sabato 24 maggio 2025

IL RISCHIO DELL'ANTISEMITISMO


 L’antisemitismo, minaccia per la civiltà o fantasma evocato dai suoi nemici?





Giuseppe Savagnone 

Un omicidio antisemita?

«Orrore antisemita» («Corriere della Sera»); «Usa, attacco antisemita» («Repubblica»); «L’antisemitismo dell’Occidente» («L’Opinione»): «Il salto di qualità dell’antisemitismo» («Il Riformista»). All’indomani dell’atroce assassinio dei due giovani funzionari dell’ambasciata israeliana a Washington – da parte di un uomo che ha gridato «Palestina libera!» – i titoli di prima pagina dei quotidiani italiani non mostrano dubbi: siamo davanti a quello che il nostro presidente del Senato, La Russa, ha definito pochi giorni fa «il dilagare dell’antisemitismo.

Su questa linea anche la dichiarazione del nostro ministro degli Esteri, Tajani: «Sono vicino allo Stato d’Israele per il tragico assassinio di due giovani dipendenti dell’ambasciata israeliana a Washington. L’antisemitismo figlio dell’odio contro gli ebrei va fermato, gli orrori del passato non possono più tornare».

Da parte sua, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha scritto: «Questi orribili omicidi, basati ovviamente sull’antisemitismo, devono finire, ora!». Trump del resto già da tempo attacca e boicotta le più importanti università americane – ultima la più antica e prestigiosa, Harvard, a cui ha addirittura vietato di accettare studenti stranieri – accusandole di avere favorito o almeno permesso le manifestazioni favorevoli alla Palestina e contrarie al governo Netanyahu, a suo avviso chiaramente antisemite.

Le accuse di Netanyahu ai governi occidentali

È questa, del resto, la tesi dello stesso Netanyahu, che ha parlato della tragedia di Washinton come di «uno spregevole assassinio antisemita» e ha accusato di esserne responsabili i governi di Francia, Regno Unito e Canada, che nei giorni scorsi, in una dichiarazione congiunta, hanno chiesto a Israele «di fermare le sue operazioni militari a Gaza e autorizzare immediatamente l’ingresso di aiuti umanitari», in base al principio che «Negare assistenza umanitaria essenziale ai civili è inaccettabile».

«L’attentato di Washington è frutto della selvaggia istigazione contro Israele», ha affermato il premier israeliano. Ancor più diretto il ministro degli Esteri, Gideon Sa’ar: «È il risultato dell’incitamento tossico contro Israele e gli ebrei in tutto il mondo: istigazione praticata anche da leader di molti Paesi, soprattutto europei. Ecco cosa succede quando i leader del mondo si arrendono alla propaganda terroristica palestinese e la servono».

In realtà, oltre a chiedere di fermare la campagna militare israeliana a Gaza e a condannare il blocco degli aiuti umanitari, nei giorni scorsi, il Regno Unito aveva anche adottato sanzioni concrete, congelando i negoziati per un accordo di libero scambio con Israele.

Anche l’Unione europea, su proposta di 17 paesi membri – tra cui tutti quelli occidentali, con l’eccezione di Italia, Germania e Austria – aveva deciso di sospendere l’attuazione del trattato di cooperazione con lo Stato ebraico firmato nel 2000, in base all’art.2, che vincola i rapporti bilaterali al rispetto dei diritti umani e dei principi democratici.

La risposta del governo israeliano è stata immediata: nella visione del ministero degli esteri, Londra è mossa da «un’ossessione antisraeliana» e da «calcoli politici interni». Quanto alla dichiarazione di Francia, Regno Unito e Canada, in risposta Netanyahu ha ribadito che Israele proseguirà le operazioni militari «fino alla vittoria totale» e ha accusato i leader di Parigi, Londra e Ottawa di «premiare l’attacco genocida del 7 ottobre contro Israele»

Il premier israeliano ha inoltre invitato i leader europei ad adottare la «visione» – proposta dal presidente americano Trump e ormai assunta ufficialmente dal governo di Tel Aviv – secondo cui la soluzione della guerra può essere solo il trasferimento “volontario” dei due milioni di palestinesi che abitano la Striscia in altri paesi (non meglio precisati), dove sicuramente potranno vivere meglio.

Opporsi a questa linea politica – è questa la tesi di Netanyahu- è una chiara dimostrazione di cedimento al clima di antisemitismo, secondo lui, sempre crescente. È la stessa logica che abbiamo visto presente nei titoli giornalistici e nelle dichiarazioni ufficiali: difendere i palestinesi è una forma, più o meno mascherata di antisemitismo.

Questo a prescindere dal modo in cui la difesa viene fatta. È evidente che ce ne sono di tragicamente distorte, come l’assassinio dei due poveri giovani dell’ambasciata israeliana. Ma anche le critiche più pacate, in quest’ottica, farebbero il gioco di chi odia gli ebrei e vuole distruggerli, perché avallerebbero la strage del 7 ottobre e preparerebbero il terreno ad ulteriori atti di violenza, come quello di Washington.

Per non essere antisemiti

Sembra proprio, a questo punto, che l’unico modo per opporsi a quella minaccia alla civiltà che certamente è l’antisemitismo sia  avallare senza riserve la guerra di Netanyahu.

Di cui, però, anche una fonte informata e autorevole, sicuramente non sospetta di essere antisemita, il quotidiano israeliano «Haaretz», ha scritto pochi giorni fa: «Non è più una guerra, ma un assalto sfrenato ai civili. In assenza di veri obiettivi militari, Israele sta conducendo un’offensiva sconsiderata contro coloro che non sono in alcun modo coinvolti nella lotta (…). Ciò che accade non è guerra, ma attacco sfrenato contro persone che non sono coinvolte in questa guerra».

E accettare per buone le affermazioni del governo di Tel Aviv secondo cui, invece, ad essere colpiti sono solo obiettivi militari, con inevitabili danni collaterali ai civili. La distruzione sistematica di abitazioni civili, moschee, chiese, scuole e, soprattutto, ospedali – in aperta violazione del diritto internazionale – sarebbe motivata dalla presenza in essi di centri di comando di Hamas.

L’ONU e tutte le associazioni umanitarie smentiscono unanimemente questa affermazione, facendo notare che Israele ha sempre rifiutato e continua a rifiutare indagini indipendenti che confermino la sua tesi, anzi impedisce ai giornalisti e agli osservatori di entrare a Gaza.

Per non dire che, quando è stato possibile, per un puro caso, avere delle prove del reale andamento delle cose, la versione israeliana è stata platealmente smentita. È il caso del massacro, il 23 marzo scorso, dei quindici operatori sanitari della Mezzaluna Rossa uccisi dall’esercito israeliano mentre si recavano a portare aiuto alla popolazione di Rafah.

Il governo di Tel Aviv aveva parlato di un errore, causato dal fatto che sia i veicoli che gli operatori non avevano segni di riconoscimento. Un video pubblicato dal New York Times ha mostrato invece, senza ombra di dubbio, che durante l’attacco le ambulanze avevano i lampeggianti in funzione e dall’autopsia dei corpi è risultato che i sanitari erano stati giustiziati, dopo essere scesi dalle ambulanze, da colpi a bruciapelo al capo e al petto.  

Su tutto questo – che ha comportato la desertificazione dell’ambiente, 50.000 morti, in maggioranza donne e bambini, più di 100.000 feriti – dall’inizio della guerra, diciotto mesi fa, i paesi occidentali non avevano mai espresso una decisa condanna, non andando oltre qualche raccomandazione al governo di Tel Aviv, perché rispettasse i diritti umani, ma continuando a fornirgli sostegno militare, politico ed economico .

A determinare una svolta sono stati due fattori. Il primo, più a monte, la rottura unilaterale da parte di Israele, a metà marzo, della tregua fatta con Hamas. A quel punto è stato chiaro che lo Stato ebraico non era disposto a passare alla seconda fase, che implicava il suo ritiro dai territori occupati e la realizzazione di una pace stabile. Come del resto ha recentemente confermato Netanyahu, dichiarando ufficialmente che Israele intende occupare a tempo indeterminato l’intera Striscia di Gaza, in accordo con l’idea del presidente americano Trump di trasferire altrove gli attuali abitanti.  

Ma il fattore più immediato del cambiamento di atteggiamento da parte dei paesi occidentali (esclusi gli Stati Uniti, l’Italia e la Germania) è stata la decisione del governo di Tel Aviv di chiudere gli accesi a Gaza, impedendo l’ingesso dei viveri, dell’acqua e dei medicinali indispensabili alla popolazione per sopravvivere.

Il blocco, in realtà era stato ampiamente praticato anche prima, ma il premier israeliano l’aveva sempre ufficialmente negato. Probabilmente incoraggiato dalla netta presa di posizione di Trump, che sembrava dargli carta bianca, non ha più avuto alcuna riserva nel presentarlo come una misura ufficiale, forse sottovalutando il fatto che usare la fame dei civili come arma è in assoluto contrasto con il diritto internazionale e i più elementari diritti umani.

A questo punto quasi tutti i governi democratici non hanno più potuto tacere e – dopo più di un anno e mezzo – sono dovuti diventare “antisemiti”.

L’ombra dell’Olocausto

Ma in questo modo non si rischia di tornare, come teme il nostro ministro Tajani (che infatti, accogliendo l’invito del governo israeliano, in questo anno e mezzo non ha mai votato a favore delle risoluzioni dell’ONU per il cessate il fuoco e ora si è dissociato dalla decisione dei 17 paesi europei di congelare gli accordi con Israele), a quegli «orrori del passato» che nell’immaginario collettivo sono associati all’Olocausto perpetrato dai nazisti? Non si fa il gioco di quell’estrema destra che ha la sua punta di diamante nel partito neonazista tedesco Alternative für Deutschland?

Per quanto sorprendente (e rigorosamente assente sulla stragrande maggioranza dei mezzi d’informazione), la risposta è che ormai l’obiettivo dei neonazisti e in genere della destra non sono gli ebrei, come all’inizio del secolo scorso, ma i musulmani, e che proprio Alternative für Deutschland, come si legge in Wikipedia, «sostiene apertamente lo Stato d’Israele», proprio in rapporto alla sua lotta contro i palestinesi.

E del resto già nel 2017 la vice-segretaria dell’AfD von Storchin una intervista su «The Jerusalem Report» esponeva la posizione filo-israeliana del suo partito, confrontando il nazionalismo tedesco all’ideologia sionista di Israele. E nel «Post» del 30 ottobre 2023 si leggeva che «i politici di estrema destra di Alternative für Deutschland (AfD) hanno più volte dichiarato sostegno a Israele e si sono espressi contro l’antisemitismo descrivendolo come un fenomeno dovuto all’immigrazione.

Ultimamente, nel marzo scorso, su iniziativa del ministro per gli Affari della Diaspora, Amichai Chikli, Israele ha invitato tra gli altri, a Gerusalemme, politici dei partiti di estrema destra europei – tra cui Jordan Bardella, leader del Ressemblement National e di esponenti di Vox -,  in occasione della Conferenza internazionale sulla lotta all’antisemitismo.

Chikli ha giustificato la decisione affermando che «l’antisemitismo è un problema crescente in Europa a causa dell’immigrazione musulmana» e che «i partiti di destra europei comprendono questa sfida e sono disposti ad adottare le misure necessarie per affrontarla».

Gli eredi più diretti di coloro che furono autori degli «orrori del passato» oggi sono sostenitori di altri «orrori», consumati nel presente dalle vittime di allora, trasformatesi in aguzzini. E che vengono giustificati proprio agitando il fantasma dell’antisemitismo, che indubbiamente rimane un pericolo, ma che rischia di diventare l’alibi dietro cui lo Stato ebraico (non gli ebrei!) rivendica il diritto di consumare, senza pudore, un nuovo Olocausto.

 www.tuttavia.eu

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