I POPOLI


Elezioni europee: mons. Hollerich (presidente Comece), “integrazione sia a favore dell’uomo”. “Paure causano destabilizzazione democrazie e indebolimento Ue”





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domenica 28 aprile 2019

CAMBIARE LA SCUOLA? E' COME GUIDARE UN ICEBERG



di Simone Paliaga *

Ci sono temi tabù. Inaffrontabili se non schierandosi. Uno di questi, soprattutto tra chi ci lavora, è la valutazione della scuola. O meglio la valutazione delle istituzioni scolastiche, del loro operato e della loro efficacia. E, come conseguenza, l’indiretta valutazione dei docenti. Ogni volta che si solleva la questione la polemica divampa. È impossibile discuterne senza assumere posizioni radicali. E in Italia non si è mai riusciti a parlarne pacatamente accettando l’idea che sia legittimo valutare le istituzioni scolastiche e la loro efficacia. E questo sorprende perché la scuola vive anche di valutazioni.
Oggi c’è una grande opportunità per riaprire il dibattito sulla valutazione dell’efficacia del sistema di istruzione. Disponiamo finalmente di un testo importante per prendere di petto la questione. Si tratta di Efficacia e inefficacia educativa. Esame critico della Knowledge Base (Springer editore, pagine 409, s.i.p.), pubblicato da poco in traduzione italiana dall’Invalsi grazie a un finanziamento europeo confluito nei celebri PON.
Il nome dell’autore, Jaap Scheerens, a molti dice poco o nulla. Eppure è una delle figure in- tellettuali più influenti in circolazione, soprattutto per l’analisi condotta da anni intorno alle politiche scolastiche. Classe 1946, olandese di nascita, Scheerens ha anche insegnato in Italia all’Università Roma Tre. Per lungo tempo ha partecipato a progetti di ricerca internazionale. Attualmente è membro del consiglio scientifico dell’Invalsi, l’agenzia nazionale a cui compete, tra l’altro, la valutazione del sistema scolastico italiano.
Il testo, peraltro molto tecnico e specifico e frutto di oltre dieci anni di lavoro, pone problemi di governance educativa e di politiche di organizzazione del
sistema scolastico. Tutte cose apparentemente lontane dalla quotidianità ma le cui conseguenze ricadono sulla vita di milioni di persone tra studenti, famiglie e docenti. Dalle analisi dello studioso olandese emerge «una evidenza della limitata malleabilità dei sistemi educativi, indicando non solo scarse associazioni significative fra “cause” ed “effetti” ma anche la lentezza, nella maggioranza dei casi, del processo di riforma dell’istruzione». Snocciolando analisi e dati, il pedagogista neerlandese mostra come la complessità dei sistemi scolastici sia così ampia e variegata che trovare soluzioni atte al loro miglioramento diventa difficile senza contare la pesante inerzia dei sistemi scolastici. Su ognuno di essi gravano così tante variabili che ogni soluzione deterministica è destinata a un probabile fallimento. Individuare una causa su cui intervenire per sortire l’effetto desiderato sulla «malleabilità» dei sistemi scolastici si rivela illusorio.
Scheerens, pur propendendo per il modello di istruzione olandese, riconosce che sia difficile stabilire «scientificamente» quali condizioni e quali azioni producano sistemi educativi efficaci. Le variabili coinvolte sono così tante e per di più incastonate in un sistema complesso multilivello (ministero, istituzione scolastica, classe e alunni e insegnanti) che individuare degli indicatori condivisibili da tutti rischia di mancare di rigore. Pur riconosciuta la complessità della situazione ancora di più si dovrebbe aprire il dibattito sulle modalità della valutazione.






sabato 27 aprile 2019

PACE A VOI !

-  II Domenica di Pasqua  -28 aprile 2019


Commento di don Luciano Cantini
Il saluto è quello di sempre, di ogni occasione, di ogni incontro: “shalom”, “pace”; oggi, però sembra assumere un significato diverso, lo si deduce dal fatto che Giovanni ripete lo stesso saluto per ben tre volte. C'è sicuramente un richiamo, un eco della cena d'addio (Gv 14,27) quando Gesù dice: "vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi".
Il mondo sembrerebbe affannosamente cercare la pace ma qual è la verità? Come è possibile giungere alla pace con strumenti che gli sono contrari... si fanno accordi che sono i risultati di compromessi destinati a cadere, gli armamenti sono sempre più sofisticati e le armi sempre più diffuse, per le strade sperimentiamo violenza e la criminalità è sempre più organizzata e trova terreno facile, le religioni danno spazio agli integralismi che prima o poi manifestano atteggiamenti di chiusura. Si potrà raggiungere una certa pacificazione, un equilibrio tra forze diverse, destinate irrimediabilmente a saltare.
La Pace che Gesù ci dona è frutto dell'evento pasquale della sua morte e resurrezione, di quella morte che è amore, perdono per i persecutori e nemici, che è totale abbandono alla volontà del Padre. Pace che il mondo non conosce e non è capace di dare perché non appartiene a questo mondo e che, una volta accolta, il mondo non può togliere.
Non possiamo immaginare di avere un percorso diverso per accogliere il dono della Pace se non passando attraverso lo stesso evento Pasquale, quel mistero di morte e di resurrezione che Cristo ha vissuto e insegnato: "Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna". (Gv 12,25)
Soltanto il perdono e la misericordia potranno portarci alla pace, soltanto la disponibilità a "perdere" la vita ci rende possibile ottenerla. Non abbiamo altro scampo, non ci è data altra via se non quella della Pasqua.
In Gesù, l'Amore ha vinto sull'odio, la misericordia sul peccato, il bene sul male, la verità sulla menzogna, la vita sulla morte...
“Faccia di noi dei costruttori di ponti, non di muri. Egli, che ci dona la sua pace, faccia cessare il fragore delle armi, tanto nei contesti di guerra che nelle nostre città, e ispiri i leader delle Nazioni affinché si adoperino per porre fine alla corsa agli armamenti e alla preoccupante diffusione delle armi, specie nei Paesi economicamente più avanzati”. (Papa Francesco, Pasqua 2019).
..."Pace a voi! Come il Padre ha inviato me, anch'io mando voi".
Gesù, ripete lo stesso dono della Pace, lo aveva appena fatto mostrando ai discepoli i segni della passione, adesso quel dono è legato allo stesso suo mandato e al dono dello Spirito Santo. I discepoli, noi cristiani, condividiamo col Signore la stessa sua missione, il medesimo suo respiro: soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo», è l'identico gesto del Dio Creatore che ad Adamo ha donato l'alito della vita (Gn 2,7) che nella Pasqua ha la dimensione della misericordia e del perdono.
... Pace a voi
Tommaso che voleva vedere e toccare per credere adesso è presente, anche lui riceve il dono della pace, con l'invito a guardare e mettere il suo dito nelle piaghe di Cristo. Tommaso, come noi, è nel mezzo tra il credere ed il non credere... basta poco per scivolare da una o dall'altra parte incapaci a cedere le nostre opinioni, i nostri percorsi, le nostre prospettive. Gesù ci invita entrare dentro le sue piaghe non dissimili dalle piaghe dell'umanità; la Fede è il dono che riceviamo proprio penetrando dentro di lui, entrando nel suo Corpo per amare come lui ama.

Tratto da Qumran2.net | www.qumran2.net

LIBERTA' E VERITA' NELL'ERA IPERMODERNA

La trasformazione dell’idea di 'libertas' ai tempi della globalizzazione
 La libertà nell’era ipermoderna non può fare a meno della verità.
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Gli individui talvolta si sentono spossessati di una soggettività che esprimeva la loro identità.
L’uniformazione comporta deformazione. Oggi pare sparito un pensiero che faccia appello alla coscienza, al 'foro interno', alla radice di verità che nutre l’anima umana, la sua fede e la sua storia.
Viviamo nel carnevale della libertà: tempo in cui le categorie di pubblico e di privato si rovesciano e si confondono, in cui il virtuale e il reale si compattano. Ma senza un’assunzione di responsabilità il destino va alla deriva.

di  Giancarlo Ricci

Tema centrale e nevralgico, quello della libertà nella nostra epoca. Inoltre, cosa inquietante, diversi constatano una sua lenta ma inesorabile metamorfosi a partire dall’era della globalizzazione. In fondo l’istanza della libertà rappresenta il cuore pulsante di ciascun essere umano e al contempo di ogni società civile. Ripercorrere la tortuosa storia del concetto di libertà nel corso dei secoli è un’avventura ricca di sorprese.
Non c’è filosofo, pensatore, saggista, teologo che, soprattutto a partire dall’Era dei Lumi e degli albori della costituzione dello Stato moderno, non intervenga sulla questione della libertà, e spesso per fare i conti con il complesso e dibattuto tema della secolarizzazione, del laicismo, della potestas. 
Man mano che nell’orizzonte del pensiero moderno il riferimento religioso e culturale all’idea di Dio si indebolisce, gli umani sono costretti a mettere a punto, attraverso gli strumenti del diritto e delle istituzioni, un diverso concetto di libertà che leghi l’uomo alla propria responsabilità diretta, e che ugualmente faccia i conti con un’autorità superiore. C urioso: la storia del concetto di libertà non è rettilinea, procede piuttosto per svolte improvvise, zone d’ombra, strane dimenticanze. Nel mondo dell’antichità classica greca e romana la solida istanza della libertà si svolgeva essenzialmente in funzione di un ambito pubblico connesso alla gestione della Polis. Nell’epoca successiva, ossia nel cristianesimo, si afferma – molti sembrano dimenticarlo – un concetto nuovo di liber- tas che, lungo la dissoluzione dell’ethos pagano e la maturazione del concetto di humanitas, introduce la sfera della coscienza dove il mondo dell’interiorità e del legame con la fede diventano riferimenti decisivi in ogni scelta soggettiva. La svolta del cristianesimo è stata ed è il diritto dell’uomo soggetto e persona.
La nuova prospettiva della libertas christiana distingue, tra l’altro, l’ambito del 'foro interno' da quello del 'foro esterno': il primo riguarda l’interiorità spirituale e religiosa della coscienza e il secondo la scena pubblica e civile dell’individuo. Sullo sfondo di questa distinzione si porrà successivamente la complessa questione di stabilire un ordine nella libertà in base alla priorità delle due autorità della Chiesa e dello Stato. La storia medievale e quella moderna saranno dominate da questa strisciante conflittualità. E oggi? La modernità promuove un’ipertrofia della libertà. Occorre tuttavia distinguere tra il Novecento e l’attuale era della globalizzazione. In fondo l’uomo novecentesco si accorgeva di perdere la propria libertà e combatteva per conquistarla. Era una guerra totale e totalitaria: conquistare la libertà equivaleva alla possibilità di poter continuare a sopravvivere. Nel regno delle ideologie, l’ideale di libertà istituiva una sorta di legame patologico che spesso sfociava in un nichilismo realizzato fatto di distruzioni e massacri.
Nell’ipermodernità si afferma invece un altro volto del nichilismo: offrire bulimicamente ogni forma di libertà facendola coincidere con la scelta obbligata di nuovi consumi, nuovi desideri, nuovi piaceri. La libertà diventa un diritto, un orpello narcisistico, una cinica conferma autoreferenziale. Questa libertà, ridotta a capriccio e poi a merce, svende l’idea di 'credersi liberi'. Da qui al trionfo dell’autodeterminazione il passo è breve: ritenere che la nostra libertà prescinda e possa fare a meno di quella altrui, credere che il volere individuale possa trascendere la nostra memoria o la nostra storia. L’offerta a gettito continuo di nuove libertà all inclusive, conforta il cittadino e lo convince di poter fare a meno di ogni responsabilità. L’ipermodernità sembra essere riuscita, inflazionando le libertà, a neutralizzare l’istanza della responsabilità in cambio di una promessa di sicurezza e di benessere. Intanto accumuliamo libertà, quasi le collezioniamo. M a di quali libertà stiamo parlando? Nella scena sociale lo constatiamo sempre più facilmente: simile idea di libertà produce spesso disagio,angoscia, depressione, demotivazione. Gli individui talvolta si sentono spossessati di una soggettività che esprimeva la loro identità. L’uniformazione comporta deformazione. A tal proposito non possiamo fare a meno di evocare qui i celebri e paradigmatici versi di Giovanni secondo cui 'la Verità rende liberi' (Gv 8,32). Ecco un punto
centrale e imprescindibile: la connessione tra libertà e verità. Motore di ogni atto di libertà, l’istanza di verità, nell’era della libertà globalizzata sembra oscurata o considerata superflua. In effetti una libertà che non abbia salde le proprie radici nel terreno della verità lascia il tempo che trova, si perde in un indifferenziato relativismo, si avvilisce in estenuanti autoreferenzialità. I l celebre polemista mitteleuropeo del secolo scorso, Karl Kraus, scriveva: «La libertà di pensiero ce l’abbiamo, adesso ci vorrebbe il pensiero». Battuta di grande attualità. La nostra società sembra essere in difficoltà in materia di pensiero. Pare svanito un pensiero che sia all’altezza delle numerose complessità che attraversiamo: un pensiero come progetto sociale, civile, culturale, politico, un pensiero come programma di civiltà, come disegno di logiche e di relazioni effettivamente cooperanti. Soprattutto pare sparito un pensiero che faccia appello alla coscienza, al 'foro interno', alla radice di verità che nutre l’anima umana, la sua fede e la sua storia.
Il tempo della post libertà pare esigere che tutto debba consumarsi entro il perimetro coatto del 'foro esterno'. Ormai uomini postmoderni e globalizzati, viviamo nel carnevale della libertà: tempo in cui le categorie di pubblico e di privato si rovesciano e si confondono, in cui il virtuale e il reale si compattano diventando uno la finzione dell’altro. In questa logica si consuma una drammatica constatazione: senza un’assunzione di responsabilità il destino va alla deriva al punto da sembrare ineluttabile e fornendo l’alibi secondo cui ogni presa di responsabilità risulta inane, inutile. Si preferisce chiamarsi fuori dalla complessità del mondo, della coscienza, dell’anima umana. Che cosa è la verità? Una terribile complicazione che è meglio consegnare al politicamente corretto in grado di rendere le cose neutre, uguali tra loro, indifferenziate, senza più la necessità di scegliere, di esporsi e di testimoniare il proprio essere al mondo. Così, come un gioco di prestigio, ugualmente sparisce ogni traccia di responsabilità.
Siamo entrati nel tempo della post libertà. La società contemporanea tende a inflazionare la libertà affinché l’uomo contemporaneo creda di essere libero e di avere a portata di mano qualsiasi scelta. Ma quando tutto sembra possibile la libertà implode, si svuota dal suo interno e muore di troppa libertà. Pensata senza limiti, la libertà diventa mortifera, un inferno. La vita si spegne, pulsa di insofferenza, risulta non più vivibile.
Tale mortificazione è da porre al centro della riflessione e dell’esperienza psicanalitiche. Il lavoro analitico e clinico possono essere letti come un lavoro che punta a riattivare un livello vivibile di libertà, come il percorso in cui un soggetto prova a ritessere il proprio destino, a riscriverlo, a riprogettarlo partendo da un’istanza che scaturisce da una responsabilità altra, forgiata da una consapevolezza senza compromessi e impedimenti. In definitiva si tratta di un lavoro di libertà che scaturisce dall’incontro con il desiderio di progettare una libertà Altra che abbia il sapore di una conquista perenne: per un soggetto riuscire a tollerare la fatica e la soddisfazione di riconquistare una libertà mai immaginata. E risponderne.


IL VERO SCONTRO NON E' TRA LE RELIGIONI, MA DENTRO DI ESSE


di Giuseppe Savagnone

L’opinione pubblica italiana e l’Islam

Gli ultimi sanguinosi attentati contro le chiese cristiane, nello Sri Lanka, hanno dato luogo, su una parte della stampa e sui social, a una ridda di commenti aspramente ostili sia nei confronti dell’islam che di quanti, in Occidente, hanno nei suoi riguardi un atteggiamento dialogico.
Un bell’esempio lo troviamo sul quotidiano «Libero» del 23 aprile, in un pezzo firmato dal direttore, Vittorio Feltri: «Il pensiero unico progressista è che i figli di Allah spesso non sono figli di puttana, bensì bravi ragazzi fedeli di una religione nobile che hanno varie ragioni per odiare noi che non adoriamo il loro Dio».
Da qui una conseguenza sconsolante per un onesto giornalista: «Guai a fare un titolo che definisca bastardi gli attentatori».
Vari esempi di giornalismo tollerante
Su questo veramente i fatti sembrano contraddire il brillante opinionista. Perché proprio il suo giornale, quando ne era direttore Maurizio Belpietro (ora alla guida di un altro foglio della medesima linea, «La Verità»), all’indomani dell’attentato di Parigi del novembre 2015, uscì con il titolo, a caratteri di scatola, «Bastardi islamici» e, accusato di «offese a una confessione religiosa mediante vilipendio di persone», è stato poi assolto con formula piena dal Tribunale di Milano.
Così come era stato già assolto qualche tempo prima, anche questa volta perché «il fatto non sussiste», per aver pubblicato una foto dell’attacco terroristico al giornale parigino Charlie Hebdo il 7 gennaio 2015, titolando «Questo è l’Islam».
Magari sarà perché i giudici che hanno emesso quelle sentenze non aderiscono compitamente a quel «pensiero unico» secondo cui «i figli di Allah spesso non sono figli di puttana», ma da esse non traspare proprio quel filo-islamismo cieco che Feltri denunzia a gran voce.
Anche se, con franchezza, mi chiedo come avrebbe reagito la mia sensibilità di cristiano se, sotto le foto dell’attentato del 15 marzo scorso contro due moschee di Christchurch, in Nuova Zelanda, dove sono morti 50 fedeli islamici e altri 50 sono stati feriti, un quotidiano avesse apposto il titolo: «Questo è il Cristianesimo». Oppure «Bastardi cristiani».
Una distinzione dentro l’Islam
Certo, questo suppone si possa far distinzione tra quei seguaci dell’Islam che interpretano la loro fede in modo compatibile col dialogo tra diverse religioni, escludendo il ricorso alla violenza fisica o verbale, e quelli che invece possiamo definire, con una formula un po’ sbrigativa ma abbastanza fedele, “fanatici”.
Il caso delle autorità musulmane dello Sri Lanka
Che ce ne siano della prima categoria, e ai massimi vertici della gerarchia religiosa musulmana, lo dicono le reazioni agli attentati dello Sri Lanka.
Su di essi si è chiaramente pronunziato il Consiglio dei saggi musulmani, sotto la presidenza del Grande Imam di al-Azhar Ahmed El-Tayeb.
«Il Consiglio – si legge in un comunicato – denuncia con forza attacchi così spregevoli che vanno contro gli insegnamenti di tutte le religioni e credi, nonché contro tutte le leggi e norme sociali internazionali».
Il Consiglio sottolinea inoltre «l’urgente necessità di intensificare gli sforzi internazionali per contrastare tutte le forme di terrorismo. Gli attacchi contro civili innocenti che celebrano una festività religiosa – si legge nel comunicato – dimostrano che le persone che hanno compiuto questi attacchi non sono altro che vigliacchi disumani».
Alla strage di Colombo il Grande Imam di al-Azhar dedica anche un tweet personale: «Non posso immaginare che un essere umano possa prendere di mira persone innocenti nel giorno della loro celebrazione. Queste perverse azioni terroristiche vanno contro gli insegnamenti di ogni religione».
Anche a livello locale, i massimi leader musulmani dello Sri Lanka si sono pronunziati senza alcuna sfumatura di ambiguità: «A nome della comunità musulmana dello Sri Lanka, offriamo le nostre condoglianze al popolo della fede cristiana e estendiamo le nostre mani in segno di amicizia in solidarietà».
A questa solidarietà ha fatto riscontro una precisa richiesta: «Esortiamo il governo a fornire sicurezza a tutti i siti religiosi e a dare la massima punizione a tutti coloro che sono coinvolti in questi atti ignobili», ha detto Jamiyyathuul Ulama, leader dei teologi musulmani di tutto il Paese.
Fanatici e traditori
Tutti figli di p…, tutti bastardi, travestiti da brave persone per ingannare l’opinione pubblica mondiale?
A smentire questa ipotesi – peraltro già in sé piuttosto avventurosa – stanno ancora una volta i fatti. Raramente ci si rende conto che il bersaglio delle più efferate violenze compiute dagli islamici fondamentalisti non sono rivolte contro i cristiani, ma contro i loro correligionari illuminati e impegnati a sviluppare un dialogo con le altre religioni, prima fra tutte il cristianesimo. La logica è semplice ed è esattamene la stessa che porta personaggi come Feltri, o Belpietro, o Sallusti, a inveire, prima ancora che contro i musulmani, contro i non-musulmani che dialogano con loro. Per il fanatico, nulla vi è di più esasperante di un atteggiamento che ai suoi occhi appare un tradimento, le cui ragioni non possono che essere le più ignobili.
Lo scontro tra civiltà e inciviltà
Così, è certamente una tragedia immane che solo nel 2018 – secondo un rapporto di World Watch List – ben 4.305 cristiani siano stati uccisi per la loro fede.
Ma le cronache delle violenze intestine diffuse in tutto il mondo islamico fa sospettare che ancora di più siano i seguaci moderati dell’Islam uccisi dagli estremisti.
Il che, ovviamente, non attenua, anzi ingigantisce la tragedia, ma la situa nella sua reale prospettiva, che non è quella dello «scontro di civiltà» di cui parlava Huntington, ma della sfida all’ultimo sangue tra civiltà e inciviltà, trasversale a tutte le religioni – ci sono fondamentalisti ebrei, indù, cristiani – e che si sta svolgendo anche all’interno dello stesso cattolicesimo tra una linea aperta al confronto e all’incontro, pur senza edulcorare le diversità, e chi invece accusa la Chiesa attuale, primo fra tutti papa Francesco, di colpevoli silenzi.
I presunti silenzi della Chiesa
È la denunzia del noto politologo americanoEdward Luttwak, intervistato a La Zanzara, suRadio 24: «Il Papa fa grandi dichiarazioni quando chiunque viene ucciso ma suicristiani sta zitto».
La realtà, veramente, è un’altra. Il giorno di Pasqua, nel messaggio Urbi et orbi, Francesco ha parlato con chiarezza: «Desidero manifestare la mia affettuosa vicinanza alla comunità cristiana, colpita mentre era raccolta in preghiera, e a tutte le vittime di così crudele violenza».
E lo ha fatto di nuovo lunedì, all’Angelus, quando, tra l’altro ha detto: «Prego per le numerosissime vittime e per i feriti. Chiedo a tutti di non esitare a dare l’aiuto necessario. Auspico che tutti condannino questi atti terroristici, atti disumani, mai giustificabili».
E più tardi, sempre lunedì, in un tweet: «Uniamoci anche oggi in preghiera con la comunità cristiana dello Sri Lanka colpita da una violenza cieca nel giorno di Pasqua. Affidiamo al Signore risorto le vittime, i feriti e la sofferenza di tutti».
Gli hanno rinfacciato che il tweet sia stato postato solo il giorno dopo (ma si era già espresso a voce!), con qualche ora di ritardo rispetto a quello in occasione dell’incendio di Notre Dame. Sarà vero, ma non mi sembra ci sano gli estremi per i toni esasperati di certa stampa e certi ambienti “cattolici”…
Amici e nemici
Ma forse la vera ragione è un’altra e viene evidenziata in una critica che si trova raccolta, insieme a quella di filo-islamismo, nel sito «Dagospia»: «Il papa dedica la via crucis ai migranti, ma abbandona i cristiani perseguitati nei paesi musulmani».
Già. I migranti. Tutta la politica dei “porti chiusi” si regge su una logica che divide il mondo in “amici” – gli italiani, i turisti stranieri ricchi (nessuno respinto alle frontiere…) – e “nemici” (i migranti poveri, ricondotti acriticamente alla categoria dell’islam, anche se in realtà molti sono cristiani come noi). Rientra in questo quadro manicheo l’accusa fatta da Feltri nel suo articolo a tutti i critici della linea del nostro attuale governo: «Non hanno neanche il coraggio di ammettere che il monopolio del terrorismo ce l’hanno i cannibali dell’islam».
Se loro e solo loro sono una minaccia per il cristianesimo, va bene la visione seguita, rigorosamente in nome del vangelo, dal nostro ministro degli Interni e profeticamente anticipata da Feltri in un suo articolo di tre anni fa: «Cerchiamo almeno di rendere la vita dura agli invasori, così come fecero gli antichi romani. I quali (…) combattevano con tutte le forze allo scopo di non farsi dominare dagli stranieri incivili» («Libero», 20 maggio 2016).
Se invece la minaccia – per il Cristianesimo come per l’Islam – sono i fanatici che vogliono a tutti costi lo scontro, falsando lo spirito delle loro rispettive religioni, la vera risposta è quella che ha dato l’imam dei musulmani sufi che, a Colombo, ha invitato i cristiani, rimasti esclusi dalle loro chiese, a venire a pregare nella sua moschea.





mercoledì 24 aprile 2019

25 APRILE - VIVA LA DEMOCRAZIA E LA COSTITUZIONE - NON DIMENTICARE CHI HA DATO LA VITA PER LA NOSTRA LIBERTÀ' ....

"La festa del 25 aprile ci stimola a riflettere come il nostro Paese seppe risorgere dopo la tragedia della seconda guerra mondiale. Un vero secondo risorgimento in un Paese materialmente distrutto e gettato nello scompiglio dal regime fascista nemico e da quello monarchico.... 
I giovani facciano propri i valori costituzionali ....
Conoscere la tragedia il cui ricordo è ancora vivo ci aiuta a comprendere le tante sofferenze che si consumano alle porte dell'Europa che coinvolgono popoli a noi vicini. 
E' bene ricordare con gratitudine le donne e gli uomini, i civili e i militari, i sacerdoti che contribuirono al riscatto del nostro Paese.... 
La vostra testimonianza è un monito permanente, un argine di verità contro le interessate riscritture della storia....."


24 aprile 2019

Mattarella, Presidente della Repubblica

www.quirinale.it

lunedì 22 aprile 2019

AIMC - CONFERENZA NAZIONALE 2019

Conferenza nazionale 2019 

 L'AIMC OLTRE LE FRONTIERE

Roma, 11-12 maggio 2019 

Centro nazionale AIMC 

Clivo di Monte del Gallo, 48



domenica 21 aprile 2019

CRISTO, NOSTRA SPERANZA E NOSTRA GIOVINEZZA



Papa Francesco: " .....«Cristo vive. Egli è la nostra speranza e la più bella giovinezza di questo mondo. Tutto ciò che Lui tocca diventa giovane, diventa nuovo, si riempie di vita. Perciò, le prime parole che voglio rivolgere a ciascun giovane [e a ciascun] cristiano sono: Lui vive e ti vuole vivo! Lui è in te, Lui è con te e non se ne va mai. Per quanto tu ti possa allontanare, accanto a te c’è il Risorto, che ti chiama e ti aspetta per ricominciare. Quando ti senti vecchio per la tristezza, i rancori, le paure, i dubbi o i fallimenti, Lui sarà lì per ridarti la forza e la speranza» (Christus vivit, 1-2).
Cari fratelli e sorelle, questo messaggio è rivolto nello stesso tempo ad ogni persona e al mondo. La Risurrezione di Cristo è principio di vita nuova per ogni uomo e ogni donna, perché il vero rinnovamento parte sempre dal cuore, dalla coscienza. Ma la Pasqua è anche l’inizio del mondo nuovo, liberato dalla schiavitù del peccato e della morte: il mondo finalmente aperto al Regno di Dio, Regno di amore, di pace e di fraternità.
Cristo vive e rimane con noi. Egli mostra la luce del suo volto di Risorto e non abbandona quanti sono nella prova, nel dolore e nel lutto. .......... 
Davanti alle tante sofferenze del nostro tempo, il Signore della vita non ci trovi freddi e indifferenti. Faccia di noi dei costruttori di ponti, non di muri. 
Egli, che ci dona la sua pace, faccia cessare il fragore delle armi, tanto nei contesti di guerra che nelle nostre città, e ispiri i leader delle Nazioni affinché si adoperino per porre fine alla corsa agli armamenti e alla preoccupante diffusione delle armi, specie nei Paesi economicamente più avanzati. Il Risorto, che ha spalancato le porte del sepolcro, apra i nostri cuori alle necessità dei bisognosi, degli indifesi, dei poveri, dei disoccupati, degli emarginati, di chi bussa alla nostra porta in cerca di pane, di un rifugio e del riconoscimento della sua dignità.
Cari fratelli e sorelle, Cristo vive! Egli è speranza e giovinezza per ognuno di noi e per il mondo intero. Lasciamoci rinnovare da Lui! Buona Pasqua!"


PASQUA DI PACE A VOI TUTTI…….




Andrò in giro per le strade sorridendo,
finché gli altri diranno:- è pazzo!
E mi fermerò soprattutto
Coi bambini a giocare in periferia,
poi lascerò un fiore ad ogni finestra
e saluterò chiunque incontrerò per via,
stringendogli la mano.
E poi suonerò con le mie mani
le campane della torre a più riprese
finché sarò esausto,
e dirò a tutti: PACE!
Ma lo dirò in silenzio
e solo con un sorriso,
ma tutti capiranno.

David Maria Turoldo


sabato 20 aprile 2019

POPULISMO ? UNA PAROLA CHE DIVIDE

Il termine nasce a fine Ottocento ma non è legato a un concetto bene definito. 
Federico Finchelstein propone un legame con il fascismo ma non convince.
Lo storico argentino cerca le esperienze comuni tra le esperienze populiste passate e recenti, arrivando a definire il fenomeno «democrazia autoritaria» e «teologia politica» Gli strumenti concettuali appaiono labili e i confini così ampi da divenire evanescenti

di DAMIANO PALANO

«Dove i concetti mancano, ecco che al punto giusto compare una parola », diceva Mefistofele nel Faust.
E qualcosa del genere è accaduto probabilmente per la parola “populismo”: un vocabolo nato sul finire dell’Ottocento negli Stati Uniti, ma a lungo rimasto circoscritto a un ambito piuttosto limitato, prima di conoscere una straordinaria fortuna nell’ultimo quarto di secolo. A dispetto di un utilizzo quantomeno inflazionato, al termine non è però legato un concetto chiaramente definito. E anche per questo il dibattito condotto dagli studiosi su cosa sia davvero il “populismo” – se si tratti cioè di un’ideologia, di una mentalità, di uno stile retorico, di una modalità organizzativa, o altro – è ben lontano dall’aver raggiunto una conclusione. E ovviamente la discussione è diventata ancora più accesa dopo la conquista della Casa Bianca da parte di Donald Trump, da molti considerato il portabandiera del nuovo “populismo globale”.
Il libro di Federico Finchelstein Dai fascismi ai populismi. Storia, politica e demagogia nel mondo attuale si inserisce proprio in questo dibattito. In particolare, il lavoro dello storico argentino – da quasi un ventennio trasferitosi negli Stati Uniti – nasce dall’insoddisfazione nei confronti della gran parte della riflessione recente, accusata di due limiti: per un verso dalla convinzione che il populismo sia un fenomeno nuovo, innescato soprattutto dalla vittoria di Trump; per l’altro, dall’assenza di riferimenti ai precedenti storici del populismo, e in particolare al regime di Juan Domingo Perón in Argentina. Al contrario, sostiene Finchelstein, è indispensabile riconoscere gli elementi comuni tra le esperienze populiste del passato e quelle più recenti. E soprattutto è necessario comprendere il fenomeno con la prospettiva di una «storia globale». A dispetto di queste premesse, senz’altro condivisibili, il quadro che lo studioso dipinge finisce però col ricorrere a categorie interpretative piuttosto evanescenti.
La tesi di fondo è che esista una stretta parentela tra fascismo e populismo: quest’ultimo sarebbe in sostanza una «democrazia autoritaria », oltre che un movimento – né di destra né di sinistra – «portatore di una concezione intollerante della democrazia, in cui il dissenso è ammesso ma viene dipinto come privo di qualsiasi legittimazione«. Dopo il 1945, il populismo avrebbe riformulato gli obiettivi del fascismo adattandoli a un contesto democratico, senza però perdere il carattere autoritario. Pur riconoscendo la variabilità delle forme in cui il fenomeno si è presentato, Finchelstein propone un’articolata griglia definitoria, che considera il populismo, fra l’altro, come «una forma estrema di religione politica», «una visione apocalittica della politica», «una teologia politica fondata da un leader del popolo che ha tratti messianici e carismatici», «una concezione omogenea del popolo». Ma già da questa definizione emerge il limite di un notevole lassismo concettuale.
Desta senz’altro qualche perplessità il fatto che Finchelstein definisca l’ideologia fascista come «parte di una più vasta reazione intellettuale all’Illuminismo » e come una «reazione alle rivoluzioni progressiste del lungo
XIX secolo». In questo modo si fornisce una visione monolitica del fascismo, trascurandone l’infatuazione per il progresso, le ambizioni di radicale modernizzazione della società, gli elementi di affinità con il socialismo. Qualche ulteriore perplessità è sollevata dalla stessa categoria di «fascismo globale», che riconduce a un’unica matrice ideologica regimi e movimenti in realtà piuttosto eterogenei. Ma problemi ancora più evidenti emergono quando lo storico passa a considerare il populismo. Contestando i tentativi di ridurre i fenomeni a ideal-tipi costruiti astrattamente, Finchelstein ritiene si debba cominciare dalla storia, e cioè dai caratteri delle esperienze populiste, a partire dal primo caso di regime populista, individuato nel peronismo argentino. In altre parole, a suo avviso non si deve tentare di definire teoricamente il concetto di populismo. Si devono invece registrare gli elementi principali dei regimi e dei movimenti populisti emersi nella storia. E proprio dall’osservazione di tali casi risulterebbe una straordinaria affinità – che non è però un’identità – tra populismo e fascismo. Ma, se il peronismo rappresentò davvero una riformulazione di alcune componenti del fascismo, simili legami risultano quantomeno più deboli per molti di quei leader che Finchelstein annovera nella famiglia populista, come – per fare solo alcuni nomi – Carlos Menem, Alberto Fujimori e Silvio Berlusconi. Le difficoltà non sono comunque solo queste. Il populismo viene dipinto infatti in modo impressionistico, al tempo stesso, come un’ideologia, un tipo di regime politico, uno stile, una visione del mondo e molto altro. I confini del populismo diventano così davvero molto evanescenti. Fra l’altro, Finchelstein sembra inconsapevole del fatto che il peronismo venne definito “populismo” solo a posteriori, che quella categoria è il risultato di una rielaborazione compiuta dalle scienze sociali, e che, più in generale, non esistono testi fondativi della visione del mondo populista: e proprio queste circostanze rendono quantomeno problematico definire il populismo come un’ideologia, al pari di quella fascista e socialista. Ma altrettanto critica è la definizione del populismo come “democrazia autoritaria”, soprattutto perché non viene chiarito quali sarebbero gli elementi “empiricamente osservabili” tali da rendere “autoritaria” una democrazia (senza al tempo stesso trasformarla in un regime non competitivo e dunque non democratico). Il rompicapo diventa così davvero insolubile. E la parola “populismo” rischia di diventare una sorta di passepartout che promette di spalancare tutte le porte, ma che non ne apre davvero nessuna.


Federico Finchelstein - Dai fascismi ai populismi - Storia, politica e demagogia nel mondo attuale
Donzelli. Pagine 278. Euro 28 ,00






venerdì 19 aprile 2019

SPIRITUALITA' E POLITICA, INSIEME IN CAMMINO PER COSTRUIRE IL BENE COMUNE

Spiritualità e politica possono camminare insieme?  

''Debbono farlo'' secondo Luciano Manicardi priore di Bose

di Corona Perer

Costruire una società solida richiede individui risolti. Occorre anche mettere a questa costruzione mattoni solidi di pensiero, impegno, preparazione umana. Essere pronti 'dentro' per 'darsi' alla comunità, rimanda alla dimensione spirituale di chi "fa" politica.
Luciano Manicardi biblista, divenuto priore di Bose dal 2017 dove ha raccolto la pesantissima eredità di Enzo Bianchi, ha scritto un piccolo e preziosissimo saggio "Spiritualità e Politica" (Edizioni Qiqajon) in cui risuonano suggestioni importanti a partire da Max Weber il quale ebbe a dire della politica “...chi è interiormente debole si tenga lontano da questa carriera...”
Partendo  da una domanda del gesuita Paul Valadier, dottore in teologia e in filosofia (“...e se la vita spirituale fosse una delle condizioni fondamentali di un’intensa vita sociale e politica?”), Manicardi tenta una risposta affermando che una politica mite, giusta, sensata e in una parola umana, necessita di uno sforzo fondamentale: l'ascolto. Lo si esercita al meglio se il politico ha una sua dimensione spirituale.
Da monaco e biblista, spiega cosa sia (e come ci si possa dire) “comunità”, analizza la dimensione del bene comune ed il valore della parola che nel politico si esprime di sovente di promessa ed afferma che la qualità della politica è legata alla qualità umana di chi si impegna in essa, alla sua capacità di governare se stesso: come i profeti biblici che, spesso in situazioni storiche di tenebra, hanno saputo creare futuro e dare speranza.
Manicardi spiega l'importanza di una vita interiore come pre-requisito per donarsi agli altri e affrontare  le sfide della politica oggi, indicando nella immaginazione, nella creatività e nel coraggio le tre facoltà da sviluppare per costruire una interiorità. Tre vie che un buon politico deve percorrere, guardandosi bene dalla tentazione della vanità.
“La straordinaria forza sprigionata da alcuni uomini politici è connessa alla loro profondità spirituale" scrive il Priore, che cita solo Gandhi (ma en-passant) e lo svedese Dag Hammarskjöld segretario delle Nazioni Unite che cambiò per sempre l'organizzazione, morto cinquant'anni fa in un incidente sospetto il quale ebbe a dire: “Le domande che sono alla base di una vita spirituale non sono affare privato, ma possono e anzi debbono alimentare un impegno pubblico”.
Che legame ci può essere allora tra politica e spiritualità? Attraverso un percorso che tocca  Simone Weil, Max Weber, Hanna Arendt e Blaise Pascal, il priore di Bose spiega che ogni azione, ogni impegno sociale e politico trovano il loro fondamento nell’interiorità, nel profondo di noi stessi.  Capire se stessi permette quindi di andare verso gli altri.
Spiritualità e politica possono quindi camminare insieme. Anzi, debbono. Il che impone avere percezione del limite, ma anche dell'immenso potere della parola. E poi la dimensione del coraggio che – scrive Manicardi - “...si nutre di orizzonti vasti ed estesi” ed agisce “malgrado”, cioè nonostante i pericoli e le difficoltà dell'azione. “Il coraggio è proprio della persona che sa decidere. Anzi il coraggio stesso consiste in una decisione, un atto risultato che vince le resistenze che indurrebbero alla inazione”.
Non occorre essere eroi, ma di fatto lo si diventa. Perchè, indica ancora il Priore, il coraggio si vive nella normalità che è anzitutto il coraggio civico di fare il proprio dovere.
E' la dimensione dell'homo civicus. E spiega - in pagine ispirate che dovrebbero essere lezione per chiunque amministra - che il mondo tecnologico tende ad escludere sia il coraggio (inibito dentro procedimenti freddi e tecnici) che la stessa immaginazione fondamentale a prefigurare e creare la realtà. Anzi l'immaginazione è addirittura sovversiva, per questo il mercato crea prodotti ancor prima che possiamo immaginarli o desiderarli. E' anche in questo modo che si addomestica la libertà di immaginare: tutto è pronto all'uso non occorre nemmeno pensarlo. L'homo emptor (compratore) non immagina: usa.
Particolare importanza viene data alla parola in politica. Citando Hanna Arendt (“la polis è il corpo politico più d'ogni altro basato sulla parola...”), Manicardi pone la parola al cuore di un processo che da “io” diventa “noi”. Ed è bello lo sdoganamento della parola promessa, o meglio di quelle parole che spesso suonano di “promessa elettorale”, o lo sono.
“La promessa non è arrogante, è volontà umile. Nel promettere io so di affrontare l'incognito in me e negli altri. E mi dispongo a pagarne il prezzo”  scrive Manicardi che riconosce nella promessa sia potenza che estrema delicatezza, tanto sul piano spirituale che politico. “In essa è implicata la responsabilità verso se stessi, verso gli altri, verso il futuro e verso la parola pronunciata al cui servizio, colui che promette, si pone”.
Magistrale, infine, l'analisi di ciò che è “comunità” termine che deriva (e contiene) il sostantivo latino “munus”: cioè il dono che si fa, non quello che si riceve. Ebbene la comunità è l'insieme di persone donanti, l'uni agli altri, radunati attorno a beni comuni. Prima di affrontare la lezione del limite (la morte) che porta ogni individuo o società a creare per sopravvivere a sé, Manicardi ci dona una definizione illuminante. “L'umanità conosce il desiderio di comunità perchè essa è una comunità di desiderio. Perchè è il desiderio ciò che accumuna gli umani”.








mercoledì 17 aprile 2019

CHE SIA PASQUA PER TUTTI! AUGURI DALL'AIMC


Insegnanti, salute negata e verità nascoste, 100 storie di Burnout a scuola

100 storie vere, sofferte, vissute che meglio di ogni altra cosa rappresentano un sistema scolastico malpagato, disprezzato, umiliato e troppo spesso illuso da una classe politica affetta da “riformismo” inutile. Il testo si propone di schiacciare i nefasti stereotipi e far conoscere le situazioni reali a docenti e dirigenti per affrontarle con i pochi ma efficaci strumenti a disposizione. Un libro che si pregia di raccogliere i casi di vita scolastica più interessanti offrendo spunti e soluzioni a docenti e dirigenti che, nonostante tutto, sono chiamati a remare nella stessa direzione.
Resta la speranza che la lettura del testo faccia comprendere – anche a genitori e medici – l’importanza di una scuola sana sulla cui cima è posto il regista che i latini sapientemente chiamavano magister. Siamo all’alba del terzo millennio ma ancora oggi non sono state riconosciute ufficialmente le malattie professionali degli insegnanti. Eppure, gli studi a disposizione ci dicono che le cause di inidoneità all’insegnamento presentano diagnosi psichiatriche nell’80% dei casi, con un’incidenza 5 volte maggiore rispetto alle comprensibili disfonie. In Europa, noi italiani, siamo poi gli unici a non presentare risultati di studi su base nazionale, pur disponendo di dati completi presso l’Ufficio III del Ministero Economia e Finanze (MEF) che, da oltre tre anni, si rifiuta di metterli a disposizione di Università e sindacati. Un semplice incontro operativo MIUR-MEF sbloccherebbe la situazione e avremmo in pochi mesi il riconoscimento ufficiale delle malattie professionali della categoria permettendo l’attivazione di un serio programma di prevenzione basato su diagnosi collegiali e non su termini equivoci di nessun valore medico quali burnout, rischi psicosociali, stress lavoro correlato”. Nonostante ciò il DL 81/08 (Testo Unico sulla tutela della salute dei lavoratori) nelle scuole non è mai stato finanziato con un solo euro, lasciando lettera morta l’indispensabile prevenzione di legge delle malattie professionali.
La salute dei lavoratori è sempre stata all’origine della ragione di nascita del sindacato ma forse siamo tutti caduti nell’errore di considerare usuranti solamente i lavori fisici (miniere, altoforni, catene di montaggio, fabbriche) trascurando quelli psichicamente usuranti nonostante queste abbiano un’incidenza 5 volte maggiore. L’83% del corpo docente è donna con un’età media di 50 anni con ciò che questo comporta: quintuplicazione dell’esposizione al rischio depressivo in periodo perimenopausale oltre alla professione psicofisicamente usurante.
Nelle azioni di governo si ricade troppo spesso nel solito errore di voler riformare le pensioni “al buio”, cioè senza considerare variabili fondamentali quali età anagrafica, anzianità di servizio e malattie professionali. Queste ultime invece dipendono direttamente dall’anzianità di servizio che comporta un aumento progressivo dell’altissima usura psicofisica del docente che è stata riconosciuta parimenti alta in tutti i livelli d’insegnamento. Nel giro di 20 anni (1992-2012) siamo passati dalle insostenibili baby-pensioni agli intollerabili 67 anni della Monti-Fornero. Restare in cattedra oltre i 60 anni, alle condizioni odierne, appare davvero incompatibile con l’attuale condizione di salute dei docenti. Prorogare un simile sistema di maestre-nonne equivale a calpestare l’art.28 del DL 81/08 che esige la tutela della salute del lavoratore commisurato a genere ed età del lavoratore.
Di questi tempi diviene sempre più caldo il fronte dei Presunti Maltrattamenti a Scuola (PMS) che sembrano essere strettamente collegati all’elevata anzianità di servizio (56,4 anni di età con anzianità di servizio media > dei 30) che si riflette negativamente sull’usura psicofisica dell’insegnante. Non passa oramai giorno in cui non si annunciano casi di PMS di alunni da parte delle maestre, scatenando l’opinione pubblica in sterili dibattiti sul posizionamento o meno di telecamere che non rappresentano una vera soluzione.
La responsabilità dell’incolumità degli alunni rientra di diritto tra le incombenze medico-legali dei dirigenti scolastici che dovrebbero gestire tali situazioni senza dover scomodare Forze dell’Ordine, magistrati, avvocati e periti ingolfando ulteriormente il sistema giudiziario. Non è altresì tollerabile l’altissimo numero di aggressioni fisiche e verbali di docenti da parte di genitori e/o studenti.
Anche per queste ragioni, oltre che per il fenomeno dei PMS occorre la costituzione immediata di un tavolo interministeriale MIUR-MGG (Ministero di Grazia e Giustizia) per affrontare con criterio le suddette emergenze. Per dirla in una frase: la salute professionale è il punto critico del sistema scuola perché la miglior garanzia per l’incolumità e la crescita degli alunni passa attraverso la tutela della salute degli insegnanti.

da Orizzonte Scuola