La palestra della vita
ha bisogno di maestri
Altro che didattica a distanza, le sfide del futuro sono legate all’unire: studi umanistici, scienza, internet, inglese Ma anche questioni sociali, civili, economiche
Un saggio di Dionigi Non ci si deve rassegnare a un malinteso egualitarismo che rende deboli i saperi anziché forti gli allievi.
Per questo i
professori non vanno declassati e resi burocrati
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di IVANO DIONIGI
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Magister
Magister: parola latina
emblematicamente carica di senso. Composta dal prefisso latino magis (“più”,
che indica superiorità qualitativa) e dal suffisso greco -teros (che
indica comparazione), significa il superiore, colui che sa di più e conta di
più, e che si mette a confronto e in relazione con gli altri. Figura propria
della lingua religiosa, oltre che giuridica e politica, il Magister designava
il celebrante principale, assistito dal Minister (da minus e -teros), il
celebrante in seconda, l’assistente, il servitore. Segno dei tempi: noi oggi
abbiamo sostituito il rispetto per i maestri con l’ossequio per i ministri.
Parola nobile, evocativa, emozionante, sideralmente lontana dal surrogato influencer: il
maestro di danza, di musica, di sport, di studi, di vita spirituale, di vita; i
tanti maestri senza cattedra. Rabbi, Maestro, era chiamato Gesù dagli Apostoli.
Per tanti ha deciso le sorti della vita.
«La scuola», ha sentenziato Manara Valgimigli, «la fanno i
maestri, non i ministri». Penso ai tanti maestri e alle tante maestre che
insegnano ai nostri bambini e alle nostre bambine l’arte del leggere e dello
scrivere: nelle periferie delle grandi città, negli sperduti paesi
dell’Appennino, negli ospedali al capezzale dei piccoli ricoverati. Fanno il
mestiere più bello, più importante, più misconosciuto del mondo. [...] Quale
scuola? Non certo la scuola della didattica a distanza, la prima vittima della
pandemia, posposta alle messe in piega delle parrucchiere, con i ragazzi
addomesticati e oscillanti tra il pigiama, il divano e lo smartphone, spettatori
e non protagonisti dell’apocalisse. E neppure quella prima della pandemia,
improntata alla separazione sia dei saperi sia delle classi sociali. Immagino
una scuola fulcro della formazione e stella polare del Paese.
Una scuola aperta
Una scuola aperta
ventiquattro ore: lezioni, compiti, musica, teatro, sport, otium e negotium, cella
e pulpito; perché la scuola non è né dei professori né delle famiglie, ma degli
studenti.
Una scuola dove coabitino informatica e storia dell’arte,
inglese e filosofia, scienze applicate e latino, storia delle religioni e
matematica, educazione civica ed educazione alimentare, ecologia e diritto,
italiano ed economia. Aumentare e accrescere, non diminuire e sottrarre: et
et, non aut aut deve essere la misura della scuola.
Perché ciò che potrebbe essere un’aggiunta diviene un’alternativa?
Una scuola consapevole che, di fronte alle nuove sfide
delle scienze e alla pervasività delle tecnologie digitali, può trovare negli studia
humanitatis un’alleanza naturale e necessaria. Una scuola vissuta come
forma e forza di giustizia sociale, a cominciare dai territori svantaggiati del
Sud, che prevenga dispersioni e fallimenti precoci. Il primo e vero antidoto
alla malavita. Una scuola dove gli studenti incontrino e
interroghino i responsabili della vita economica civile e
politica: scuola più scuola, questa è la vera alternanza. Una
scuola che veda nei suoi insegnanti
e studenti gli interlocutori privilegiati e i consulenti del sindaco e
del Consiglio comunale; e anche degli architetti che progettano gli edifici
scolastici.
Una scuola intesa come palestra dei fondamentali del
sapere che, al riparo da pedagogie facilitatrici, non si rassegni, per una
malintesa idea di democrazia e di egualitarismo, a rendere deboli i saperi
anziché forti gli allievi.
Affascinare
Una scuola dove i professori non siano declassati a burocrati
e umiliati a capoclasse ma riconosciuti economicamente e socialmente, per poter
professare ( profiteri) a pieno titolo l’affascinare ( delectare),
l’insegnare ( docere), il mobilitare le coscienze ( movere), come
aruspici di quella cosa tremenda e stupenda che è la vita dei giovani: che
Erasmo considerava «il bene più prezioso della città» e che noi abbiamo
degradato a “capitale umano”. Il giorno in cui il presidente del Consiglio
terrà la delega della Scuola, vorrà dire che questo Paese ha deciso di
prendersi sul serio, di avere cittadini più consapevoli e di formare una classe
dirigente più responsabile. Allora ne guadagnerà non solo il benessere
individuale ma anche il Pil. [...] Nella mia non breve esperienza di docente ho
tenuto a mente una domanda centrale e ineludibile che Montaigne formulò in modo
impareggiabile: come tutelarci dal diventare un giorno «scienziati senza
conoscenza, magistrati senza giurisdizione e comici senza commedia»?
Il monoteismo tecnologico
Detto con parole più attuali: nell’era del monoteismo
tecnologico, come formare persone egregie e non gregarie, vale a dire
intelligenze libere e capaci di porre limiti e ribellarsi a macchine più o meno
intelligenti? Circa vent’anni fa, un ministro della Repubblica intendeva
riformare la scuola e il mondo della formazione sulla base di Inglese,
Internet, Impresa: aggiornamento mercantile del non meno noto e allarmante
Inglese, Internet, Novecento. Quelle tre parole d’ordine non solo non hanno
risolto i problemi, ma si sono rivelate essere, almeno in parte, addirittura il
problema, perché adottavano unicamente le categorie dei mezzi, dello spazio,
del presente.
Ritengo che le nuove istanze e i nuovi squilibri vadano
iscritti nell’orizzonte dei fini, del tempo, dei giorni a venire, e che a tale
scopo debba essere interpellata un’altra triade, marcata anch’essa da una
triplice i: Interrogare, Intelligere, Invenire. Tre voci che
andrebbero scolpite all’ingresso delle nostre scuole, università e istituzioni
formative. Non vedo altro luogo, altra istituzione, al di fuori della scuola,
in cui i ragazzi possano attrezzarsi per interrogare, comprendere e scoprire sé
stessi e il mondo.
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