mercoledì 31 agosto 2022

IL SONNO DELLA RAGIONE


 Fine dell’abbondanza, illusioni e iniquità. 

Addio al sonno della ragione

 

- di Mauro Magatti

 

«È finita l’epoca dell’abbondanza»: così ha affermato il presidente Macron, forse per preparare i suoi concittadini a un autunno e a un inverno che si annunciano complicati. Le reazioni sono state immediate: in un Paese come la Francia, con 9 milioni di poveri, una dichiarazione del genere è apparsa a molti fuori luogo. Per tanti francesi «la fine dell’abbondanza» non è iniziata oggi, ma diversi anni fa. E tuttavia la presa di posizione di Macron – politico molto vicino alla tecnocrazia internazionale – è qualcosa in più di una semplice battuta.

Fine dell’abbondanza significa, molto concretamente, l’uscita forzosa dalla lunga stagione di una crescita quantitativa pensata come illimitata, cioè senza vincoli dal punto di vista finanziario, energetico, delle risorse naturali e umane. A cui nell’immediato rischia di seguire una grandinata di cattive notizie: scarsità di energia e materie prime, inflazione a due cifre, recessione economica. La paura (giustificata) è che le difficoltà annunciate possano scatenare un’ondata di protesta e destabilizzare le democrazie. A cominciare da quella italiana. Esattamente ciò che spera Putin, che ha saputo rivoltare contro l’Occidente le sanzioni decise dopo l’invasione dell’Ucraina.

In questa situazione la risposta automatica è: più risorse pubbliche. Una soluzione che, seppur necessaria, è tuttavia insufficiente. E che però, in una campagna elettorale che guarda a mesi che si annunciano tempestosi, diventa il flauto magico suonato da tutti i leader. In fondo, nel nostro Paese l’abbondanza si è per lo più tradotta nell’ampliamento abnorme del debito pubblico e della rendita, al punto che, come ha fatto notare qualche giorno fa Alberto Brambilla, oggi «metà degli italiani vive 'a carico' di qualche altro».

Ma non esistono soluzioni facili a problemi difficili: e così, al di là delle pezze che pure occorre mettere, le difficoltà che abbiamo davanti sono un invito a cercare la via di uno sviluppo migliore rispetto a quello alle nostre spalle. Per quanto difficile, ciò è possibile a tre condizioni. In primo luogo, 'fine dell’abbondanza' significa tornare a declinare crescita economica e giustizia sociale. Una relazione che proprio l’idea di crescita infinita ha rimosso: se la torta cresce, non importa preoccuparsi troppo di come la si divide. Sappiamo, invece, che le cose sono andate diversamente: nel corso degli anni, la ricchezza si è sempre più concentrata, la quota di valore aggiunto destinato al lavoro si è ridotta a vantaggio dei profitti, gli squilibri territoriali sono aumentati.

C’è bisogno di ricomporre le divaricazioni che spaccano le nostre società, dove i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sono sempre più poveri. Con ampie quote del ceto medio che scivolano verso una condizione di precarietà. E con le nuove generazioni che stentano a mantenere le condizioni di vita dei padri. In secondo luogo, 'fine dall’abbondanza' non significa necessariamente meno, ma può anche volere dire più.

Un più diverso dal semplice aumento del Pil. In gioco vi è l’idea di 'valore', cioè la misura di ciò che è davvero in grado di accrescere il nostro ben vivere. Sono gli choc che si stanno susseguendo a imporcelo: lo sviluppo è fatto di tutte quelle dimensioni immateriali, qualitative e relazionali che abbiamo messo tra parentesi e che invece, alla fine, sono essenziali per la nostra vita, individuale e collettiva. In terzo luogo, 'fine dell’abbondanza' comporta la capacità di gestire e trasformare il forte risentimento che cresce in una società abituata ad avere tutto ed è perciò insofferente all’idea stessa di limite. Lo abbiamo visto durante la pandemia.

Le restrizioni che ci sono state imposte dal virus hanno generato un diffuso senso di responsabilità. Ma hanno anche sviluppato forti reazioni che in alcuni casi hanno rasentato la violenza. Una società più sobria ha bisogno di una pedagogia che oggi non c’è. Ecco perché è necessario che tutti coloro che hanno responsabilità pubbliche – dai politici agli imprenditori, dai manager ai docenti – evitino di cavalcare la tigre dell’odio che questa stagione inevitabilmente alimenta.

In definitiva, la 'fine dell’abbondanza' potrebbe essere il vincolo esterno per avviare quella trasformazione di cui si sente il bisogno ma che non si sa come realizzare. Riuscendo a immaginare una crescita che, senza ridursi all’aumento dei consumi privati, sia capace di rigenerare i legami sociali, di affiancare ai diritti individuali i doveri sociali, di scommettere sulla sussidiarietà intesa come responsabilità diffusa, di investire sulla generazione e sulla formazione, di portare avanti la transizione energetica sapendo della sua urgenza e dei suoi costi.

La 'fine dell’abbondanza' significa fondamentalmente risvegliarsi dal sonno della ragione che ci ha portati a credere che la crescita sia frutto di un meccanismo automatico, di un funzionamento sistemico, indipendente dalla spinta spirituale e dalla intelligenza che vengono dalle persone e dalla comunità. Nella società che abbiamo la possibilità di costruire non si tratta più semplicemente di rivendicare il proprio benessere individuale, ma di contribuire al bene comune.

 

www.avvenire.it

 

 

martedì 30 agosto 2022

COVID-19 . IL VADEMECUM 2022-23

 
Covid-19, inviato alle scuole il vademecum con le indicazioni per l'avvio dell'anno scolastico 2022/2023

Il Ministero dell’Istruzione ha inviato oggi alle scuole un vademecum con le principali indicazioni per il contrasto della diffusione del Covid-19 in ambito scolastico in vista dell'avvio dell'anno 2022/2023.

Il testo sintetizza i documenti elaborati dall'Istituto superiore di sanità nelle scorse settimane, già inviati alle scuole e ai loro dirigenti, e la normativa vigente.

Il vademecum contiene, in particolare, una sezione con le principali domande e risposte sulla gestione dei casi di positività, la didattica digitale integrata, gli alunni fragili, in risposta alle domande pervenute ad oggi dalle scuole.

Resta sempre attivo, poi, per ogni richiesta di chiarimento, il servizio di help desk amministrativo contabile, canale ufficiale di assistenza, consulenza e comunicazione fra l'Amministrazione e le Istituzioni scolastiche.


 

domenica 28 agosto 2022

IL MAESTRO e IL PERDONO

 Senza perdono dell’altro 

non c’è maestro

 

- di  Fabrizio Foschi


Far rinascere l’altro con una mano tesa anche dentro gli errori: il perdono è tipico dell’atto educativo. Anzi è proprio del vero maestro

La questione del perdono, emersa al Meeting di Rimini, contiene potenzialità ancora tutte da esplorare. Ne hanno parlato diversi relatori, ma nessuno, forse, come monsignor Paolo Pezzi, arcivescovo di Mosca. Ecco un frammento dell’intervento nell’incontro introduttivo della kermesse: “Ho consigliato a una ragazza ucraina di dire al suo giovane fratello, richiamato sotto le armi e partito giustamente per servire la Patria, di perdonare il suo ‘nemico’ per non portare con sé l’odio per tutta la vita e per non perdere l’occasione di vedere trasformato il ‘nemico’ in fratello”. Fine della citazione.

Riflessione immediata: in guerra si imbraccia il fucile non per zappare, ma per uccidere. Se uccidi un fratello, non è come se avessi ucciso un topo o un serpente. Finché uccidi dei nemici non vedi altro che ombre da eliminare; quando diventano fratelli, risuona in te il grido della carne che richiama a una unica e medesima appartenenza. L’altro non è uno sconosciuto, è della tua stessa famiglia, ha lo stesso tuo padre. Uccidersi tra fratelli è eliminare una parte di sé o ritrovare in sé le ragioni per non farlo ancora, in modo che la guerra possa avere termine.

Una simile prospettiva può non avere riscontri strategici, e infatti la guerra in Ucraina prosegue senza interruzioni di sorta. Non è nemmeno da tradurre banalmente come astratto pacifismo e arrendevolezza alla logica del più forte. Se la Patria chiama per motivi inoppugnabili, andare è un sacrosanto dovere, s’è detto. Qui si fa riferimento alla statura umana di chi, perdonando, riconosce di appartenere a un altro esercito, a un’altra Patria, a un’altra famiglia rispetto a quelle confezionate dalla logica degli Stati contrapposti.

Naturalmente il richiamo vale anche per chi ha invaso la terra altrui e che non sente se non appelli a distruggere senza guardare, chiudendo gli occhi e tappandosi gli orecchi. Il perdono ad ogni modo non è una tecnica, tantomeno un percorso di tipo psicologico per lenire il dolore. Non è un anestetico. È proprio un modo di vivere nella realtà di tutti i giorni. Dentro le circostanze positive o negative, nella buona e nella cattiva sorte. Il perdono è affermare che per vivere la mia umanità ho bisogno di riconoscermi insufficiente, bisognoso continuamente di ricevere, di essere riempito, di essere. Il perdono è tipico dell’atto educativo, quando dal piano dell’istruzione si passa a quello più comprensivo dell’educazione.

 I figli hanno bisogno di essere perdonati continuamente, proprio per ritrovare la dimensione dell’essere figli. Senza falsi cedimenti al sentimentalismo e senza confondere il perdono con il favoreggiamento. Anche gli alunni hanno bisogno di essere perdonati, cioè riconosciuti degni di essere guardati come persone o non come vasi da riempire. Il perdono è il vero esercizio del maestro, dell’adulto che insegna. Forse non è stato detto nella pedagogia tanto spesso, ma pensiamo quali armi abbia in mano l’insegnante, utili a fare esplodere l’altro fino ad annullarlo (umiliazione) o a farlo rinascere, perché ha una mano tesa di fronte a sé da afferrare per uscire dalle contraddizioni e da seguire anche dentro gli sbagli (perdono).

Nella scuola, nel rapporto con gli alunni il perdono non contempla comode mediazioni, non c’è e non ci può essere una “didattica del perdono”. Ci sono io insegnante, io adulto che perdono l’altro più giovane perché riconosco che è meno pieno di conoscenze di me (forse), ma certamente pieno come me di una sete di significato, ammettendo la quale, nel perdono reciproco, possiamo fare un tratto di strada. Magari non solo un tratto, ma tutta la strada insieme.

 

Il Sussidiario

sabato 27 agosto 2022

IN CAMMINO VERSO IL CONGRESSO NAZIONALE AIMC



CONGRESSO NAZIONALE AIMC

- Roma, 3-5 gennaio 2023 -

ASCOLTO, CONDIVISIONE, INNOVAZIONE


I documenti: 

LETTERA DELLA PRESIDENZA

CRONOGRAMMA

DOCUMENTO PRECONGRESSUALE

STATUTO ASSOCIATIVO

REGOLAMENTO RINNOVO ORGANI STATUTARI



INVITATI A NOZZE

 - 28 agosto 2022 – 22° DOMENICA TEMPO ORDINARIO – C

Essere cristiani vuol dire volere un banchetto dove ci sono i poveri, gli zoppi… cioè dove tutti entrano in fraternità finalmente festosa. Questo è l’essere cristiani. Il nome di Dio viene dopo. È meglio che non si pronunci, per ora, perché ci imbroglia, perché reintroduce un’idea creata dalle classi del potere. Solo se io amo il povero posso pensare a Dio senza sbagliare. Se non penso all’uomo, penso a Dio sbagliando. Questa è la verità che ci viene dal Vangelo.

VANGELO: Lc 14,1.7-14

VANGELO: Lc 14,1.7-14

Un sabato si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo.  7Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: 8«Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, 9e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: «Cedigli il posto!». Allora dovrai con vergogna occupare l'ultimo posto. 10Invece, quando sei invitato, va' a metterti all'ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: «Amico, vieni più avanti!». Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. 11Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato».  12Disse poi a colui che l'aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch'essi e tu abbia il contraccambio. 13Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; 14e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».

Commento di p. Ernesto Balducci

…Ci troviamo a vivere in una società dove tutto funziona con meccanismi spaventosamente selettivi. Le sperequazioni economiche hanno ripreso furiosamente ad imperversare per cui le crisi cadono gravemente sui deboli e son sopportate come pagliuzze dai potenti. E poi la selezione e diventata così intima al nostro costume che si è estesa a tutte le sfere della nostra vita per cui anche i poveri – quelli che possiamo chiamare i più deboli, gli ultimi della nostra società – hanno assimilato in gran parte la dottrina dei ricchi e ambiscono a fare quello che i ricchi stanno facendo. Ma le riserve dell’ironia divina nella storia sono tante. La maggioranza degli abitanti del pianeta è povera. Il nostro benessere non è altro che la distribuzione di un’immensa refurtiva planetaria. Ma i derubati ci sono e lo sanno. Questa potenza selettiva è così forte che ha invaso tutti i settori della nostra esperienza: perfino nelle famiglie il debole è trascurato. La competizione è così feroce che arriva perfino a travolgere luoghi tradizionali della sanità naturale. Anche nei paesini dove viveva lo spirito comunitario dei tempi antichi, si ripetono le stesse terribili ambizioni, presunzioni, sfruttamenti, violenze morali che prima erano privilegio della porzione sociale entrata nella corsa competitiva con i titoli in regola. L’assoluta diffusione di questo criterio fa paura perché ci da quasi l’impressione che l’idea di un banchetto dove i poveri seggano finalmente riscattati dalla loro emarginazione è un sogno impossibile. Io credo che la dannazione più grande di un popolo o di un uomo soddisfatto è di perdere la speranza. E gli sta bene, perché ne ha consumato gli alimenti segreti, ne ha dissipato l’olio invisibile mancando il quale la fiamma si spegne. Saranno i poveri a darci la speranza nel futuro come è nella legge della storia. Noi diciamo: nella legge della salvezza. Allora cosa significa prendere sul serio questa contraddizione che qui è, con semplicità e forza, proposta dal Signore? Intanto noi siamo salvi – e questa volta davvero la parola non ha bisogno di specificazione – in quanto accettiamo come consegna di vita la preparazione e l’anticipazione, per quanto possibile, del banchetto in cui non si invita la gente perché ci dà il contraccambio, si invitano coloro che non hanno niente da darci cioè in cui seggono al banchetto con regale dignità i poveri, gli storpi… – categorie simboliche di tutti coloro che sono emarginati –. Questa è la società che vogliamo, il banchetto che vogliamo preparare. Ecco dov’è l’alternativa vera tra il cristiano e il non cristiano. Non è cristiano chi dice: «viva Dio», «io amo Dio», «guai a chi offende Dio». Sono vissuto in un paesino dove la bestemmia era un costume. Alcuni signori avevano creato la «lega antiblasfema»: facevano bestemmiare i poveri però poi combattevano il costume. Questo ancora continua. Essere cristiani vuol dire volere un banchetto dove ci sono i poveri, gli zoppi… cioè dove tutti entrano in fraternità finalmente festosa. Questo è l’essere cristiani. Il nome di Dio viene dopo. È meglio che non si pronunci, per ora, perché ci imbroglia, perché reintroduce un’idea creata dalle classi del potere. Solo se io amo il povero posso pensare a Dio senza sbagliare. Se non penso all’uomo, penso a Dio sbagliando. Questa è la verità che ci viene dal Vangelo. Chiudo ricongiungendomi agli inizi. La verità di queste cose è antropologica prima che evangelica. Ogni uomo, se non è diventato un disperato – ma la disperazione cresce tra noi – conserva in sé la speranza che si possa arrivare al banchetto universale. Ma questo vuol dire accettarne gli strumenti. Ricordo che nella buona società fiorentina un tempo c’era il costume, per le festività, di andare negli orfanotrofi a prendere un orfanello, un escluso, per far festa, strumentalizzando il poveretto che la sera se ne tornava al suo orfanotrofio più triste di prima. Noi non vogliamo gli orfani invitati, dobbiamo usare gli strumenti politici perché non ci siano degli esclusi. Solo così la speranza è piena. Altrimenti essa è consolatoria, come lo è in molti giovani che creano meeting, incontri fra di loro ai margini della piramide e col permesso della piramide. La quale pur di sopravvivere è disposta a concedere spazi gratuiti ai suoi margini perché chi vuol vivere in festosa comunità lo faccia. Non possiamo consegnare questo tesoro della speranza che è in noi, al sistema perché se ne faccia bello. Solo quando essa passa il punto critico della soggettività e diventa progetto oggettivo, solo allora ha le dimensioni profetiche del Vangelo.

Ernesto Balducci – da: “Il Vangelo della pace” – vol 3

 

IL DOCENTE ESPERTO A SCUOLA


CONTRADDIZIONI

 e MISTERI

 

- di Silvia Ballabio

 

Il “docente esperto” giungerà nelle scuole italiane fra nove anni, nel 2032, una volta completati con successo i tre cicli triennali di formazione, e in contingenti numericamente ben definito (8mila docenti); una volta conseguita  la qualifica, il docente si vedrà riconosciuto un aumento stipendiale fisso di un certo rilievo (400 euro mensili), una novità assoluta nel mondo della scuola, unico settore lavorativo ad impiegare in modo quasi esclusivo laureati e a non prevedere alcuna differenza salariale se non quella derivante dalla solo anzianità di servizio.

La misura, inserita nel decreto Aiuti bis approvato il 4 agosto dal Consiglio dei ministri del dimissionario governo Draghi, è stata accolta con favore da chi l’ha subito identificata come l’avvio (un segnale, per i più cauti) di un orientamento meritocratico e della creazione di figure con maggiori competenze, e con disapprovazione da chi l’ha – altrettanto velocemente – bollata come una palese ingiustizia, in un panorama caratterizzato da stipendi fra i più bassi in Europa, il mancato rinnovo del contratto collettivo nazionale e la piaga storica del precariato.

Anche l’approvazione “in extremis” ha suscitato irritazione e insofferenza; dopo la revisione del processo di formazione e reclutamenti di nuovi docenti con i 60 Cfu, di cui almeno 20 di tirocinio attivo, il docente esperto è arrivato nell’ultimo atto legislativo possibile ad un governo dimissionario, senza la possibilità di un “adeguato dialogo con la realtà della scuola” (leggasi “senza ottenere il beneplacito dei sindacati in merito”).

D’altra parte anche il Dl 36 del 30 aprile 2022 (approvato dal governo come parte del Pnrr) aveva portato allo sciopero generale del 30 maggio, e anche qui la lingua batteva dove il dente doleva: il decreto ha infatti introdotto sia il requisito dei 60 Cfu, sia il superamento del concorso e relativo anno di prova per le nuove assunzioni, sia – a partire dall’anno scolastico 2023/24 – un sistema di formazione e aggiornamento permanente dei docenti di ruolo articolato in percorsi di durata almeno annuale e retribuiti una tantum. En passant si noti che entro fine luglio sarebbe dovuto uscire il decreto attuativo di questi provvedimenti, ma non ve ne è traccia ancora oggi.

La novità del docente esperto starebbe quindi, al di là delle polemiche per l’approvazione da parte di un governo dimissionario, nel rendere strutturale la premialità assicurata al docente che supererà i tre cicli di formazione, oltre che nella durata del percorso di formazione e nel limitare fortemente (8mila unità) il numero di queste figure? Non si tratterebbe pertanto di una semplice estensione di una norma già approvata, ma di qualcosa di molto diverso; non un emolumento annuale per potenzialmente tutti i docenti (purché impegnato in attività di progettazione e formazione) ma nove anni di formazioni per “pochi eletti”.

Ci si aspetterebbe che la falange degli 8mila sia investita, in forza della formazione ricevuta, dell’incarico della disseminazione, ma evidentemente il provvedimento ha voluto differenziarsi da quanto si tentò di attuare ancora in fase di “Buona Scuola” del governo Renzi nel 2014, ove la nota ministeriale dell’aprile 2014 prevedeva appunto la formazione di docenti esperti (a fronte di percorsi formativi ben più ridotti) e su varie aree progettuali, ma col preciso incarico della disseminazione, vale a dire della ricaduta a cascata per altri docenti oltre a quelli esperti delle competenze acquisite.

Nel decreto Aiuti tale atto – la disseminazione – è non solo sparita ma espressamente proibita; il docente esperto si forma per sé e non avrà alcun incarico aggiuntivo; unica analogia è il numero esiguo dei docenti previsti, uno per scuola nel 2014, e, se il progetto andasse in porto, qualcosa di simile per il nuovo docente esperto.

Siamo quindi di fronte al riciclo creativo di una vecchia idea, molto più vecchia del sistema di formazione introdotto nel decreto 36 di aprile 2022? Magari epurata di quell’aspetto di estemporaneità e brevità (almeno così sembrerebbe, visti i nove anni e le tre prove da superare) per conseguire l’agognata (ma lo sarà?) qualifica con relativo aumento salariale che caratterizzava entrambe le norme qui ricordate?

Il razionale di un provvedimento non è un aspetto secondario dello stesso, ma non è dato sapere quale esso sia stato, a meno che l’ex ministro dell’Istruzione Bianchi non approfitti della sua pausa estiva per condividere con l’opinione pubblica quali analisi, studi, considerazioni abbiano dato origine all’emersione dal passato (recente o remoto, ce lo dirà lui) del docente esperto. Sperando che non ci venga rivelato che la misura ha avuto una genesi esclusivamente politica e nel senso più deleterio del termine, cioè dettata da esigenze esterne e non sistemiche (il Pnrr e il suo bisogno di utilizzo fondi a fini migliorativi del sistema con verifica documentabile di fronte al banco di prova dell’Ue?).

Nell’attesa, penso che almeno due considerazioni siano proponibili. La prima è che il numero dei docenti è risibile rispetto alla (supposta, per il momento) esigenza di un rinnovamento sistemico; la seconda è che l’età media del docente italiano è 51 anni (circa due su tre docenti nella secondaria hanno superato i cinquanta) e nel 2032 avrebbe superato i sessant’anni. Il provvedimento si rivolge pertanto in primis a quel terzo circa del personale che sia relativamente “giovane” (si tratta comunque solo di docenti che abbiano conseguito il ruolo, una “iniziazione” che visti gli scarsi risultati dei vari concorsoni, non è avvenuta né facilmente né velocemente) e anche a coloro che conquisteranno il ruolo attraverso il nuovo e lungo percorso introdotto ad aprile 2022.

Un vantaggio per la scuola? Premiamo i giovani? Sicuramente incoraggiare i “giovani trentenni o quarantenni” (a 40 anni oggi si è sicuramente giovani se i 60 sono i nuovi 40, a detta di attrici ben curate e certamente giovanili) a entrare nel mondo della scuola è non solo auspicabile, ma necessario, pur a fronte della denatalità e del conseguente calo degli alunni e studenti. Tuttavia suscita perplessità che i docenti esperti non per formazione accademica ma periti, vale a dire ricchi di esperienza, non abbiano trovato posto nel piano del ministro uscente. L’anzianità di servizio determina già un aumento stipendiale, ma onestamente lento e risibile, e individuare forme di premialità che valorizzino le esperienze e competenze già esistenti nella scuola non è facile: qualifiche professionali aggiuntive del docente, da lui o lei acquisite a titolo personale e non all’interno di percorsi predeterminati? una generica efficacia didattica? gradimento degli studenti? dei genitori? risultati scolastici degli studenti, testati con Invalsi e anche non? capacità di gestione dei conflitti e delle difficoltà emotive? capacità di valorizzazione delle eccellenze? capacità di cooperazione  fra colleghi? inventiva? passione educativa? empatia, vale a dire intelligenza emotiva? e le conoscenze?

Hanno poi così torto i genitori che cercano il prof bravo, che a) conosce la materia, b) la sa spiegare, c) capisce i ragazzi, e se partecipa o coordina progetti lo fa centellinando le sue risorse perché sa di averne molte, ma non illimitate, e quindi sceglie con cura per i suoi allievi? Da docente ampiamente nelle media nazionale per età anagrafica, ne ho incontrati molti; se il ministro Bianchi lo gradisce posso segnalargli qualche “docente esperto”, qualcuno anche giovane.

 Il Sussidiario

 

  

giovedì 25 agosto 2022

SUICIDI ELETTORALI


- di Giuseppe Savagnone

 La rottura dei 5stelle in Sicilia

L’improvvisa decisione dei 5stelle di rompere l’alleanza che li legava al PD, in vista delle elezioni regionali siciliane (fissate per il 25 settembre insieme a quelle nazionali), è solo l’ultima di una serie di scelte politiche, fatte da diversi partiti, che stanno caratterizzando questa vigilia elettorale e che non sembra esagerato definire suicidi annunciati.

Cominciamo dall’ultimo in ordine di tempo. In Sicilia, da tempo, i pentastellati e il Partito Democratico avevano progettato di affrontare uniti la battaglia per l’elezione del presidente della regione. Una scelta imposta dalla necessità di unire le forze per far fronte alla tradizionale prevalenza della destra nell’isola, ancora accresciuta dal progressivo emergere di Fratelli d’Italia in questo ultimo scorcio di legislatura. Tanto più che i partiti di destra, dopo alcuni dissensi, si stavano compattando, trovando alla fine un accordo sul nome di Renato Schifani, ex presidente del Senato e senatore di Forza Italia.

In vista della prossima scadenza elettorale erano state organizzate addirittura delle primarie comuni, allo scopo di scegliere un candidato su cui sia 5stelle che Pd potessero convergere. Aveva prevalso Caterina Chinnici, figlia di Rocco Chinnici, già magistrato ed attualmente europarlamentare con il PD. La rottura dell’alleanza è avvenuta, appena qualche giorno fa, per volontà dei 5stelle ed è stata definita, da qualche giornale, uno «schiaffo» al PD. 

Ne vedremo fra poco la ragione. Quello che è certo è che si tratta di una scelta che rende estremamente probabile il successo della destra. Anche se la Chinnici ha dichiarato di non voler rinunciare alla candidatura, per rispetto a coloro che l’hanno votata alle primarie, è chiaro che ora la strada per lei è tutta in forte salita. Né ha migliori prospettive Nuccio Di Paola, capogruppo all’ARS dei 5stelle, sul cui nome il movimento ha ripiegato dopo la decisione di «correre da soli». Uno scontro, insomma, in cui non ci sono vincitori e vinti, ma solo perdenti.

La rottura di Letta con i 5stelle

Dicevamo delle motivazioni dello «schiaffo». Anche se Enrico Letta si è detto «esterrefatto» per il «voltafaccia» dei pentastellati, si deve proprio a lui la mossa, a livello nazionale, che ha provocato la stizzita risposta di Conte in Sicilia.

Il segretario del PD, dopo il ritiro dei 5stelle dal governo Draghi, che ne ha causato la caduta, ha dichiarato che da quel momento ogni possibilità di collaborazione tra i due partiti era irrimediabilmente esclusa. La drasticità di questa presa di posizione, da parte di un leader che aveva insistito molto, negli ultimi tempi, sulla necessità di convergere in un «campo largo», ha spinto qualche commentatore a parlare di una vera e propria fatwa, il termine usato per indicare la condanna a morte in contumacia a suo tempo emanata da Komeini nei confronti dello scrittore Salman Rushdie, ritenuto reo di sacrilegio verso la religione musulmana.

 Il sacrilegio di Conte sarebbe, in questo caso, quello di aver provocato la crisi di un governo in cui era alleato con il PD. Una “colpa” che forse, nella logica della politica, poteva essere giudicata con minore severità, soprattutto tenendo conto che la conseguenza diretta di questa rottura è la prevedibile sconfitta della sinistra, alle prossime elezioni nazionali, nella stragrande maggioranza dei 221 collegi uninominali. Insomma, un altro suicidio annunciato.

La rottura di Calenda col PD

Per la verità Letta ha cercato di restare fedele alla sua idea del «campo largo» cercando un’alleanza al centro col partito di Carlo Calenda e sembrava pure esserci riuscito. Non sarebbe stato un compenso, dal punto di vista numerico, alla perdita di quella con i 5stelle (Azione, il partito di Calenda, anche dopo essere stato potenziato, ora, dalla fusione con Italia viva di Renzi, nei sondaggi si aggira sul 5% dei consensi), ma avrebbe avuto un notevole significato politico, perché avrebbe segnato l’apertura del PD verso il centro, con la speranza di attirare gli elettori della destra diffidenti verso l’ala estrema di Fratelli d’Italia.

Anche questa prospettiva, però, è inopinatamente sfumata, appena pochi giorni dopo la firma dell’accordo, per il ripensamento di Calenda, che sembra essersi improvvisamente accorto, in ritardo, del fatto che col PD correva anche l’estrema sinistra. Da qui un’altra rottura.

Così, come ha osservato con una battuta qualcuno, il «campo largo» si è trasformato nel giro di poche settimane in un “camposanto”. Senza che peraltro Calenda, l’autore della marcia indietro, se ne sia molto avvantaggiato: ha perso la speranza di avere eletti dei suoi rappresentanti con l’appoggio dei voti del PD e non sembra avere guadagnato consensi, almeno stando agli ultimi sondaggi. Ancora un suicidio.

Un sistema elettorale che mortifica la democrazia

Ma, a proposito di suicidi, ce n’è un altro, questa volta più grave, che riguarda lo stesso sistema elettorale. Mai come in questa tornata la partecipazione democratica rischia di ridursi a uno slogan vuoto. Colpevole già il “Rosatellum”, che, per il proporzionale, esclude i voti di preferenza e prevede liste bloccate, impedendo all’elettore di scegliere il candidato che realmente preferisce.

Si vota non una persona, ma un partito. I nomi della lista risulteranno eletti nell’ordine stabilito dalla segreteria di quel partito. Ci sono, è vero, sia alla Camera che al Senato, i collegi uninominali. Là in primo piano non c’è il partito, ma la persona, con la sua identità, la sua storia, il suo maggiore o minore legame col territorio. Solo che, essendo escluso il voto disgiunto, chi vota la lista di un partito nel proporzionale non può votare per un candidato di un partito diverso nell’uninominale.

I meccanismi partitici bloccano, così, anche le possibili sorprese che potrebbero venire determinate dal “fattore umano”, là dove, sulla carta, esso dovrebbe essere decisivo. Si aggiunga a questo quadro desolante il fatto che la drastica riduzione dei parlamentari – voluta con grande determinazione dai 5stelle e da essi sbandierata come una vittoria rispetto alla logica della casta – sta avendo come effetto la quasi totale esclusione dalle candidature che contano (quelle, cioè dove c’è una speranza di successo) dei rappresentanti della società civile, a favore dei notabili dei vari partiti, che anzi hanno dovuto litigare anche fra loro per accaparrarsele. Una riforma voluta per colpire la logica della casta, l’ha invece portata alle estreme conseguenze (a proposito di suicidi…).

Il suicidio della Seconda Repubblica

Insomma, queste elezioni hanno tutta l’aria di segnare il de profundis della Seconda Repubblica e soprattutto, del sistema politico liberal-democratico che essa, con le sue contraddizioni ha portato alla decadenza, facendo ampiamente rimpiangere la Prima.

Peraltro, paradossalmente, a collaborare alla sua definitiva crisi – sostenendo un partito di estrema destra, per molti versi eterogeneo rispetto alle loro posizioni (soprattutto di Forza Italia), qual è Fratelli d’Italia – sono due personaggi come Berlusconi e Salvini, la cui storia è inscindibile da quella di questa Seconda Repubblica e che hanno l’aria di stare segando allegramente il ramo su cui sono seduti (anche questo, in fondo, è un suicidio).

L’unica che non si è suicidata è la Meloni. Anche perché, nel delineare la sua linea politica, è rimasta così vaga – a parte l’ostilità verso i migranti e la rivendicazione del presidenzialismo – da rendere difficile rendersi conto di quello che farà quando salirà al potere (l’unica cosa che di sicuro fortissimamente vuole). I consensi nei suoi confronti sono cresciuti in modo esponenziale soprattutto per i suoi “no” (in ultimo, al governo Draghi).

Vedremo solo quando governerà, quali sono i suoi “sì”. In uno dei miei recenti chiaroscuri paragonavo queste elezioni a un uovo di Pasqua. La Meloni è la sorpresa. Non sappiamo se e quanto la sua ascesa possa essere paragonata a quella del fascismo. Ma nei libri si storia c’è scritto che, ovunque esso è andato al potere, lo ha potuto fare per la debolezza e talora lo stato confusionale dei suoi avversari. Questa sì, mi sembra una sicura analogia con quanto sta accadendo oggi in Italia.

 

* Pastorale della Cultura Diocesi Palermo

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martedì 23 agosto 2022

C'ERA 'NA VOTA E C'ERA

 


C’era ‘na vota e c’era…” è l’intestazione iniziale che Antonella Marascia ha voluto dare al suo primo libro pubblicato proprio la scorsa settimana da Multiverso Edizioni ed in vendita su Amazon e nelle librerie e che sintetizza in poche parole il grande contenuto storico, culturale ed emotivo trascritto all’interno del volume. Usiamo il termine trascritto proprio perché è questo il lavoro prezioso e certosino che l’autrice mazarese ha compiuto, ovvero quello di mettere nero su bianco i “cunti” cioè le fantastiche fiabe e favole che fin da piccola le venivano narrati dalla sua famiglia.

Una Mammadraga furibonda, vecchie Magàre e giovani Principesse, Re traditi e Reginotte fatate, Rane parlanti, Corvi che rubano cuori e pettinesse, giovani Principi che sciolgono il voto dei padri e fanno il Cammino di Santiago, una figlia di Marchese che riesce a gabbare la Corte del Re e un vecchietto arzillo che sfida Lucifero con l’inconsapevole complicità di Commare Morte…

Sono queste le storie raccolte entusiasmanti e piene non solo di fantasia ma di tradizione, di storia, e di appartenenza ad un territorio magnifico ovvero quello siciliano e mazarese lì dove affondano le radici familiari di Antonella Marascia che vanno dal mare alla terra ed in particolare la Borgata Costiera da parte di padre, il fiume Màzaro da parte di madre. Il libro non ha alcun intento scientifico, non è scritto in siciliano ma nella lingua parlata da chi raccontava ed è tradotto in italiano dall’autrice che ha cercato di rendere non solo il senso dei “cunti”, ma anche la loro coloritura, le battute che le nonne usavano intercalare, la musicalità di tutte le parti in rima. E’ una raccolta di perle pescate nel fondo della memoria, riportate a galla, ripulite ed infilate ad una ad una tra pagine che attendono di essere lette ma anche raccontate e colorate.

Proprio in merito alle immagini vi è un’altra particolarità che rende ancora più prezioso e ricco il libro difatti le illustrazioni, contenute al suo interno a corredo dei racconti, sono quelle originali fatte da Alessandra Celere quando aveva appena cinque anni, mentre in merito alla magnifica copertina è opera attuale del piccolo Flavio Prestifilippo.

In merito all’autrice, Antonina (Antonella) Marascia è nata a Levanto (SP) e vive a Mazara del Vallo (TP). Segretaria comunale, formatrice, esperta di sviluppo locale. Appassionata di tradizioni popolari è cresciuta a pane e “cunti”. Con Mazara del Vallo ha un legame davvero particolare perché oltre a viverci e ad avere qui la sua famiglia, è stata per molti anni proprio il Segretario Generale del Comune in cui risiede. Attualmente invece è la segretaria/direttrice generale della Città Metropolitana di Palermo. Da sempre ha avuto una grande passione che è quella della lettura ma soprattutto della scrittura e questo è proprio il suo primo libro anche se si augura di poterne pubblicare degli altri in futuro visto che come afferma lei, da grande vorrà fare la scrittrice. Il suo motto è “viaggiare è più che vivere”.

 “C’era ‘na vota e c’era…” non è un semplice libro ma una grande opera che, custodisce saldamente dei pezzi di storia e non fa dimenticare da dove proviene ognuno di noi, conservando per bene il ricordo di storie e tradizioni che purtroppo nel tempo vanno sempre più scomparendo. Deve essere assolutamente tutelato il nostro immenso patrimonio culturale di cui anche questi “cunti” fanno parte. Non passiamo che consigliarvi l’acquisto di questo capolavoro che troverete su Amazon e nelle librerie, in particolare a Mazara lo troverete sia nella libreria “Il Colombre” che “Lettera 22” ed inoltre l’autrice ha deciso di devolvere il suo compenso al MAIS onlus (www.maisonlus.org), per il sostegno di uno specifico progetto di sviluppo e formazione.

 Roberto Marrone

lunedì 22 agosto 2022

URLARE NON SERVE A NULLA


- di Rossana Sisti

 C’è chi con pazienza intraprende la strada delle spiegazioni minuziose e chi più spiccio conta fino a tre; chi ordina perentoriamente e chi supplica; chi promette e minaccia punizioni; chi adotta l’urlata e chi dopo un’estenuante contrattazione passa alle maniere forti, uno strattone o un insulto gridato con rabbia. Farsi ascoltare dai figli non è mai stato facile per i genitori: al padre padrone bastava un’occhiata, un’alzata di sopracciglio a incenerire un’intemperanza infantile, per il resto c’erano botte e punizioni ad hoc. Oggi pochi hanno nostalgia di quell’educazione autoritaria e brutale che doveva drizzare la schiena al giovane virgulto, sebbene al genitore contemporaneo, dialogante e disponibile, morbido e protettivo verso i figli la pazienza scappi in fretta così che spesso le maniere forti tornano in auge. Urla, minacce e scapaccioni, ultima spiaggia quando il bambino s’intestardisce. Del resto sono in tanti a pensare che alzare il volume migliori la comunicazione. Ma poi cosa significa non essere ascoltati? L’educazione è questione di ascolto? Davvero si è convinti che l’obbedienza sia la prima virtù di un bambino? Domande retoriche, considerata l’ovvietà del titolo di un interessante lavoro di Daniele Novara per i tipi della Bur (pagine 288, euro 13) Urlare non serve a nulla. Pedagogista, impegnato sul fronte della gestione dei conflitti, Daniele Novara da anni anima in tante città italiane Scuole per Genitori, spazi di confronti e riflessioni in cui giovani coppie alle prese con bambini piccoli o adolescenti, spesso confuse su come interpretare il proprio ruolo, imparano ad affrontare gli inevitabili conflitti con i figli, i capricci, le opposizioni e le ribellioni, come un’occasione educativa. Questo libro, racconta il pedagogista, nasce dalle tante storie familiari raccolte in anni di consulenze e di incontri, dalle testimonianze dei disagi raccolte sui due fronti dei genitori e dei figli. Novara come sempre va al centro del problema: parte dal genitore affettuoso, confidenziale, troppo morbido, troppo servizievole e disponibile, meticoloso nei discorsi infiniti e nelle spiegazioni concettuose, quello che vuole fare al meglio ma poi si impantana nel risentimento e nelle piccole vendette o che le prova tutte per farsi obbedire… anche le sberle, magari per dimostrare al bambino che fanno male. Il genitore emotivo che in nome dell’affetto si lascia tiranneggiare dal bambino rischiando a sua volta di diventare un tiranno. «Il genitore che improvvisa o preferisce reagire istintivamente, piuttosto che stabilire regole chiare, divieti precisi e utilizzare una comunicazione ferma e decisa, adeguata alle capacità effettive del proprio figlio. La formula secondo cui più si parla, più si immagina di essere ascoltati - chiarisce Novara - è ingannevole. Fare la mossa giusta, o magari rimandarla dopo averci pensato su, vale più di tante parole. Ma anche pensare che la propria disponibilità debba essere ripagata con l’obbedienza è un equivoco serio, fonte di inutili frustrazioni che degenerano in collera, castighi e urlate. Mortificazione nei figli e sensi di colpa nei genitori. Io penso - ribadisce - che si possa fare diversamente e meglio. Senza troppe difficoltà e senza una laurea in pedagogia». Davanti a papà e mamme troppo coinvolti nel lavoro di cura, di accudimento e protezione materiale dei figli, il richiamo di Daniele Novara punta a una buona organizzazione educativa. «L’educazione è anche un fatto organizzativo. Una giusta distanza emotiva che consente a bambini e ragazzi le cose semplici di cui hanno bisogno e cioè sentirsi sicuri perché i genitori ci sono davvero, regole chiare, comunicazione sobria e insieme tutta l’autonomia possibile». Novara lo definisce "metodo maieutico", contrapposto al metodo correttivo, fatto di ordini, comandi e castighi che non vanno confusi con le regole. «I bambini vogliono diventare grandi, hanno realisticamente bisogno di imparare a vivere, di muoversi molto, di apprendere ciò che non conoscono. Come possono crescere se non fanno esperienze, se gli adulti si sostituiscono a loro, li vestono, li imboccano e li servono fino a dieci anni e anche più? Se  non permettono loro di mettersi alla prova?  Le punizioni li mortificano, quella che alcuni pedagogisti chiamano servizievolezza li soffoca e li spegne. Le buone consuetudini invece permettono ai bambini di essere tranquilli e sapere cosa possono fare, quando e come. Il genitore maieutico aiuta il figlio a imparare dalle proprie mancanze, dà fiducia e altre possibilità, accetta che possa sbagliare senza farlo sentire sempre il solito». Il solito idiota, che se ne frega, che non ascolta mai… Insomma il genitore educativo è quello che non si abbandona alla rabbia, che non si offende e non fa ritorsioni, non fa l’amicone dando quella confidenza che è pronto a ritirare violentemente alla prima occasione, non vuole trasformare o plasmare i figli a proprio piacimento. Allenarsi quando il bambino è piccolo è un investimento per quando si avrà a che fare con l’adolescente, che vorrà giustamente prendere le distanze dai genitori. E i sistemi rigidi di controllo allora faranno acqua. «Quello è il momento delle regole negoziate, chiare e di buon senso - continua il pedagogista - di strumenti organizzativi che creano un argine di protezione all’azione dei figli lasciando loro spazi di libertà. Ma evitano discussioni infinite, conflitti e rotture. Qui però devono entrare in azione i padri, e le mamme con la loro tendenza all’accudimento invasivo, fare un passo indietro, mantenendo il proprio ruolo di appoggio al gioco di squadra che fa funzionare bene le regole». È uno sforzo grande che si richiede, un  percorso a ostacoli per tutti ma per tutti occasione di evoluzione. Del resto, come sosteneva Kant, è la resistenza dell’aria e non il vuoto che consente il volo.

www.avvenire.it

 

sabato 20 agosto 2022

UNA PORTA PER ENTRARE


 -         Dal Vangelo secondo Luca

Lc 13,22-30

In quel tempo, Gesù passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme.  Un tale gli chiese: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?». Disse loro: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno. Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”. Allora comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”. Ma egli vi dichiarerà: “Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!”. Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori. Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi».

 Quella casa della gioia con la porta stretta

Padre Ermes Ronchi commenta il brano del Vangelo di domenica 21 agosto 2022

Signore, sono pochi quelli che si salvano? “Salvarsi”: parola che capisce solo chi sta affogando o chi si è perso, e di cui non si vede il fondo. Con la “parabola” di oggi, Gesù aggiunge un altro capitolo al suo racconto della salvezza, parla di una porta, di una casa sonante di festa, di gente accalcata che chiede di entrare.

Una casa, prima di tutto: una casa grande, grande quanto il mondo: verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. La salvezza è una casa che risuona di una confusione multicolore, dove sono approdate le navi del sud e le carovane d’oriente.

Quella casa sembra quasi il nodo alle trasversali del mondo, il centro di gravità della storia, l’approdo. Così ci racconta la salvezza, come una casa piena di festa, casa fatta tavola, casa fatta liturgia di volti e di occhi lucenti attorno al profumo del pane e alle coppe del vino: “entra, siediti, è in tavola la vita!”.

Per star bene, tutti noi abbiamo tutti bisogno di poche cose: un po’ pane, un po’ d’affetto, un luogo dove sentirci a casa (G. Verdi), non raminghi o esuli, non naufraghi o fuggiaschi, ma con il caldo di un fuoco, difesi da una porta che spinge un po’ più in là la notte.

La porta piccola

Una sottile angoscia ci coglie accalcati a quella porta che Tu dici stretta, disillusione che cresce quando, da stretta, diventa chiusa; quando la voce, che ho ascoltato, che mi è familiare, da dentro risponde: «Non vi conosco».

Tutta la vita a cercarti, e ora sei Tu che ci allontani?

Due immagini potenti: un angusto pertugio a sbarrare la folla che preme per entrare. Poi, oltre la soglia, una calca multicolore e multietnica: verranno da oriente e da occidente, da nord e da sud e siederanno a mensa.

Porta stretta che stranamente si apre su una festa. Stretta quindi piccola, come i bambini e i poveri, veri principi del Regno; stretta perché a misura dell’uomo nudo ed essenziale che dovremmo essere, che per passare lascia giù tutto ciò che gonfia: ruoli, portafogli, elenchi dei meriti e bagagli inutili.

Una porta larga, invece, è cercata da chi crede di avere addosso l’odo­re di Dio, un lasciapassare di incensi, riti e preghiere. Ma quando la grande porta verrà chiusa, inizierà per loro la crisi.

Voi busserete, e il Signore dirà: non so chi siete, avete false credenziali e io non vi conosco. Vantate cose che contano poco: abbiamo mangiato con te, eravamo in piazza ad ascoltarti; perché non apri? Non so di dove siete, venite da un mondo che non è il mio.

Quando è fede e quando è religione? “Fede è quando fai te sulla misura di Dio; religione è quando fai Dio a tua misura” (Turoldo).

 Il messaggio è chiaro: fatti piccolo, e la porta si farà grande. Non basta mangiare il pane che è Gesù, occorre farsi pane per gli altri. Non basta essere credenti, dobbiamo essere credibili.

Sono pochi quelli che si salvano? Gesù non risponde sul nume­ro, ma su chi. Quella porta è stretta non perché egli cerchi sforzi e sacrifici. E’ stretta per­ché piccola, a misura di bambino. Se guardi i tuoi meriti è stret­tissima e non passi; se guardi alla bontà del Signore, come un bambino che si fida del padre, la stessa porta sarà lar­ghissima.

L’epilogo della piccola parabola racconta una sala piena, dove la piccola porta stretta era sufficiente. Era stretta, ma bella: la grande sala infatti riverbera simboli di festa. Vengono da lontano come folla, ed entrano. Non sono migliori di noi, non hanno più meriti di noi. Viene sfatata l’idea della porta stretta solo per i più bravi. Tutti possono passare, per la misericordia di Dio.

Non mi illudo, la cruna dell’ago non sarà mai alla portata né dei vicini, né dei lontani. Ma Cristo non si merita, si accoglie in un mondo finalmente altro, dove Dio gioisce vedendo i figli diventare fratelli alla stessa tavola. E se lo accolgo, diventerò come lui: punto di passaggio, terra attraversata, piccola porta per la quale vita va e vita viene.

Ermes Ronchi

venerdì 19 agosto 2022

PASSIONE, CONDIVISIONE E VICINANZA

Il Papa al Meeting: condivisione e vicinanza, questo il compito dei cristiani

Messaggio di Francesco a firma del Segretario di Stato cardinale Pietro Parolin per l’apertura della 43.ma edizione della kermesse di Comunione e Liberazione, il 20 agosto, dal titolo “Una passione per l’uomo." Il testo racchiude un appello alla comunità cristiana ad alimentare l’amicizia sociale non "dando lezioni dal balcone", ma "scendendo in strada sostenuti da una speranza affidabile”

 -di Gabriella Ceraso – Città del Vaticano

 Nel centenario della nascita del fondatore di Comunione e liberazione, il Servo di Dio Luigi Giussani, rivive nell’edizione del Meeting 2022 il suo “zelo apostolico”, tutto racchiuso nelle parole da lui pronunciate nel 1985 che danno il tema di questi cinque giorni di incontri, dibattiti, spettacoli e arte sui temi della fede, sulla politica e l'attualità internazionale: “Il cristianesimo non è nato per fondare una religione, è nato come passione per l’uomo. […] L’amore all’uomo, la venerazione per l’uomo, la tenerezza per l’uomo, la stima assoluta per l’uomo”.

 Parola chiave "passione"

Eccola la parola chiave, il tema, ”la Passione per l’uomo”, che anche il Papa pone al centro della riflessione firmata dal cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin e indirizzata al vescovo di Rimini monsignor Francesco Lambiasi, e che si trasforma in un appello ai cristiani di oggi: nel clima del "tutti contro tutti" riscoprire la via dell' "l'attenzione d'amore" agli altri, della vicinanza, della ricerca del bene, quale condizione per essere pienamente noi stessi e portare frutti". "L'incontro con l'altro è essenziale".

A volte - si legge nel testo - sembra che la storia abbia voltato le spalle a questo sguardo di Cristo sull’uomo e Papa Francesco lo ha sottolineato più volte. “La fragilità dei tempi in cui viviamo” è anche “credere che non esista possibilità di riscatto, una mano che ti rialza, un abbraccio che ti salva, ti perdona, ti risolleva” ed è “anche l’aspetto più penoso dell’esperienza di tanti che hanno vissuto la solitudine durante la pandemia o che hanno dovuto abbandonare tutto per sfuggire alla violenza della guerra”.

Come il buon samaritano, come Cristo: amare ciascuno

Ecco allora che la parabola del buon samaritano è oggi più che mai una parola-chiave, in profonda assonanza con il tema del Meeting, perché da una parte mostra il bisogno che c'è in ogni uomo della "misericordia di Dio e della sua delicatezza", dall'altra incarna la “passione incondizionata per ogni fratello e sorella che si incontra lungo il cammino”, che non è  “solo generosità” ma – nella descrizione di Papa Francesco – è “riconoscere Cristo stesso in ogni fratello abbandonato o escluso”. Chi crede è chiamato ad avere lo stesso sguardo, la stessa passione di Cristo, che ha amato ciascuno senza nessuna esclusione: un “amore gratuito, senza misura e senza calcoli.” Ma – ci chiediamo – “tutto ciò non potrebbe apparire una pia intenzione, rispetto a quanto vediamo accadere oggi?”.

La strada della fraternità non è disegnata sulle nuvole

Come è possibile guardare a chi ci sta accanto come un bene da rispettare, in un mondo che oggi mette “tutti contro tutti” e dove a prevalere sono “gli egoismi e gli interessi di parte”, con la pandemia e la guerra che ci hanno portato indietro rispetto al progetto di una umanità solidale? Tenendo presente che – si legge nel messaggio – “la strada della fraternità non è disegnata sulle nuvole, ma attraversa i tanti deserti spirituali presenti nelle nostre società” e che proprio nel deserto – come diceva Benedetto XVI – “si riscopre il valore di ciò che è essenziale per vivere, Francesco indica la via: “Il nostro impegno  - si legge nel Messaggio  - non consiste esclusivamente in azioni o in programmi di promozione e assistenza” “ non un eccesso di attivismo, ma prima di tutto un’attenzione rivolta all’altro considerandolo come un’unica cosa con sé stessi. Questa attenzione d’amore è l’inizio di una vera preoccupazione per la sua persona" e del desiderio di cercare il suo bene.  "Recuperare questa consapevolezza è decisivo". È l’altro dunque, l’incontro con l’altro, - ancora una volta nelle parole di Papa Francesco - “la condizione per diventare pienamente noi stessi e portare frutto”

L'amicizia sociale, frutto del donarsi agli altri

Donarsi agli altri costruisce quell’"amicizia sociale" che il Papa raccomanda nel suo messaggio: è fraternità aperta a tutti, è “abbraccio che abbatte i muri e va incontro all’altro nella consapevolezza di quanto vale ogni singola concreta persona, in qualunque situazione si trovi. Un amore all’altro per quello che è: creatura di Dio, fatta a sua immagine e somiglianza, dunque dotata di una dignità intangibile, di cui nessuno può disporre o, peggio, abusare”.

È questa amicizia sociale che, come credenti, siamo invitati ad alimentare con la nostra testimonianza: ed è questa amicizia sociale che il Papa invita i partecipanti al Meeting a promuovere. Accorciare le distanze, abbassarsi a toccare la carne sofferente di Cristo nel popolo. “Quanto bisogno hanno gli uomini e le donne del nostro tempo di incontrare persone che non impartiscano lezioni dal balcone, ma scendano in strada per condividere la fatica quotidiana del vivere, sostenute da una speranza affidabile!”. Questo è il compito storico dei cristiani: al Meeting Francesco chiede di cogliere questo appello "continuando a collaborare con la Chiesa universale sulla strada dell’amicizia fra i popoli, dilatando nel mondo la passione per l’uomo".

 

Vatican News

 

MESSAGGIO DEL PAPA