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venerdì 30 maggio 2025

VOI SIETE MIEI TESTIMONI

 


*1 giugno 2025*

Ascensione di N.S. Gesù Cristo

Luca 24,46-53 (At 1,1-11; Eb 9,24-28; 10,19-23)

In quel tempo Gesù disse «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, 47e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. 48Di questo voi siete testimoni. 49Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto».50Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. 51Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. 52Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia 53e stavano sempre nel tempio lodando Dio.

Commento di Luciano Manicardi

Secondo il vangelo (Lc 24,46-53) l’ascensione di Cristo è accompagnata da una benedizione (Lc 24,51: “Mentre Gesù benediceva i discepoli, si staccò da loro e fu portato verso il cielo”) e secondo la prima lettura (At 1,1-11) da una promessa (At 1,11b: “Gesù verrà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”): con l’ascensione, infatti, il Signore fa dono all’umanità della sua presenza in una forma nuova (benedizione) e non abbandona i suoi, ma verrà nuovamente per incontrarli (promessa).

Testimonianza e attesa

La promessa e la benedizione dell’ascensione impegnano la chiesa nella storia a testimoniare la presenza del Risorto e ad attendere la sua venuta gloriosa. Testimonianza e attesa sono i riflessi ecclesiali e spirituali dell’evento dell’ascensione come promessa e benedizione. La seconda lettura (Eb 9,24-28; 10,19-23) ribadisce a suo modo la dimensione di benedizione del distacco di Gesù dai suoi, affermando che l’ascensione è “a loro favore” (“Cristo è entrato nel cielo per comparire al cospetto di Dio in nostro favore”: Eb 9,24). Colui che siede alla destra del Padre nei cieli, infatti, è il grande intercessore: “Egli è sempre vivo per intercedere a loro favore” (Eb 7,25).

La promessa

La lettera agli Ebrei ribadisce anche la dimensione di promessa insita nell’ascensione: “Cristo apparirà una seconda volta a coloro che l’attendono per la salvezza” (Eb 9,28). La dimensione della promessa è ben presente anche nella prospettiva in cui sono collocati i discepoli quali destinatari del dono dello Spirito santo come espresso da Luca tanto alla fine del vangelo quanto all’inizio degli Atti. Nel vangelo il Risorto dice ai discepoli: “Io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso” (promissum Patris mei: Lc 24,49); negli Atti chiede loro di “attendere l’adempimento della promessa del Padre” (promissionem Patris: At 1,4), ovvero di “essere battezzati in Spirito santo” (At 1,5). Viene così stabilito il saldo rapporto tra ascensione e pentecoste: entrambi gli eventi sono parte costitutiva dell’atto unico e indivisibile che è l’evento pasquale. Evento ricordato come sintesi del messaggio delle Scritture (“Così sta scritto: ‘Il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno’”: Lc 24,46) che estendono la loro visione anche al compito dei discepoli e alla missione della chiesa nella storia: “Nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati” (Lc 24,47). I testi liturgici ci pongono così di fronte alle Scritture che promettono e allo Spirito che è promesso. E nella lettera agli Ebrei siamo rinviati all’origine della promessa, Dio stesso. Il brano liturgico termina in 10,23 con questa esortazione: “manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso”.

Tutto questo ci dice che l’esaudimento della promessa non ne è l’esaurimento, il compimento non ne segna la consumazione o la fine, ma il suo rilancio. Colui che è venuto e che ora sale al Padre, verrà di nuovo. Il credente è rinviato all’attesa di una nuova venuta. E tra compimento della promessa e suo rilancio escatologico si inserisce il distacco, il crearsi di un’assenza. Nel Vangelo si dice che Gesù diéste ap’auton /recessit ab eis, “si distanziò”, “si distaccò” dai discepoli, si allontanò da loro, cioè da quegli uomini con cui aveva condiviso la sua vita comunitaria, la sua missione, la predicazione. Negli Atti degli Apostoli si sottolinea il sottrarsi di Gesù alla visibilità, alla vista dei suoi discepoli: “Una nube lo sottrasse ai loro occhi” (v. 9). È un concreto sottrarsi ai sensi di quegli uomini che prima, ricorda il prologo della Prima lettera di Giovanni, lo avevano visto, toccato e ascoltato, avevano mangiato e bevuto con lui, avevano condiviso tanto con lui. È la fine di qualcosa di intenso e concretissimo, di sensibile, di un rapporto spiritualmente ricco e fisicamente connotato come lo è ogni rapporto.

Un cammino

L’ascensione è ancora narrata negli Atti come un “andarsene” (At 1,10-11), un “camminare” verso un altro luogo, come uno che si incammina per una strada e a un certo punto sparisce dalla nostra vista, come uno che da un certo luogo va verso un altro luogo, distante, lontano. E quel luogo viene chiamato “cielo” sia da Atti che da Ebrei. “Cristo è entrato nel cielo stesso” dice Eb 9,24. Non si può pensare a distanza più radicale nei confronti di chi resta quaggiù sulla terra. Eppure, per il vangelo, quella distanza, quell’allontanamento, quell’andare in un altro posto da parte di colui che prima era insieme con i suoi, è benedizione: “Mentre li benediceva, si distaccò da loro” (Lc 24,51). Vi è sovrapposizione e coincidenza tra distacco e benedizione. Come se non potesse esserci benedizione senza distacco. Quel distacco è benedetto perché non è un abbandono (“Non vi lascerò orfani”: Gv 14,18; “Vado e tornerò da voi”: Gv 14,28). È una benedizione perché è un atto generativo, un atto che trasmette vita creando quel vuoto che potrà essere occupato da chi resta. È una benedizione perché sollecita la responsabilità di chi resta, che si trova chiamato a “succedere” a colui che se n’è andato. I discepoli sono generati a testimoni di colui che se n’è andato. “Di questo voi siete testimoni” (Lc 24,48); “Voi sarete miei testimoni a Gerusalemme e fino ai confini della terra” (At 1,8). I compagni di vita di Gesù si vedono trasformati dall’esodo di Gesù e dal dono dello Spirito in suoi testimoni. Come in una dinamica antropologica di crescita e di divenire, il distacco e la separazione aprono la strada a un nuovo attaccamento, alla creazione di un nuovo legame, così la partenza di Gesù situa i discepoli in una relazione radicalmente rinnovata con lui. Il suo distacco dai discepoli instaura una forma nuova di presenza e di relazione con loro.

La benedizione

E questo è esattamente il senso della benedizione. La benedizione con cui Gesù si accomiata dai suoi e con cui Luca termina il suo vangelo, rinvia il lettore all’inizio del vangelo, quando il sacerdote Zaccaria non poté concludere la liturgia al tempio perché reso muto (Lc 1,22). Egli avrebbe dovuto impartire la benedizione sacerdotale il cui testo si trova in Numeri 6,24-26: “Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace”. Queste parole venivano accompagnate da un gesto solenne: il sacerdote, al termine dell’azione liturgica, tendeva le braccia e alzava le mani sull’assemblea radunata. Sir 50,20 mostra la scena del sacerdote che “alzava le sue mani su tutta l’assemblea d’Israele, per dare con le sue labbra la benedizione del Signore”. La combinazione di gesto e parole oggettivava la realtà convogliata dalla benedizione e così il gesto esprimeva il fatto che Dio stesso poneva la sua presenza tra il popolo. In Numeri 6,27 troviamo queste parole in bocca al Signore stesso che commentano la formula della benedizione sacerdotale: “Così porranno il mio nome sui figli d’Israele e io li benedirò”. Quel gesto e quelle parole simboleggiano l’azione del Signore stesso. Porre il nome del Signore sui figli d’Israele significa confermare la relazione di appartenenza particolare del popolo al suo Dio e rivendicare alla signoria di Dio l’esistenza di tutto Israele e di ciascun figlio d’Israele. E poiché il Nome indica la presenza, la benedizione pone in relazione la presenza di Dio con il popolo. 

In Luca 24,50 Gesù compie la benedizione alzando le mani sui suoi discepoli, ma ormai non nel tempio, bensì al di fuori di ogni spazio o recinto sacro e inaugura una forma di presenza nuova con i suoi: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). La lettera agli Efesini afferma: “Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per essere pienezza di tutte le cose” (Ef 4,10). L’ascensione attesta che nessun spazio umano è sottratto alla presenza di Cristo. Meglio: ogni spazio è abitabile del Risorto. Memoria escatologica, della venuta gloriosa di Cristo, l’ascensione è in piena continuità con la sua venuta nella carne. 

Possiamo dire che l’Asceso al cielo è il Veniente ed è colui che passò tra gli uomini facendo il bene e guarendo (At 10,38). Gli Atti degli Apostoli riportano il forte richiamo rivolto ai discepoli da due uomini in bianche vesti (appartenenti, cioè, alla sfera del divino; forse vi è un riferimento a Mosè ed Elia come apparsi alla trasfigurazione: Lc 9,30): “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, verrà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo” (At 1,11). L’ascensione viene descritta come un “camminare verso il cielo” (così anche in At 1,10), usando il verbo poreúomai, “camminare”, che ha designato il cammino compiuto da Gesù nelle contrade di Galilea. Venuta escatologica e cammino quotidiano di Gesù sono in stretta continuità: per conoscere, confessare e testimoniare il Veniente non occorre guardare in cielo, ma ricordare i passi compiuti da Gesù sulla terra.

 L’umanità di Gesù attestata dai vangeli è il magistero che indica ai cristiani la via da percorrere per testimoniare colui che, asceso al cielo, non è più fisicamente presente tra i suoi e verrà nella gloria.

Ecco a cosa mirano le Scritture e lo Spirito santo: all’umanità di Gesù Cristo, all’umanità di Gesù di Nazaret quale compimento del volere di Dio.

Monastero di Bose

Immagine


sabato 11 maggio 2024

QUARANTESIMO GIORNO



- di don Giuseppe Grampa

Sono da poco trascorsi quaranta giorni dalla Pasqua.

Fino a un recente passato questo giorno quarantesimo era festivo, oggi non più, e così rischiamo di dimenticare un difficile eppur prezioso evento della vita di Gesù.

Diciamo nel Credo: “Ascese al cielo”. Perché è difficile per la nostra comprensione questo evento? Dobbiamo immaginare che Gesù, come un aquilone sfuggito alla mano di un bambino, si perda in alto tra le nubi?

Così l’hanno immaginato molti pittori, così dicono certe Guide di Terrasanta mostrando ai pellegrini l’orma lasciata dai piedi di Gesù che si staccava da terra e l’apertura circolare nella cupoletta del tempietto, via di fuga verso il cielo.

Lasciamo l’immaginazione e affidiamoci piuttosto a una parola di san Paolo che si domanda che cosa significhi che ascese e risponde: “Colui che discese è lo stesso che ascese al di sopra di tutti i cieli per essere la pienezza di tutte le cose”(Ef 4,10).

L’ascensione è solo la traccia visibile di una realtà più grande: Cristo è il vertice della storia umana e l'Ascensione è il compimento, la verità della passione e della croce. E infatti l'evangelista Giovanni per indicare la crocifissione adopera un verbo singolare: elevare, innalzare.

Gesù stesso così annuncia la sua morte imminente: "Quando sarò elevato-innalzato da terra, attirerò tutti a me"(Gv 12,32).

L'elevazione da terra sul patibolo della croce è innalzamento, glorificazione. Il patibolo è addirittura cantato come "albero bello e splendente". Una volta Gesù, sempre alludendo alla sua morte, aveva detto: “Se il chicco di grano, caduto in terra, muore, produce molto frutto" (Gv 12,24).

L'Ascensione esprime visibilmente questa certezza: solo chi dà la sua vita, chi la perde, chi si abbassa, chi scende nei solchi bui della sofferenza umana, sarà elevato, innalzato, sarà principio di salvezza. Chi discende, nella logica del condividere, del perdersi dentro, chi non teme di abbassarsi in un movimento di partecipazione con chi è al fondo; questi solo ascende ed è l'innalzato.

L'Ascensione è la risposta luminosa al più oscuro discendere. 

RS-SERVIRE

 

ANDATE E PREDICATE


 Ascensione del Signore

 




Vangelo: Marco 16,15-20

In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «15Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. 16Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato. 17Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, 18prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno». 19Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio. 20Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano.

 Commento di  Sabino Chialà

 Seguendo la cronologia lucana (At 1,3), la liturgia colloca l’ascensione del Signore al quarantesimo giorno dalla resurrezione. In questo tempo Gesù ha accompagnato i suoi discepoli nel loro non facile cammino di rielaborazione di quanto era accaduto e di ricominciamento dell’avventura comunitaria.

 Nell’ascensione quel cammino condiviso giunge a un ulteriore passaggio. Gesù è nuovamente sottratto ai suoi, anche se in forma diversa e certo meno traumatica della prima volta. Tuttavia, anche l’ascensione segna una sottrazione, come indica il verbo greco (analámbano) impiegato all’inizio e alla fine della narrazione di tale evento nel libro degli Atti degli apostoli (At 1,2.11).

 Gesù è sottratto e i discepoli sono spinti oltre, a riprendere il cammino. Questo evento segna certamente una fine e un nuovo inizio, ma soprattutto segna il passaggio a una nuova forma di presenza del Maestro con i suoi e nel mondo. Il Signore Gesù torna al Padre, ma al contempo resta presente e operante nella vita e nell’azione della sua comunità. Questa è la prospettiva da cui il brano evangelico previsto per questa domenica ci invita a guardare all’evento che celebriamo. Un brano che al racconto dell’ascensione dedica un solo versetto (v. 19), mentre dà più ampio spazio a quello che Gesù affida ai suoi prima di tornare al Padre (vv. 15-18) e a come tale missione inizia a inverarsi (v. 20).

 Andate in tutto il mondo

Nella prima parte (vv. 15-18) sono raccolte le ultime parole di Gesù secondo il vangelo di Marco (nella cosiddetta “finale lunga”, una delle aggiunte al testo originario, che terminava al v. 8). Si tratta di parole che il Maestro rivolge a un gruppo di discepoli ancora oppresso da incredulità e durezza di cuore (v. 14), e per di più ferito dalla mancanza di un fratello che li rende “Undici” (v. 14). Eppure, proprio a loro, con un’immediatezza che può stupire, Gesù affida l’annuncio del vangelo, in vista della fede: “Andate in tutto il mondo e proclamate il vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato, sarà salvato, chi non crederà sarà condannato” (vv. 15-16). Rimproverati per la loro incredulità, sono mandati a chiamare altri alla fede. Nulla di strano in questo. Anzi vi si descrive la dinamica della fede e dell’annuncio: ad essere mandati non sono dei credenti saldi e sicuri di sé, ma esseri umani chiamati a diventare essi stessi sempre più credenti, anche grazie all’annuncio che rivolgeranno ad altri. Di tale dinamica sono testimonianza eloquente i primi passi degli annunciatori così come sono narrati negli Atti degli apostoli.

 Questo ricorda che primi destinatari del vangelo sono gli stessi che lo annunciano. Potrebbe sembrare un’affermazione banale. Invece è utile perché ricorda che quel loro messaggio descrive per tutti, anche per loro, uno spazio di salvezza e uno di condanna. Non lascia indisturbati: o ci si lascia attrarre in un cammino di fede e si riceve la vita, o ci si arena in un cammino di rifiuto e ci si condanna alla morte.

I segni della fede

Vita e morte che appaiono da quelli che Marco chiama i “segni” della fede: “Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono” (v. 17). E anche qui, credenti sono da intendersi sia coloro che annunciano sia i destinatari della loro parola. Il movimento è unico, se i primi a dover diventare credenti sono gli annunciatori.

 L’Evangelista enumera segni diversi, ma accomunati da un tratto che li riassume tutti: descrivono azioni che fanno arretrare il potere del male. Non il “male”, ma il “potere del male”. In questa enumerazione, infatti, Gesù parla di liberazione dai demoni e di malattie che vengono alleviate: “scacceranno demoni” (v. 17) e “imporranno le mani ai malati e questi guariranno” (v. 18). Ma anche di un male che non è tolto; con il quale si entra in contatto, senza però riceverne danno. Non è né evitato né distrutto, ma reso innocuo: “prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno” (v. 18). Tutti questi segni rimandano alla vita e all’azione di Gesù durante la sua predicazione. Ora però sono affidati ai discepoli che, facendo spazio al vangelo, rendono ancora presente nel mondo la forza di vita del Maestro.

 Infine, segno della fede è la capacità di parlare “lingue nuove” (v. 17), che Luca descriverà come il dono dello Spirito a Pentecoste, quando gli apostoli sapranno farsi comprendere nelle lingue dell’intera terra abitata (At 2,4-11). Segno della fede è anche la capacità di una parola chiara, libera, nuova e comprensibile.

 Tutti questi segni ricordano che Gesù non manda i suoi a costituire degli adepti. Chiede invece loro di diventare e generare uomini e donne liberi, capaci di percorrere cammini di liberazione dal male. Altrimenti la loro sarà solo propaganda per uno dei tanti falsi profeti della storia. Detto in altri termini: la fede nel Risorto si rende evidente dalla libertà che essa genera, sia in chi annuncia sia in chi riceve l’annuncio.

 A questo punto, precisato il mandato, Marco descrive brevemente l’evento dell’ascensione: “Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio” (v. 19). Siamo al momento del passaggio, che inaugura il tempo nuovo della chiesa, in cui il Signore continua ad agire attraverso i suoi discepoli. La descrizione è scarna perché gli occhi del lettore non siano rapiti in cielo, ma restino sulla terra, ad osservare come la missione appena affidata agli Undici si realizza.

La missione

Essi, infatti, continua il testo nell’ultimo versetto: “Partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano” (v. 20). La descrizione di questo nuovo inizio è essenziale quanto accurata.

 La missione è affidata ai discepoli, ma è il Signore ad “agire con loro (synergéo)” e a renderla efficace. Sono essi ad annunciare la Parola, ma è il Signore a “confermarla (bebaióo)” con i segni che la accompagnano; quei segni descritti sopra come evidenza della fede. Si comprende allora la ragione per cui Gesù parla di “segni” che accompagnano coloro “che credono”: perché non di tratta di poteri magici messi nelle mani dei discepoli, ma di segni del Risorto che avvengono in loro e per loro mezzo, e che per questo presuppongono la fede.

 L’ascensione inaugura dunque un nuovo tempo di comunione, un’altra modalità di azione del Signore che non opera più alla presenza dei suoi, ma dentro di essi e attraverso di essi; e questo in forza del suo essere nel Padre e dal Padre.

Alzogliocchiversoilcielo

 

sabato 20 maggio 2023

DIO CREDE IN ME


Domenica 21 maggio 2023

- p. paolo Curtaz - Commento al Vangelo - 


 Lo Spirito illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza siete stati chiamati, ci dice san Paolo.

 Adesso, qui, ora, in questo tempo fragile, in questa epoca buia, in questa Chiesa claudicante e affannata in profonda trasformazione. Qui, nel momento in cui la paura e il vittimismo ci impediscono di guardare lontano.

A me, così come sono, il Signore rivolge questa Parola tagliente e consolante. Anche se non sono capace. O non vedo. O non ho le forze. A me, che mi sto scoprendo agapetoi, amato. E che, Dio voglia, scelgo finalmente di amare.

 Non sono capace, ovvio, non lo siamo, che scoperta. Ma è lo Spirito, il grande atteso, che illumina, rischiara, accende, scalda, scuote. È colui che rende possibile l’impossibile.

Siamo chiamati alla speranza, che è il presente del nostro futuro (San Tommaso d’Aquino). A spargere speranza, a viverla. Ad avere il cuore colmo, anche se dubitiamo, nonostante la resurrezione, nonostante le tante prove che anche noi, come gli apostoli, abbiamo visto e vediamo. Perché il Signore è con noi tutti i giorni, fino alla fine del mondo (Mt 28,20). Perché a noi, a me, il Signore affida l’annuncio del Regno.

Se ne va

Se ne va, il risorto, torna al Padre. Parte per restare, per portare nel cuore di Dio il cuore di un uomo, di ogni uomo. Compiendo un inaudito gesto di fede. Folle e profetico, grandioso e fecondo. Un gesto di fede nell’umanità, in noi, in me.

Affida ad uno sparuto gruppo di discepoli, fragili uomini e donne, l’incarico di proseguire l’annuncio, di costruire il Regno, finché egli venga.

Uomini e donne che ancora dubitano, mentre, prostrati, lo riconoscono Messia e Signore. Perché, come abbiamo visto con Tommaso, il dubbio è parte essenziale nella vita del credente, e il dubbioso, cioè il curioso, l’irrisolto, è stimolante spina nel fianco che impedisce alla Chiesa di diventare arrogante di Dio.

Ha fede in noi, il risorto. Affidandoci delle parole, le sue parole, la Parola, e quel poco che è riuscito a costruire nei suoi tre anni di vita pubblica. A noi che, invece, vorremmo fuggire, chiedere aiuto, lasciar fare a lui.  Si ribaltano le posizioni, invece.

Dio non risolve, affida. Non interviene, chiede.

Cosa c’è da festeggiare?

Si festeggia un ritorno, non una partenza. E sentiamo, dietro il sorriso di facciata, la nostalgia straziante di un addio, di uno scambio sfavorevole, di un’ingiustizia. Noi, sgomenti come i discepoli della Scrittura. Ma come? Proprio ora che avevano capito, dopo il grande spavento della croce, si ritrovano da soli?

Proprio ora che, dopo una lunga latitanza, mi sono avvicinato alla fede e ho riscoperto il gusto della preghiera, mi spostano il prete carismatico? Il confessore? Si scioglie il gruppo? Se capissimo che Dio ci tratta da adulti! Se avessimo il coraggio dell’ardire di Dio che ci fa uomini e donne, santi e profeti, sacerdoti e re! Invece di restare a traino, eterni subalterni!

Gesù ascende al cielo per essere il per-sempre-presente. Non vincolato da un corpo, non segnato dallo spazio e dal tempo. Ma presente.

Come scrive Mauriac: Dal giorno dell’ascensione noi abbiamo un Dio in agguato in ogni angolo della strada. Paradosso insostenibile del cristianesimo! Prima ci chiede di credere che il Dio invisibile si è fatto uomo. Ora ci chiede di credere che il Dio accessibile si consegna nelle fragili mani di uomini peccatori e incoerenti!

Elia il profeta

Il racconto di Luca prende ampiamente spunto dall’ascensione di Elia, una pagina molto conosciuta in Israele e punto di riferimento anche per i neoconvertiti. Troviamo il racconto dell’ascensione di Elia nel secondo libro dei Re: il grande profeta viene rapito in cielo sopra un carro di fuoco, sparisce fra le nubi e il suo discepolo, Eliseo, ha la certezza di ricevere almeno una parte dello spirito profetico, avendolo visto sparire.

Luca descrive l’evento dell’ascensione usando lo stesso paradigma: le nubi, simbolo dell’incontro con Dio (ricordate il Sinai? O il Tabor?), i due uomini che richiamano i due angeli testimoni della resurrezione, il bianco delle vesti, segno del mondo divino…

Il cuore del racconto non è, quindi, la descrizione di un prodigio, ma la descrizione di una consegna: come Eliseo riceve lo spirito della profezia da parte di Elia, così gli apostoli ricevono il mandato dell’annuncio da parte del Risorto. L’ascensione segna l’inizio del tempo della Chiesa.

 

Cielo e terra

Sono gli angeli a dare la chiave interpretativa dell’evento: non guardate il cielo, guardate in terra, guardate la concretezza dell’annuncio.

I discepoli del risorto sono chiamati ad annunciarlo, finché egli venga, a renderlo presente. La Chiesa, allora, diventa il luogo dell’incontro privilegiato col risorto, e assolve il suo compito solo quando rende presente il vangelo. Questa Chiesa, santa e scassata. Matteo ci dice come. Dubitarono. Diversamente da Luca, Matteo situa l’addio in Galilea, su di un monte. Monte che rappresenta il luogo dell’esperienza divina: solo chi l’ha incontrato può raccontarlo con credibilità.

E in Galilea: il luogo della frontiera, del meticciato, del confine, dei pagani, dei traditori ma, anche, il luogo dove tutto è iniziato, il luogo dell’incontro, dell’innamoramento.

Solo attingendo alle esperienze che ci hanno convertito possiamo annunciare con verità il Signore.

Ecco cosa significa non guardare il cielo: partire dalla povertà della mia parrocchia, dal senso di disagio che provo nel vivere in un paese rissoso e partigiano, dall’impressione di vivere alla fine di un Impero che crolla pesantemente sotto un cumulo di verbosità, nell’incertezza di un futuro segnato dalla pandemia. Ma, anche, qui e ora, un Chiesa che ha il coraggio di interrogarsi nel Sinodo. Che vuole, sul serio, ascoltare lo Spirito.

 Qui siamo chiamati a realizzare il Regno, a rendere presente la speranza. Qui, in questa Chiesa fragile, in un mondo fragile. Che Dio ama. Allora non stupisce il dubbio dei discepoli, che è il nostro. Il risorto ci rassicura: non siamo soli, egli è con noi.

È iniziato il tempo della Chiesa, fatta di uomini e donne fragili che hanno fatto esperienza di Dio e lo raccontano nella Galilea delle genti.

 Dio ha bisogno di me. Ha fede in me.

 Paolo Curtaz

lunedì 15 agosto 2022

RIAPRIRE VITA E SPERANZA

 “Zuppi: riaprire

 ora vita e speranza.

Disincanto, valori 

e scelte forti”

- Card. Matteo Zuppi *

Nel cuore del mese di agosto, in quasi tutti i paesi e le città del nostro Paese, si celebra la festa dell’assunzione di Maria al cielo.

Un mistero che ci dice qual è la nostra destinazione: ossia essere assunti con il nostro corpo risorto nel cielo di Dio.

Maria, la prima che ha creduto alla Parola del Signore, è la prima a entrare nel cielo di Dio con il suo corpo.

Questa festa è celebrata da tutti i cristiani di tutte le confessioni, ovunque nel mondo. In Occidente la chiamiamo, appunto, Assunzione.

In Oriente l’iconografia la trasmette con l’icona della "Dormizione": gli apostoli circondano in preghiera la madre di Gesù "addormentata" nel suo letto di morte (la morte dei credenti non è mai da sola, ma sempre circondata dalle presenze degli amici di Gesù).

Gesù è raffigurato sopra di lei e tiene tra le sue mani una piccola Maria - quasi "bambina". Se non diventerete come bambini non entrerete nel regno dei cieli.

Per tanti anni l’ho contemplata nel mosaico absidale della Basilica di Santa Maria in Trastevere.

Ed è bello che la prima persona che transita direttamente al cielo di Dio, anima e corpo, sia l’anziana madre di Gesù: lei che ha inaugurato la storia della nostra fede e ospitato il Figlio del nostro riscatto, entra per prima, con un corpo risorto, nella pienezza del Regno.

Il corpo risorto vuol dire che non perderemo la sensibilità umana: al contrario, essa diventerà così pura, così profonda, così fine, da renderci capaci di intercettare direttamente la sensibilità di Dio per tutto il creato e per tutte le creature, dalle più piccole alle più emozionanti che abitano l’eterna fantasia dell’amore di Dio che genera e ispira da sempre i ritmi e i riti della vita che ha creato.

E Maria è il simbolo reale del legame profondo della generazione e dell’ispirazione divina della vita con l’origine e la destinazione.

In Gesù risorto questo legame irrevocabile abita per sempre l’intimità divina da cui proviene e la condizione umana nella quale si irradia.

L’intera storia dell’uomo e quella dell’umanità, lungi dall’essere abbandonata al suo destino mortale, vi appare destinata al riscatto di ogni abbandono che la umilia, la ferisce, la perde: nell’anima e nel corpo.

La cultura moderna ci ha resi gelosi della nostra libertà di vivere: e persino di morire. Ma siamo anche diventati molto rassegnati al corto respiro del nostro modo di godere la vita.

Possiamo chiamarlo disincanto, per dare un tono molto adulto e molto razionale a questo pensiero. 

Di fatto, da quando abbiamo abbassato il cielo dei nostri desideri restringendolo all’orizzonte del nostro io, anche la terra ci sembra più avara di vere soddisfazioni e di autentici entusiasmi.

A ragione si parla di passioni tristi. Non sappiamo più stupirci del tanto che pure abbiamo e scoprire l’incanto che è ogni persona che nasconde il riflesso di Dio.

Ci affanniamo giustamente ad aggiustare la società e l’habitat per tanti individui, ma non crediamo più nella comunità e nel mondo che dovrebbero ospitare la fraternità di cui abbiamo bisogno e alla quale apparteniamo.

Dobbiamo chiederci se per caso non ci stiamo rassegnando a essere una sorta di colonia di insetti, certo, evoluti e ingegnosi.

La società che stiamo costruendo rischia di avere paura della vita e diffidare della speranza. Scopriamo di avere politiche da amministrazione di condominio, aspettative di vita giovanilistiche, distanze umilianti e in crescita: fra ricchi e poveri, uomini e donne, vecchi e bambini, mediatici e anonimi, onesti e furbi.

Nello spaesamento dell’incertezza, cresce il fascino della chiusura in spazi ristretti e orizzonti chiusi e angusti.

L’autoreferenzialità porta a ripiegarci su noi stessi e contagia le persone, i popoli e le culture, anche noi credenti: non di rado appariamo senza idee, senza parole, senza azioni che riaprano i cuori al senso della destinazione dell’esistenza nostra e del mondo.

Come Maria troviamo forza facendo nostra la visione di Dio che si fa uomo per iniziare il suo Regno di amore, che sarà di tutto il popolo.

La rassegnazione a un mondo ingiusto non è l’effetto – che ora diventa particolarmente visibile – di una certa depressione escatologica che affligge lo stesso cristianesimo?

Il mistero dell’Assunta ci ri-apre al cielo della nostra destinazione. Mercoledì scorso il Papa, riferendosi proprio alla nostra destinazione finale, ha affermato con efficacia: «Il meglio deve ancora venire».

Il cielo – che pure pensiamo pieno di santi rimane forse povero di Vita. E quindi poco attrattivo.

Gesù quando parla del Regno lo descrive come un pranzo di nozze, una festa con gli amici, il lavoro che rende perfetta la casa, le sorprese che rendono il raccolto più ricco della semina.

Tutto ciò lo iniziamo già sulla terra. Con il "sì" di Maria a divenire la madre del Figlio.

Con il nostro sì a farlo nascere e crescere in noi. Il Signore è «nato da Donna», scrive l’Apostolo.

Come ogni essere umano: certo, la sua destinazione è il grembo di Dio; ma il rispetto per la qualità spirituale del grembo che l’ha portato da Dio a noi è la discriminante della qualità umana della nostra esistenza.

La donna comunica al corpo umano la sua sensibilità spirituale, fin dal concepimento, fin dalla gestazione. La donna che diventa madre non è una donna violata, consumata, di seconda scelta.

La maternità deve apparire – ed essere trattata – come un valore aggiunto dell’autodeterminazione femminile, non come un uso e un abuso che le fa perdere valore.

La società civile, la politica e tutta la comunità cristiana debbono impegnarsi a riconoscere il prestigio della maternità e il valore che la natalità rappresenta per i nostri tempi e per il Paese di cui siamo cittadini e cittadine.

L’Assunta è Vergine e Madre, senza pregiudizio di entrambe. Il riscatto dall’attuale depressione escatologica della vita cristiana (e dell’umano che ci è comune) incomincia forse proprio da qui: da una madre che, proprio perché umile, ha saputo dire di sé: «grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente».

Il nostro Paese – il mondo – ha sempre più bisogno di grandi visioni e di uomini e donne umili che se ne lasciano appassionare e non hanno paura di donare la vita per trovarla.

*Presidente CEI

domenica 16 maggio 2021

PORTATE A TUTTI LA BUONA NOTIZIA


La missione di fare del mondo un Battesimo

 Commento al Vangelo - p. Ermes Ronchi

In quel tempo, [Gesù apparve agli Undici] e disse loro: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato. Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno». Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio (...)
Gli sono rimasti soltanto undici uomini impauriti e confusi, e un piccolo nucleo di donne, fedeli e coraggiose. Lo hanno seguito per tre anni sulle strade di Palestina, non hanno capito molto ma lo hanno amato molto, e sono venuti tutti all'appuntamento sull'ultimo colle.
Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù compie un atto di enorme, illogica fiducia in uomini e donne che dubitano ancora, affidando proprio a loro il mondo e il Vangelo. Non rimane con i suoi ancora un po' di tempo, per spiegare meglio, per chiarire meglio, ma affida loro la lieta notizia nonostante i dubbi. I dubbi nella fede sono come i poveri: li avremo sempre con noi. Gesù affida il vangelo e il mondo nuovo, sognato insieme, alla povertà di undici pescatori illetterati e non all'intelligenza dei primi della classe. Con fiducia totale, affida la verità ai dubitanti, chiama i claudicanti a camminare, gli zoppicanti a percorrere tutte le strade del mondo: è la legge del granello di senape, del pizzico di sale, della luce sul monte, del cuore acceso che può contagiare di vangelo e di nascite quanti incontra.
Andate, profumate di cielo le vite che incontrate, insegnate il mestiere di vivere, così come l'avete visto fare a me, mostrate loro il volto alto e luminoso dell'umano.
Battezzate, che significa immergete in Dio le persone, che possano essere intrise di cielo, impregnate di Dio, imbevute d'acqua viva, come uno che viene calato nel fiume, nel lago, nell'oceano e ne risale, madido d'aurora. Ecco la missione dei discepoli: fare del mondo un battesimo, un laboratorio di immersione in Dio, in quel Dio che Gesù ha raccontato come amore e libertà, come tenerezza e giustizia. Ognuno di noi riceve oggi la stessa missione degli apostoli: annunciate. Niente altro. Non dice: organizzate, occupate i posti chiave, fate grandi opere caritative, ma semplicemente: annunciate.E che cosa? Il Vangelo, la lieta notizia, il racconto della tenerezza di Dio. Non le idee più belle, non le soluzioni di tutti i problemi, non una politica o una teologia migliori: il Vangelo, la vita e la persona di Cristo, pienezza d'umano e tenerezza del Padre.

L'ascensione è come una navigazione del cuore. Gesù non è andato lontano o in alto, in qualche angolo remoto del cosmo. È disceso (asceso) nel profondo delle cose, nell'intimo del creato e delle creature, e da dentro preme come forza ascensionale verso più luminosa vita. "La nostra fede è la certezza che ogni creatura è piena della sua luminosa presenza" (Laudato si' 100), che «Cristo risorto dimora nell'intimo di ogni essere, circondandolo con il suo affetto e penetrandolo con la sua luce»

 (Letture: Atti 1, 1-11; Salmo 46; Efesini 4, 1-13; Marco 16, 15-20).

Avvenire 



sabato 23 maggio 2020

IO SONO CON VOI !


Gesù risorto 
vive in noi, 
noi siamo il suo cielo 

24 maggio 2020 - Ascensione del Signore
In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato.

Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».
(testo dell'evangeliario di Bose)

Commento al Vangelo di Enzo Bianchi
Celebriamo oggi la festa dell’Ascensione del Signore, evento narrato dal brano degli Atti degli apostoli proposto ogni anno come prima lettura: «Gesù fu elevato in alto sotto gli occhi degli apostoli e una nube lo sottrasse al loro sguardo» (At 1,9).
L’ascensione di Gesù, il suo «staccarsi dai discepoli per essere portato verso il cielo» (cf. Lc 24,51), è un altro modo per esprimere la sua resurrezione: la vittoria sulla morte di Gesù grazie all’amore da lui vissuto, la glorificazione del nostro Signore e Maestro è il suo entrare per sempre, grazie alla potenza dello Spirito santo, nella vita divina del Padre. Nello stesso tempo l’ascensione, evento inenarrabile con le parole umane, proprio mentre segna una «separazione» di Gesù dai suoi, dà inizio a una nuova forma di rapporto tra il Risorto e i discepoli; tra il Risorto e noi che, passando attraverso la testimonianza degli apostoli, siamo i suoi discepoli e dunque i suoi testimoni nel mondo.
La contemplazione di questa realtà è posta davanti ai nostri occhi anche nel testo odierno, la pagina conclusiva del vangelo secondo Matteo. Prima della sua passione e morte Gesù aveva promesso alla sua comunità: «Dopo la mia resurrezione vi precederò in Galilea» (Mt 26,32); e nell’alba di Pasqua, di fronte alla tomba vuota, l’angelo aveva confermato alle donne tale annuncio, invitandole a farsene messaggere: «Andate a dire ai suoi discepoli: È risorto e ora vi precede in Galilea; là lo vedrete» (Mt 28,7). Obbedendo puntualmente i discepoli, rimasti in Undici a causa del tradimento di Giuda, si recano in Galilea, la terra in cui aveva preso inizio il ministero pubblico di Gesù e la loro vita comune con lui (cf. Mt 4,12-22): si apprestano dunque a ricominciare, a rimettersi in altro modo alla sequela di Gesù, che sempre li precede.
Al vederlo i discepoli gli si prostrano innanzi, ripetendo il gesto delle donne (cf. Mt 28,9): non vi è nessuna parola, ma solo un atto di adorazione di fronte a Gesù ormai riconosciuto quale Kýrios, Signore vivente. «Alcuni però dubitano», hanno una fede vacillante: sono in balia di quella «poca fede» tante volte rimproverata da Gesù alla sua comunità (cf. Mt 8,26; 14,31; 16,8; 17,20), di quell’atteggiamento che così spesso si insinua anche nel nostro cuore indurito… Gesù prende allora l’iniziativa, colma la distanza che separa i discepoli da lui e dice innanzitutto: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra». L’autorevolezza con cui egli aveva vissuto la sua esistenza, frutto del suo amore pieno per il Padre e per gli uomini, dopo la sua resurrezione assume una portata universale, si estende al cielo e alla terra intera: il Signore Gesù è il «Figlio dell’uomo seduto alla destra di Dio» (Mt 26,64), è il Giudice che attendiamo come Veniente alla fine dei tempi (cf. Mt 25,31-46).
Ma nel tempo che intercorre tra la resurrezione e la venuta gloriosa del Signore, la manifestazione nella storia della sua autorevolezza dipende dalla fedeltà dei discepoli al mandato con cui egli, mettendo fede nella loro debole fede, li invia fino ai confini del mondo: «Andate e fate discepole tutte le genti, battezzandole nel Nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro a osservare ciò che vi ho comandato». E qui va detto con chiarezza: l’opera di evangelizzazione è possibile solo a condizione di essere prima evangelizzati, di essere plasmati dal Vangelo che si annuncia. La vera testimonianza si dà nella misura in cui si vive in prima persona ciò che si vuole annunciare agli altri; anzi, chi insegna ciò che non vive deve essere consapevole che così pone ostacoli alla ricezione del Vangelo e può addirittura provocarne il rifiuto da parte degli uomini!

Il vangelo secondo Matteo, che si era aperto con l’annuncio della venuta dell’Emmanuele, del Dio-con-noi (cf. Mt 1,22-23), fatto uomo in Gesù, ora si chiude con le parole con cui il Risorto assicura il permanere della sua presenza tra gli uomini: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». Sì, Gesù asceso al cielo dimora alla destra del Padre quale intercessore a favore degli uomini (cf. Rm 8,34), eppure è sempre accanto a noi. Ci è chiesto solo di credere che il Risorto, pur nella sua assenza fisica, è con noi, che il Signore Gesù e ciascuno di noi viviamo insieme: allora ogni nostra azione nella compagnia degli uomini discenderà dalla comunione con lui, sarà sua azione tra gli uomini e nella storia.




sabato 1 giugno 2019

DI QUESTO VOI SIETE MIEI TESTIMONI


2 giugno 2019 
Ascensione del Signore 
Commento al Vangelo 
di ENZO BIANCHI 


Lc 24,46-53

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto».Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse.Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo.Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioiae stavano sempre nel tempio lodando Dio.


La soppressione, in Italia, della festa dell’Ascensione (giovedì della VI settimana, quaranta giorni dopo Pasqua) e il suo conseguente spostamento alla domenica successiva non ci permettono purtroppo di contemplare il mistero dell’intercessione del Risorto presso il Padre (VII domenica di Pasqua). Oggi dunque nella chiesa italiana si celebra l’Ascensione, evento pasquale che Luca racconta nel suo vangelo (il brano odierno) come evento finale della vita di Gesù di Nazaret e negli Atti degli apostoli come evento iniziale della vita della chiesa (cf. At 1,1-11, anch’esso proclamato oggi nella liturgia).

È significativo che i due racconti non siano pienamente armonizzabili tra loro, in quanto leggono il medesimo evento da due diverse prospettive. Negli Atti l’ascensione di Gesù al cielo avviene quaranta giorni dopo la sua resurrezione da morte (cf. At 1,3), mentre nel vangelo è collocato nella tarda sera di quel “giorno senza fine”, “il primo della settimana” (Lc 24,1), giorno della scoperta della tomba vuota e dell’apparizione del Risorto alle donne (cf. Lc 24,1-12), ai due discepoli sulla strada verso Emmaus (cf. Lc 24,13-35), infine a tutti i discepoli riuniti in una casa a Gerusalemme (cf. Lc 24,36-49). Due modi diversi per narrare l’unico evento della resurrezione, che Luca cerca di illuminare in tutta la sua ampiezza: la resurrezione significa infatti entrata di Gesù quale Kýrios nella vita eterna alla destra di Dio Padre (Ascensione) e anche discesa dello Spirito (Pentecoste: cf. At 2,1-11).

Nella pagina conclusiva del suo vangelo Luca racconta come Gesù si è separato dai suoi non per abbandonarli ma per essere con loro sempre, l’‘Immanuel, il Dio-con-noi (cf. Mt 1,23; 28,20), in una nuova forma di vita. La sua esistenza umana è terminata con la morte, e ora, dopo la resurrezione del suo corpo, la vita di Gesù è altra, è quella del Signore vivente, è la vita divina di colui che è nell’intima vita di Dio, alla sua destra, il posto del Figlio eletto e amato (cf. Sal 110,1bc; Lc 3,22; 9,35). Eccoci dunque nella casa dei discepoli a Gerusalemme: sono tornati i due da Emmaus e hanno raccontato la loro esperienza, mentre gli Undici e gli altri testimoniavano anch’essi che Cristo era risorto ed era stato visto da Simon Pietro (cf. Lc 24,33-35). Mentre tutti insieme parlano di Gesù, egli in persona sta in mezzo a loro, dona lo shalom, la pace (cf. Lc 24,36), poi consegna parole che risuonano in un’assoluta novità: “Sono queste le parole che vi dicevo quando ero ancora con voi” (Lc 24,44a). Sì, perché Gesù non è più con loro come prima, quale uomo, maestro e profeta; ora è il Signore vivente che non parla più in aramaico, con il suono della sua voce umana da loro a lungo ascoltata, ma in modo nuovo, un modo più efficace, persuasivo, perché la sua voce è dotata della forza dello Spirito di Dio pienamente all’opera nel Risorto.

Nella potenza dello Spirito il Signore Gesù mostra ai discepoli il compimento delle Scritture e il compimento delle sue parole negli eventi che hanno preceduto quel giorno (cf. Lc 24,44b-47). Il Risorto spiega le Scritture in modo che i discepoli comprendano la conformità tra lo “sta scritto” e ciò che hanno vissuto: ora i discepoli possono finalmente comprendere ciò che prima non riuscivano a capire. Avevano certamente letto tante volte la Torah, i Profeti e i Salmi, ma ora che i fatti si sono compiuti possono comprenderli credendo, alla luce della fede. Gesù aveva annunciato loro più volte la necessitas della sua passione e morte (cf. Lc 9,22.43b-44), ma questi discorsi erano parsi loro scandalosi, enigmatici (cf. Lc 9,45). Ora però che si sono compiuti, non per destino o fatalità, ma per la necessità mondana secondo cui “il giusto” (Lc 23,47) in un mondo ingiusto deve morire (cf. Sap 1,26-2,22) e per la necessità divina per la quale Gesù in obbedienza alla volontà del Padre non si difende ma accoglie l’odio su di sé amando fino alla fine, ora sì che è possibile credere alle sante Scritture. E credendo è possibile diventare “testimoni”, fino ad annunciare la morte e resurrezione di Cristo come evento che chiede conversione e dona la remissione dei peccati: il perdono da parte di Dio a tutta l’umanità, in attesa della buona notizia della salvezza. Tutti sono testimoni – sottolinea Luca –, tutti annunciatori del Vangelo, non solo gli Undici, gli apostoli, ma anche gli altri presenti nello stesso luogo.

Sì, Gesù, quest’uomo di Nazaret, figlio di Maria e di Dio, che solo Dio poteva darci, era venuto soprattutto come Parola fatta carne (cf. Gv 1,14), come Visita da parte di Dio (cf. Lc 1,68), una Visita non per la punizione, per il castigo dei peccati commessi dal popolo di Dio e dall’intera umanità, ma una Visita che annunciava il perdono dei peccati (cf. Lc 1,77). Con quella morte da “uomo giusto” che accoglieva su di sé l’odio, la violenza e la menzogna dei malvagi, e vi rispondeva non con la violenza ma con l’amore, Gesù consegnava al Padre la vera immagine di Dio, l’Adamo come Dio l’aveva voluto (cf. Col 1,15). E proprio come giusto che sta dalla parte dei peccatori, solidale con pubblicani, impuri, prostitute, ladri e malfattori, Gesù saliva al Padre rivolgendogli la preghiera incessante che invoca perdono e misericordia. Tra le sue ultime parole prima della morte non aveva forse detto: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34)? E la sua ultima promessa non era forse stata rivolta a un malfattore: “Oggi con me sarai nel paradiso” (Lc 23,43)?

Dunque i discepoli, testimoni di questa misericordia vissuta, insegnata e raccontata da Gesù, devono annunciarla a tutte le genti. Questa è la predicazione della chiesa, la quale invece a volte è tentata di attribuirsi compiti che il Signore non le ha dato: l’unico compito evangelico è annunciare e fare misericordia, che significherà annuncio del Regno, della salvifica morte e resurrezione di Cristo, e quindi servizio ai poveri, ai malati, ai sofferenti, vicinanza e solidarietà con i peccatori. “Cominciando da Gerusalemme” e fino ai confini del mondo i testimoni, quali viandanti e pellegrini, ovunque annunceranno il perdono dei peccati, quindi perdoneranno e inviteranno tutti a perdonare: questo il Vangelo, la buona notizia. Essere testimoni di tale annuncio (e non di altro!) è un’impresa ardua, perché sembra poco credibile, quasi impossibile da realizzare, eppure quei poveri discepoli e quelle povere discepole la sera di Pasqua hanno ascoltato, capito e da allora hanno tentato di mettere in pratica nient’altro che questo: il perdono, la remissione dei peccati. Ci vorrà “la potenza venuta dall’alto”, la discesa dello Spirito santo da Dio, per essere abilitati ad adempiere questo mandato, ma nessuna paura: quando Gesù, il Figlio di Dio, sale al cielo, ecco che dal cielo discende lo Spirito di Dio, che è anche e sempre Spirito di Gesù Cristo, forza che sempre ci accompagna e ci ispira in questa missione.

Come raccontare l’ascensione di Gesù con parole umane? Luca tenta di narrarla, ricordando come il profeta Elia aveva lasciato questa terra per andare presso Dio (cf. 2Re 2,1-14), e così scrive che Gesù, dopo aver condotto a Betania quei discepoli ormai resi testimoni, lasciò loro la benedizione e, “mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo”. Questo l’esodo di Gesù dalla terra al regno di Dio. L’evangelista non attenua in alcun modo la separazione di Gesù dai suoi: egli non è più presente come prima, ma la benedizione che dona è una benedizione continua, è l’immersione dei suoi nello Spirito santo (cf. Lc 3,16). Essa è anche l’ultimo atto del Risorto: egli dona la benedizione sacerdotale che era stata sospesa, non data all’inizio del vangelo dal sacerdote Zaccaria, dopo l’apparizione dell’angelo e l’annuncio della venuta del Messia (cf. Lc 1,21-22). Questa benedizione rende gioiosa la comunità di Gesù proprio mentre egli si separa da lei, ma la rende anche sacerdotale (cf. 1Pt 2,9): i credenti in Gesù Cristo sono di fatto il nuovo tempio, “sacerdoti” e adoratori del Risorto, capaci di rispondere con la preghiera di benedizione alla benedizione di Gesù. L’incredulità è finalmente vinta e la fede in Gesù vivente, Signore e Dio, è tale che permette ai discepoli di sentire Gesù presente in mezzo a loro anche dopo la separazione del suo corpo glorioso, ormai nell’intimità del Padre, Dio.