Un omicidio antisemita?
«Orrore
antisemita» («Corriere della Sera»); «Usa, attacco antisemita» («Repubblica»);
«L’antisemitismo dell’Occidente» («L’Opinione»): «Il salto di qualità
dell’antisemitismo» («Il Riformista»). All’indomani dell’atroce assassinio dei
due giovani funzionari dell’ambasciata israeliana a Washington – da parte
di un uomo che ha gridato «Palestina libera!» – i titoli di prima pagina
dei quotidiani italiani non mostrano dubbi: siamo davanti a quello che il
nostro presidente del Senato, La Russa, ha definito pochi giorni fa «il
dilagare dell’antisemitismo.
Su
questa linea anche la dichiarazione del nostro ministro degli Esteri, Tajani:
«Sono vicino allo Stato d’Israele per il tragico assassinio di due giovani
dipendenti dell’ambasciata israeliana a Washington. L’antisemitismo figlio
dell’odio contro gli ebrei va fermato, gli orrori del passato non possono più
tornare».
Da
parte sua, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha scritto: «Questi
orribili omicidi, basati ovviamente sull’antisemitismo, devono finire, ora!».
Trump del resto già da tempo attacca e boicotta le più importanti università
americane – ultima la più antica e prestigiosa, Harvard, a cui ha addirittura
vietato di accettare studenti stranieri – accusandole di avere favorito o
almeno permesso le manifestazioni favorevoli alla Palestina e contrarie al
governo Netanyahu, a suo avviso chiaramente antisemite.
Le
accuse di Netanyahu ai governi occidentali
È
questa, del resto, la tesi dello stesso Netanyahu, che ha parlato della
tragedia di Washinton come di «uno spregevole assassinio antisemita»
e ha accusato di esserne responsabili i governi di Francia, Regno Unito e
Canada, che nei giorni scorsi, in una dichiarazione congiunta, hanno
chiesto a Israele «di fermare le sue operazioni militari a Gaza e autorizzare
immediatamente l’ingresso di aiuti umanitari», in base al principio che «Negare
assistenza umanitaria essenziale ai civili è inaccettabile».
«L’attentato
di Washington è frutto della selvaggia istigazione contro Israele», ha
affermato il premier israeliano. Ancor più diretto il ministro degli Esteri,
Gideon Sa’ar: «È il risultato dell’incitamento tossico contro Israele e gli
ebrei in tutto il mondo: istigazione praticata anche da leader di molti Paesi,
soprattutto europei. Ecco cosa succede quando i leader del mondo si arrendono
alla propaganda terroristica palestinese e la servono».
In
realtà, oltre a chiedere di fermare la campagna militare israeliana a Gaza e a
condannare il blocco degli aiuti umanitari, nei giorni scorsi, il Regno Unito
aveva anche adottato sanzioni concrete, congelando i negoziati per un accordo
di libero scambio con Israele.
Anche
l’Unione europea, su proposta di 17 paesi membri – tra cui tutti quelli
occidentali, con l’eccezione di Italia, Germania e Austria – aveva deciso di
sospendere l’attuazione del trattato di cooperazione con lo Stato ebraico
firmato nel 2000, in base all’art.2, che vincola i rapporti bilaterali al
rispetto dei diritti umani e dei principi democratici.
La
risposta del governo israeliano è stata immediata: nella visione del ministero
degli esteri, Londra è mossa da «un’ossessione antisraeliana» e da «calcoli
politici interni». Quanto alla dichiarazione di Francia, Regno Unito e Canada,
in risposta Netanyahu ha ribadito che Israele proseguirà le operazioni militari
«fino alla vittoria totale» e ha accusato i leader di Parigi, Londra e Ottawa
di «premiare l’attacco genocida del 7 ottobre contro Israele»
Il
premier israeliano ha inoltre invitato i leader europei ad adottare la
«visione» – proposta dal presidente americano Trump e ormai assunta
ufficialmente dal governo di Tel Aviv – secondo cui la soluzione della guerra
può essere solo il trasferimento “volontario” dei due milioni di palestinesi
che abitano la Striscia in altri paesi (non meglio precisati), dove sicuramente
potranno vivere meglio.
Opporsi
a questa linea politica – è questa la tesi di Netanyahu- è una chiara
dimostrazione di cedimento al clima di antisemitismo, secondo lui, sempre
crescente. È la stessa logica che abbiamo visto presente nei titoli
giornalistici e nelle dichiarazioni ufficiali: difendere i palestinesi è una
forma, più o meno mascherata di antisemitismo.
Questo
a prescindere dal modo in cui la difesa viene fatta. È evidente che ce ne
sono di tragicamente distorte, come l’assassinio dei due poveri giovani
dell’ambasciata israeliana. Ma anche le critiche più pacate, in quest’ottica,
farebbero il gioco di chi odia gli ebrei e vuole distruggerli, perché
avallerebbero la strage del 7 ottobre e preparerebbero il terreno
ad ulteriori atti di violenza, come quello di Washington.
Per
non essere antisemiti
Sembra
proprio, a questo punto, che l’unico modo per opporsi a quella minaccia alla
civiltà che certamente è l’antisemitismo sia avallare senza riserve
la guerra di Netanyahu.
Di
cui, però, anche una fonte informata e autorevole, sicuramente non sospetta di
essere antisemita, il quotidiano israeliano «Haaretz», ha scritto pochi giorni
fa: «Non è più una guerra, ma un assalto sfrenato ai civili. In assenza di veri
obiettivi militari, Israele sta conducendo un’offensiva sconsiderata
contro coloro che non sono in alcun modo coinvolti nella lotta (…). Ciò che
accade non è guerra, ma attacco sfrenato contro persone che non sono coinvolte
in questa guerra».
E
accettare per buone le affermazioni del governo di Tel Aviv secondo cui,
invece, ad essere colpiti sono solo obiettivi militari, con inevitabili danni
collaterali ai civili. La distruzione sistematica di abitazioni civili,
moschee, chiese, scuole e, soprattutto, ospedali – in aperta violazione del
diritto internazionale – sarebbe motivata dalla presenza in essi di centri
di comando di Hamas.
L’ONU
e tutte le associazioni umanitarie smentiscono unanimemente questa
affermazione, facendo notare che Israele ha sempre rifiutato e continua a
rifiutare indagini indipendenti che confermino la sua tesi, anzi impedisce ai
giornalisti e agli osservatori di entrare a Gaza.
Per
non dire che, quando è stato possibile, per un puro caso, avere delle prove del
reale andamento delle cose, la versione israeliana è stata platealmente
smentita. È il caso del massacro, il 23 marzo scorso, dei quindici
operatori sanitari della Mezzaluna Rossa uccisi dall’esercito israeliano mentre
si recavano a portare aiuto alla popolazione di Rafah.
Il
governo di Tel Aviv aveva parlato di un errore, causato dal fatto che sia i
veicoli che gli operatori non avevano segni di riconoscimento. Un video
pubblicato dal New York Times ha mostrato invece, senza ombra
di dubbio, che durante l’attacco le ambulanze avevano i lampeggianti in
funzione e dall’autopsia dei corpi è risultato che i sanitari erano stati
giustiziati, dopo essere scesi dalle ambulanze, da colpi a bruciapelo al capo e
al petto.
Su
tutto questo – che ha comportato la desertificazione dell’ambiente, 50.000
morti, in maggioranza donne e bambini, più di 100.000 feriti – dall’inizio
della guerra, diciotto mesi fa, i paesi occidentali non avevano mai espresso
una decisa condanna, non andando oltre qualche raccomandazione al governo di
Tel Aviv, perché rispettasse i diritti umani, ma continuando a fornirgli
sostegno militare, politico ed economico .
A
determinare una svolta sono stati due fattori. Il primo, più a monte, la
rottura unilaterale da parte di Israele, a metà marzo, della tregua fatta con
Hamas. A quel punto è stato chiaro che lo Stato ebraico non era disposto a
passare alla seconda fase, che implicava il suo ritiro dai territori occupati e
la realizzazione di una pace stabile. Come del resto ha recentemente confermato
Netanyahu, dichiarando ufficialmente che Israele intende occupare a tempo
indeterminato l’intera Striscia di Gaza, in accordo con l’idea del presidente
americano Trump di trasferire altrove gli attuali abitanti.
Ma
il fattore più immediato del cambiamento di atteggiamento da parte dei paesi
occidentali (esclusi gli Stati Uniti, l’Italia e la Germania) è stata la
decisione del governo di Tel Aviv di chiudere gli accesi a Gaza, impedendo
l’ingesso dei viveri, dell’acqua e dei medicinali indispensabili alla
popolazione per sopravvivere.
Il
blocco, in realtà era stato ampiamente praticato anche prima, ma il premier
israeliano l’aveva sempre ufficialmente negato. Probabilmente incoraggiato
dalla netta presa di posizione di Trump, che sembrava dargli carta bianca, non
ha più avuto alcuna riserva nel presentarlo come una misura ufficiale, forse
sottovalutando il fatto che usare la fame dei civili come arma è in assoluto
contrasto con il diritto internazionale e i più elementari diritti umani.
A
questo punto quasi tutti i governi democratici non hanno più potuto tacere e –
dopo più di un anno e mezzo – sono dovuti diventare “antisemiti”.
L’ombra
dell’Olocausto
Ma
in questo modo non si rischia di tornare, come teme il nostro ministro Tajani
(che infatti, accogliendo l’invito del governo israeliano, in questo anno
e mezzo non ha mai votato a favore delle risoluzioni dell’ONU per il cessate il
fuoco e ora si è dissociato dalla decisione dei 17 paesi europei di
congelare gli accordi con Israele), a quegli «orrori del passato» che
nell’immaginario collettivo sono associati all’Olocausto perpetrato dai
nazisti? Non si fa il gioco di quell’estrema destra che ha la sua punta di
diamante nel partito neonazista tedesco Alternative für Deutschland?
Per
quanto sorprendente (e rigorosamente assente sulla stragrande maggioranza dei
mezzi d’informazione), la risposta è che ormai l’obiettivo dei neonazisti e in
genere della destra non sono gli ebrei, come all’inizio del secolo scorso, ma i
musulmani, e che proprio Alternative für Deutschland, come si legge in
Wikipedia, «sostiene apertamente lo Stato d’Israele», proprio in rapporto alla
sua lotta contro i palestinesi.
E
del resto già nel 2017 la vice-segretaria dell’AfD von Storchin una intervista
su «The Jerusalem Report» esponeva la posizione filo-israeliana del suo
partito, confrontando il nazionalismo tedesco all’ideologia sionista di
Israele. E nel «Post» del 30 ottobre 2023 si leggeva che «i politici
di estrema destra di Alternative für Deutschland (AfD) hanno più volte
dichiarato sostegno a Israele e si sono espressi contro l’antisemitismo
descrivendolo come un fenomeno dovuto all’immigrazione.
Ultimamente,
nel marzo scorso, su iniziativa del ministro per gli Affari della Diaspora,
Amichai Chikli, Israele ha invitato tra gli altri, a Gerusalemme, politici dei
partiti di estrema destra europei – tra cui Jordan Bardella, leader
del Ressemblement National e di esponenti di Vox -, in occasione della
Conferenza internazionale sulla lotta all’antisemitismo.
Chikli
ha giustificato la decisione affermando che «l’antisemitismo è un problema
crescente in Europa a causa dell’immigrazione musulmana» e che «i partiti di
destra europei comprendono questa sfida e sono disposti ad adottare le misure
necessarie per affrontarla».
Gli
eredi più diretti di coloro che furono autori degli «orrori del passato» oggi
sono sostenitori di altri «orrori», consumati nel presente dalle vittime di
allora, trasformatesi in aguzzini. E che vengono giustificati proprio agitando
il fantasma dell’antisemitismo, che indubbiamente rimane un pericolo, ma che
rischia di diventare l’alibi dietro cui lo Stato ebraico (non gli ebrei!)
rivendica il diritto di consumare, senza pudore, un nuovo Olocausto.
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