di affrancarsi
dai genitori,
ciascuno di noi
riscrive
la propria storia.
Con parole e linguaggi nuovi.
È
possibile non avere fratelli e sorelle, non avere mogli o mariti, non avere
figli, non avere amici, non avere amori. Ma è impossibile non avere avuto dei
genitori, non essere stati figli. La condizione del figlio coincide, infatti,
con la condizione della vita umana in quanto tale. È per questo che la cultura
biblica allarga il concetto di filiazione ben al di là della
consanguineità.
Questo significa che nessuno può farsi da sé, nessuno può autogenerarsi, nessuno è la causa di se stesso. È questo casomai un fantasma inconscio tipicamente perverso: desiderare di non essere figlio di nessuno, farsi da sé, autofondarsi perseguendo l’illusione impossibile di una autonomia senza debiti. Diversamente, la condizione del figlio segnala la nostra dipendenza costitutiva dall’Altro, l’impossibilità dell’autoformazione. Ogni figlio ha, infatti, una provenienza che non può governare, della quale non può essere padrone. Il suo corpo, la sua classe sociale, il luogo dove si è trovato a vivere, la sua lingua e la sua razza sono tutti attributi che gli sono imposti strutturalmente dall’Altro. Nessun figlio può decidere la sua origine, può autodeterminare la sua provenienza. In questo senso ogni figlio è costretto ad essere un erede.
Il desiderio dell’Altro
La
prima forma simbolica di eredità è rappresentata dal desiderio dei genitori. In
gioco non sono solo i geni, i beni, le rendite o i debiti che ciascuno di noi
ha ereditato, ma il desiderio dell’Altro: siamo stati figli desiderati?
Il
desiderio dei genitori è il primo marchio che definisce la nostra condizione di
figli. Secondo Lacan è ciò che traccia in modo indelebile il nostro destino.
Siamo stati attesi, amati, oppure la nostra vita è stata accolta come se fosse
un peso, un ingombro o un incidente qualunque? Tuttavia, anche l’eredità più
traumatica di quel desiderio non determina in modo inesorabile il cammino della
nostra vita. Il figlio non è mai l’effetto di una causa efficiente. Il suo
compito assomiglia piuttosto a uno sforzo di poesia: come riscrivere in modo
singolare quello che l’Altro ha scritto primordialmente sulle nostre teste
rasate? Come il figlio può trovare la propria lingua se la sua prima lingua è
stata la lingua dell’Altro? Si tratta di fare davvero come fa il poeta che
lavora sulle parole che trova già costituite nel codice del linguaggio e che
però trasfigura rendendole nuove.
Ogni
figlio è tenuto a riscrivere in modo singolare la sua provenienza. È necessario
uno sforzo, un movimento singolare di ripresa col quale ogni figlio deve poter
fare qualcosa di quello che gli altri hanno fatto di lui.
L’erede
In
questo senso esso si costituisce come un vero erede. L’eredità non consiste
nell’acquisire passivamente beni o geni, ma in un movimento in avanti, aperto
sull’avvenire, in una erranza che sospinge il figlio a trovare il suo desiderio
al di là della propria provenienza. In questo senso ogni vero erede non può che
essere eretico. Il compito del figlio-erede non è infatti quello di riprodurre
ciò che ha ricevuto, non è quello di restare legato alla sua provenienza
originaria, ma quel lo di renderla davvero nuova. È la destinazione di ogni
figlio: fare esperienza dell’erranza al fine di poter trovare il proprio
desiderio singolare. In questo senso il suo destino illumina una caratteristica
fondamentale del legame famigliare che è il solo legame a realizzarsi
pienamente proprio laddove si scioglie. È il dono di cui ha diritto ogni
figlio. Non solo quello dell’accoglienza e della cura – nella sua prima
infanzia – ma anche quello dell’abbandono e della distanza.
Lasciarli
volare
Nel tempo della loro giovinezza i figli hanno pieno diritto a essere lasciati andare via. È questo il destino dei genitori che Hegel assimilava evangelicamente alla marcescenza del seme che rende possibile il fiore e il frutto. Sostenere lo sforzo di poesia del figlio significa acconsentire innanzitutto alla sua perdita. Si tratta di un lutto particolare che anziché essere afflitto inconsolabilmente dalla perdita dell’oggetto amato può sperimentare la gioia del distacco perché solo in questo distacco la vita del figlio ha l’opportunità di realizzarsi pienamente.
Il progetto
Quando
invece i genitori hanno dei progetti sui loro figli, come diceva giustamente
Sartre, i figli hanno dei destini che non sono mai felici. Nessun figlio è in
realtà come i genitori lo attendevano nelle loro proiezioni narcisistiche. Ma
l’amore per il figlio non si realizza nonostante questa non coincidenza ma
proprio per questa non coincidenza. Non si tratta di amare il figlio in quanto
realizzazione delle nostre attese, né nonostante le abbia frustrate, ma si
tratta di amarlo nella sua divergenza, nella sua insondabile differenza, nel
suo segreto.
Ogni
figlio, ha infatti, diritto al suo segreto. Lo scoprono i bambini attraverso le
loro prime bugie: per fortuna non tutto può essere visto dai miei genitori, non
tutto può essere compreso, non tutto appartiene a loro. Il desiderio singolare
del figlio sfugge giustamente a ogni presa familiare. Inutile cercare di
catturarlo con il dialogo o con l’illusione della comprensione empatica. Il
segreto del figlio coincide con lo scarto che ogni figlio è tenuto a introdurre
rispetto alla sua provenienza. Il legame famigliare non può recintare la forza
del figlio come non può disciplinare il suo disagio e il suo smarrimento.
Se
il cammino del figlio-erede è tale, non può assomigliare a un cammino lineare,
senza cadute e senza ostacoli. Gli psicoanalisti sanno bene che sono
soprattutto i fallimenti a contribuire a dare una forma singolare alla
vita.
Il
figlio si trova nel suo cammino esposto allo splendore e alla atrocità del
mondo. Nessun genitore può garantire la felicità del figlio. Piuttosto
bisognerebbe sempre avere fede nel segreto del figlio, bisognerebbe sempre
avere fede nel suo segreto, bisognerebbe sempre avere fede nella forza
generativa della primavera.
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