- di Luigi Berzano*
È possibile identificare oggi il mondo dei cattolici, dopo le grandi trasformazioni sociali e culturali che sono avvenute? A rendere difficile tale domanda è quanto è avvenuto dopo gli anni del ’68: la laicizzazione della società, la secolarizzazione degli stili di vita, la rivendicazione sui diritti civili, l’autonomia in campo politico. Sono tali trasformazioni ad aver scomposto e differenziato anche i cattolici. Difficile quindi dichiarare che la Chiesa cattolica da maggioranza stia diventando minoranza. Nella società civile, nella scuola, nei quartieri, nella politica, nell’amministrazione, nella cultura i cattolici possono ormai essere su posizioni diverse in quanto cittadini. E anche quando pensano di agire come cattolici non si tratta più di unanimità imposta dal Magistero.
La
constatazione è che non esiste più una unanimità cattolica, anche quando
qualcuno pensa di agire in quanto cattolico: «Ciò è un bene, nella stessa
misura in cui è stata un male l’ingannevole, irreligiosa unità dei cattolici
predicata e imposta prima del Concilio. In questo vortice, se così si può dire,
ne sono irretiti anche i “sacri pastori”, le cui opinioni a livello europeo se
non proprio italiano in materie politiche e sociali, dimostrano che neppure
essi possono ancora rappresentare una risposta cattolica a una sfida che
interpella gli uomini, non i cattolici» (P. De Benedetti, Humanitas 8-9 (1976), p. 655,
citato da F. Capretti).
Su
questi temi sono i mass-media e le dichiarazioni di opinion leaders a creare
gli immaginari collettivi del pessimismo o dell’ottimismo. Si considerino il
caso francese e quello italiano relativamente ai cattolici. Nel 2024 la Francia
pare riscoprirsi più cristiana di quella degli ultimi anni: moltiplicazione dei
catecumeni e dei battesimi di adulti, con un aumento del 31% rispetto all’anno
precedente. Crescita percentuale di catecumeni ex musulmani pronti a
convertirsi, nonostante il clima poco favorevole a queste traiettorie di fede
nelle famiglie e comunità islamiche. Molti ambienti culturali, universitari,
professionali conoscono un ripensamento della fede. Anche la stampa della
gauche francese ha parlato di questa “schiarita per la Chiesa” e del ritorno
della spiritualità fra i giovani adulti. Quale la ragione di questa nuova e
inattesa attenzione alla religione? Molti l’hanno indicata nella povertà delle
società secolari nell’offrire idee forti per dire ai giovani cosa fanno in
questo mondo e dove stanno andando.
In
Italia, al contrario, cresce nel mondo cattolico una lettura della Chiesa come
se fosse ormai destinata a diventare una tra le varie minoranze religiose,
nonostante che tale atteggiamento contrasti in primo luogo con i rapporti
privilegiati che la Chiesa cattolica intrattiene ancora con la società civile:
il Concordato con lo Stato italiano, l’Otto per mille, l’insegnamento della
religione nelle scuole di ogni ordine, i cappellani presso le istituzioni
militari e sanitarie, le scuole private cattoliche.
Ovviamente
le ragioni di questo declino verso la condizione di minoranza sarebbero di
altro genere e riguarderebbero la disaffezione crescente dei fedeli alle
celebrazioni, la caduta della domenica quale giorno festivo, il venir meno
delle vocazioni, la chiusura dei seminari, delle case religiose e dei
monasteri, la diminuzione dei volontari nelle attività parrocchiali.
Rimane
ancora forte la dimensione religiosa nei riti di passaggio, ma questi
rappresenterebbero soltanto più una parentesi insignificante, una “provincia
finita di significato” – come dicono i sociologi – un universo a parte,
totalmente esterno ai criteri ordinativi della Chiesa e della sua
teologia.
Si
pone qui la domanda sull’opportunità di definire questa situazione della Chiesa
cattolica in Italia quale condizione di minoranza. Questa idea della Chiesa di
minoranza, pur con la responsabilità di testimoniare ancora i propri valori e
stili di vita nello spazio pubblico, accentua oggi le discussioni all’interno
della Chiesa e rivela tensioni a tutti i livelli dell’istituzione. Tali
tensioni, durante il periodo della pandemia Covid-19, si erano già manifestate,
mettendo in luce opposte valutazioni non solo tra i fedeli, ma anche
all’interno dell’episcopato. Oggi però si può rilevare una linea di divisione
più forte tra chi si sforza di pensare che la fede cristiana si vive negli
spazi pubblici in forme laiche e secolari – come richiede la società civile – e
chi invece ritiene che la Chiesa non possa accettare questa situazione e debba
interpretare la questione in termini di autodifesa e riconquista.
Questa
divisione in merito all’accettazione o al rifiuto della condizione di laicità
come dato insormontabile del cristianesimo contemporaneo costituisce una linea
di demarcazione che va oltre la contrapposizione tra cattolici conservatori e
cattolici progressisti, ovvero tra cattolici di «apertura» e cattolici di
«identità» – distinzione che inevitabilmente riduce il divario in questione a
categorie di classificazione politica, con una «destra» e una «sinistra». In
realtà c’è qualcosa di più in questa contrapposizione, non solo ideologica, ma
teologica. La ragione del dissidio è il confronto tra una visione che associa
la vitalità della Chiesa alla sua influenza geografica, culturale e politica
sulla società, e la visione «diasporica», propria della fede cristiana, che
accetta di essere in mezzo agli altri nella società civile, come scrive Michel
de Certeau in La debolezza del credere.
La definizione di de Certeau della Chiesa che accetta di essere «tra gli altri» in una società che a essa non si rivolge più, non significa, però, che la Chiesa non abbia più nulla da dire. Questa «conversione dello sguardo» su se stessa e sul proprio ruolo implica però una rivisitazione della teologia. La separazione tra Chiesa e Stato, tra sfera spirituale e sfera secolare della vita è sempre stata presente nella cultura cristiana, a differenza di altri contesti, quale quello teocratico dell’Islam. Per tale ragione i Paesi cristiani non conoscono i danni provocati anche oggi dalle teocrazie.
È
questa singolarità evangelica dei cristiani disseminati nella società civile
che può produrre in alcuni la sensazione di essere minoranza nella vita
pubblica, insignificanti, uguali e diversi tra “gli altri”, cioè in diaspora
(dià-spora). Non così pensavano i cristiani dei primi secoli descritti nella
Lettera a Diogneto i quali, pur dispersi nel mondo pagano, dicevano: «Come
l’anima è per il corpo, così i cristiani sono per la società». In Occidente le
società si organizzano secondo i principi della laicità dello spazio pubblico,
del pluralismo dei valori e degli stili di vita. Vi sono coinvolte pure le
religioni, in tutte le loro forme collettive e individuali. Può succedere così
che in tale condizione i cristiani appaiano minoranze attive, pur essendo la
maggioranza della popolazione.
Oggi,
con il Sinodo e il Giubileo la Chiesa sta cercando la propria strada. Molti la
definiscono una svolta spirituale per ritrovare la singolarità
evangelica della Chiesa, privata della sua influenza politica e del potere
sociale. Centrali in ogni svolta spirituale sono il linguaggio e
le piccole comunità che la compongono.
Forse,
il problema del linguaggio, essenziale per la sopravvivenza del cristianesimo,
va risolto più indietro, a livello dell’ecclesiologia. Di che cosa possono
parlare le comunità cristiane al cospetto di Dio? E sono cristiane di qualsiasi
cosa parlino? E quando parlano, hanno già ascoltato? O sono invece prigioniere
di una cultura che le costringe ad ascoltare solo se stesse? Anche queste
domande impongono di imparare a parlare e ancor prima a tacere ascoltando le
voci del mondo, perché la Chiesa non è altra cosa dal mondo e quando essa pensa
di essere altra cosa è semplicemente il mondo di ieri.
Nelle comunità
di riconoscimento troveranno risposta i bisogni di appartenere a una
Chiesa accogliente, affidabile, credibile, come erano un tempo le piccole
comunità parrocchiali. Questa è la riscoperta, dopo il concilio Vaticano II,
della Chiesa comunità in cui si è riconosciuti e “a casa”. Questa comunità in
cui ci si «sente bene» è quella che accoglie il più radicale bisogno dell’epoca
contemporanea: il bisogno di riconoscimento. Un bisogno ricco, complesso, a
volte contraddittorio poiché nel suo significato e nell’uso nella vita
quotidiana indica una reciproca dipendenza dall’apprezzamento e dalla
considerazione da parte di un altro e dei rispettivi altri (A. Honneth,
2018).
Bisogno
di riconoscimento fino alla forma dell’amore di cui scrive il teologo
greco ortodosso Christos Yannaras leggendo il Cantico dei cantici.
Riconoscimento come amore che trasforma e trasfigura tutto ciò che il giorno
prima non aveva sapore, colore, profumo. È l’amore tensione vitale verso
l’infinito. «Se esci dal tuo Io, sia pure per gli occhi belli di una zingara,
sai cosa domandi a Dio e perché corri dietro a Lui». Poiché in ogni amore
genuino c’è lo slancio verso l’Amore infinito, totale, assoluto.
È
per questo che l’amore è grazia ed è definizione di Dio (G. Ravasi).
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