IV domenica di Pasqua
Giovanni 10,27-30 (At 13,14.43-52; Ap 7,9.14-17)
In quel tempo Gesù
disse:" 27Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le
conosco ed esse mi seguono. 28Io do loro la vita eterna e non
andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. 29Il
Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle
dalla mano del Padre. 30Io e il Padre siamo una cosa sola».
Commento di Luciano
Manicard
L’accento della quarta
domenica di Pasqua di ogni annata liturgica cade sempre su Gesù pastore.
Il Gesù che ha guidato i suoi discepoli, “il piccolo gregge” (Lc 12,32),
facendo di loro una comunità, è anche il Risorto che dona loro la vita eterna:
questo il messaggio della pagina evangelica (Gv 10,27-30). La seconda lettura
(Ap 7,9.14-17) afferma che il Risorto è Pastore e Agnello al tempo stesso;
anzi, è Pastore perché Agnello, ovvero, è Colui che guida i credenti alla vita
piena grazie alla sua passione, morte e resurrezione. Infine, la prima lettura,
tratta come sempre durante il tempo di Pasqua dagli Atti degli Apostoli, mostra
il Risorto che continua a esercitare nella storia le sue funzioni di pastore,
cioè a formare comunità e a guidare e nutrire le sue “pecore”, attraverso
l’attività apostolica di predicazione della Parola di Dio (At 13,14.43-52).
L’Agnello
“L’Agnello sarà il loro
pastore” (Ap 7,17): la pagina dell’Apocalisse è particolarmente interessante e
intrigante presentando il Cristo risorto al tempo stesso come pastore e come
agnello. Siamo al cuore dell’ossimoro in cui consiste la rivelazione cristiana:
Dio si fa conoscere pienamente nell’uomo Gesù di Nazaret, il salvatore del
mondo è l’impotente appeso alla croce, il Signore dell’universo è il servo di
tutti, il pastore è l’agnello. Già il IV vangelo aveva riferito a Gesù i titoli
di agnello e contemporaneamente di pastore: Gesù è “l’agnello di Dio” (Gv
1,29.36) ed è il pastore autentico, “il buon pastore” (Gv 10,11.14). E come
l’evangelista aveva mostrato il Risorto segnato dalle ferite della
crocifissione (Gv 20,20.27), così il veggente di Patmos parla dell’“Agnello
ritto in piedi come ucciso” (Ap 5,6).
Il Crocifisso-Risorto è
l’Agnello-Pastore.
Tuttavia, l’espressione
certamente paradossale può perdere il suo aspetto sconcertante e urtante e
mostrare la sua potenza rivelativa se si pensa che l’attributo di pastore
nell’Antico Testamento, quando non designa pastori di greggi e quando non è
riferito a Dio, ma a capi, soprattutto politici e militari, del popolo, indica
dei “cattivi” pastori. E i pastori, le guide del popolo sono “cattive” quando
vengono meno al loro compito di servire il gregge e invece se ne servono;
quando non lo nutrono ma lo affamano; quando non lo conducono al pascolo o
all’ovile ma lo disperdono; quando non lo curano ma lo lasciano perire; quando
non lo proteggono ma lo consegnano in balìa di animali feroci e di ladri. Basti
una citazione tratta da Geremia: “Guai ai pastori che fanno perire e disperdono
il gregge del mio pascolo. Oracolo del Signore. Perciò dice il Signore, Dio
d’Israele, contro i pastori che devono pascere il mio popolo: Voi avete
disperso le mie pecore, le avete scacciate e non ve ne siete preoccupati” (Ger
23,1-2). La domanda che sorge, e che riguarda chi detiene posti di autorità e
responsabilità nello spazio politico e civile, ma in particolare nell’ambito
ecclesiale è: come liberare l’esercizio dell’autorità dal rischio dell’abuso di
potere? E poiché la mens abusante si esprime a
trecentosessanta gradi, l’abuso di potere acquista molte e diversificate
sfumature e diviene polimorfo.
Ora l’insegnamento
insistente di Gesù ai suoi discepoli, e a noi con loro, riguardo a chi detiene
responsabilità nella comunità e dunque svolge un compito pastorale nella
chiesa, è: chi è primo sia l’ultimo di tutti, chi governa sia il servo di
tutti, il più grande sia lo schiavo di tutti (cf. Mt 20,26-27; Mc 10,43-44; Lc
22,26). La proclamazione che Gesù è pastore in quanto agnello dice esattamente
questo. Lui, il Signore, il più grande, si è posto coscientemente e liberamente
come lo schiavo e il più piccolo, vincendo in se stesso la logica che porta a
spadroneggiare e ad abusare. E come le parole di Gesù ai discepoli nei
Sinottici contengono una polemica contro l’esercizio del potere come dominio e
sfruttamento in ambito politico (“I re delle genti le signoreggiano e coloro
che hanno potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Voi però, non così”:
Lc 22,25-26; cf. Mt 20,25; Mc 10,42), analogamente i titoli che l’Apocalisse
attribuisce al Risorto come “sovrano dei re della terra” (Ap 1,5), “colui che è
destinato a pascere (poimaínein) tutte le genti” (Ap 12,5), contengono
una critica al sistema politico imperialista e totalitario dominante all’epoca,
in particolare al culto imperiale.
Il pastore
Ora, che il Pastore sia
l’Agnello, significa l’integrazione della dimensione della vulnerabilità e
della mitezza proprie dell’agnello nel compito di guida e governo proprio del
pastore. La forza del Messia, “il leone della tribù di Giuda” (Ap 5,5), si esprime
paradossalmente nell’Agnello “ritto in piedi come ucciso”. La vera forza di chi
governa consiste nell’assunzione cosciente della propria vulnerabilità e
fragilità. Questa operazione, che situa la persona nella sua verità
esistenziale, la pone anche empaticamente vicina alle persone di cui ha una
responsabilità. A quel punto il potere viene onorato nella sua vocazione
originaria purtroppo disattesa nell’accezione comune del termine per cui con
esso, come si esprime il filosofo Byung-Chul Han nel suo libro Che
cos’è il potere, “si intende di solito la seguente relazione causale: il
potere di Ego dà origine a un determinato comportamento
di Alter contro la volontà di quest’ultimo. Il potere
mette Ego in condizione di imporre le sue decisioni senza
dover far caso ad Alter, il quale subisce la volontà di Ego come
qualcosa di estraneo”. In realtà, come appare perfino all’elementare livello
grammaticale, “potere” è verbo servile, che presenta dunque una contiguità,
anzi, una co-essenzialità con quella dimensione di servizio che spesso è
considerata agli antipodi del potere.
Il potere
Il verbo e il vocabolo “potere” aprono delle
possibilità e le rendono praticabili, sempre all’interno di quei limiti che gli
impediscono di degenerare. Degenerazione che avviene quando il potere si
sgancia da ogni limite e si assolutizza: da qui nascono abusi, prepotenze,
prevaricazioni, controllo, manipolazione, sfruttamento e violenze. Il potere
degenera quando nega la fragilità e debolezza. Primo Levi scrive che l’abbaglio
del potere ci porta a “dimenticare la nostra fragilità essenziale”. Declinare
il potere come dominio funziona dunque come strumento antimnemonico della
nostra fragilità essenziale, che costituisce anche parte integrante della
nostra condizione umana. Il potere come dominio svela così la sua qualità di
menzogna, e menzogna anzitutto antropologica. Il sogno di dominio dei potenti
di questo mondo diventa l’incubo delle moltitudini di poveri oppressi e
perseguitati: l’Agnello-Pastore invece è capace di consolare asciugando le
lacrime da ogni volto (Ap 7,17; cf. 21,4). Il “potere” dell’Agnello-Pastore è
potere di consolazione (“Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno
consolati”: Mt 5,4). Ma chiediamoci: chi può esprimere con questa immagine il
mondo redento? Chi nella vita ha pianto e ha anche, già qui e ora, ha consolato
chi era nel pianto, “piangendo con chi è nel pianto” (Rm 12,15), facendosi
prossimo e asciugando le lacrime di chi si trovava nell’afflizione. Il potere
rettamente inteso, il potere alla scuola del “buon pastore” va di pari passo
con la compassione, con il no radicale all’indifferenza di fronte al male del
prossimo. E si radica nell’amore e si esprime come amore.
L’ascolto
Questo dice anche la
pagina evangelica accennando alla simbolica della mano. “Le mie pecore
ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita
eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.
Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno le può strappare
dalla mano del Padre mio” (Gv 10,27-29). In tantissime ricorrenze bibliche la
mano indica “potenza”, “forza”, “autorità” (si pensi alla “mano forte” con cui
Dio liberò i figli d’Israele dall’Egitto: Es 3,19-20). Nel IV vangelo la mano
diviene il simbolo dell’amore dato e ricevuto, della relazione per cui il Padre
ama il Figlio (“Il Padre ama il Figlio e ha rimesso tutto nelle sue mani”: Gv
3,35) e il Figlio “sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani” (Gv
13,3), compie il gesto dell’amore radicale, simbolo del dono della sua vita per
i discepoli amandoli “fino alla fine” (Gv 13,1). E compie, lui il Signore e il
Maestro, il gesto dello schiavo abbassandosi per lavare con le sue mani i piedi
dei suoi discepoli, anche di chi si era fatto suo nemico. La mano aperta del
Padre che ha donato tutto al Figlio diviene la mano aperta del Figlio che tutto
riceve dal Padre e tutto custodisce e protegge, come vero e buon pastore. E
diventa anche la mano che il Figlio mostra, quale Crocifisso Risorto, a
Tommaso, pecora che si era distaccata dal gregge, affinché riconosca al tempo
stesso l’amore del Padre e del Figlio (“Mio Signore e mio Dio”: Gv 20,28). E,
chiedendogli di stendere, a sua volta, la sua mano, Gesù chiede a Tommaso di
entrare nel mistero dell’amore manifestato dalla mano trafitta. Davvero, il
buon pastore è colui che dona la vita per le sue pecore e proprio in questa
donazione e perdita di sé egli, donando l’amore, custodisce le sue pecore
nell’amore.
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