lunedì 25 novembre 2019

COMPITI A CASA, L'OSSIMORO DELLA SCUOLA ITALIANA

-     di Simone Consegnati

Poche cose preoccupano i genitori più dei compiti a casa, soprattutto se parliamo di bambini della scuola primaria e a maggior ragione se questi pargoli frequentano la scuola a tempo pieno. In rete ho letto che le paure più grandi, dopo la morte, sarebbero quelle legata ai traslochi e al dover parlare in pubblico, ma niente – e sottolineo niente – è paragonabile al brivido che corre lungo la schiena dei genitori quando il venerdì pomeriggio all’uscita da scuola chiedono ai loro figli quanti compiti hanno per il fine settimana. Di solito le reazioni sono polarizzate: “Mamma, sono pieno”, con faccia triste del pargolo oppure ”Papà, questa volta ne ho pochissimi” con sorriso di soddisfazione compiaciuta annessa. Nessun compito è un’opzione poco battuta. Uscendo dall’ironia dobbiamo constatare come l’argomento “compiti a casa” sia tra i più divisi e complessi della storia dell’umanità.
Da un lato abbiamo gli ultras dello studio, estremisti del senso del dovere, nostalgici del “ai miei tempi si studiava comunque di più” e che credono che una maggiore quantità di studio, anche per i bambini più piccoli sia sinonimo di più cultura, più saggezza e maggiore intelligenza. Studiando di più, si impara di più, stop.
           Dall’altro abbiamo i genitori libertini, quelli che scrivono le giustificazioni per i figli che non fanno mai i compiti o, peggio, si sostituiscono a loro e fanno i compiti al posto dei figli, che denigrano il ruolo dei docenti o che pubblicamente, davanti ai figli, sostengono l’inutilità dei compiti a casa. Entrambe le posizione, credo, dannose e diseducativi.
In primis una considerazione: dobbiamo  uscire fuori dalla logica quantitativa dei compiti. Più esercizi, soprattutto se legati alla dimensione mnemonica, ripetitiva, standardizzata non migliorano le capacità logiche, deduttive, induttive, riflessive dei nostri alunni. Un’altra considerazione cruciale è sul ruolo del riposo e dell’educazione informale e non formale. Dopo otto ore di scuola, in contesti molto spesso rigidi e formali, nei quali chiediamo ai bambini di stare seduti e in silenzio, dovremmo riflettere sul perché non imparino come vorremmo. E la soluzione non può essere continuare sulla strada del dare più compiti. Forse dovremmo introdurre un principio di pluralità degli apprendimenti, tra dimensione formale e informale, e a fianco alle pagine sulle sillabe, dovremmo chiedere ai nostri bambini di dedicarsi alla musica, ad approfondire la passione per le arti, per la tecnologia (che non significa giocare al tablet), per lo sport, il movimento e la natura. Secondo l’Istat in Italia 1 bambino su 3 è sovrappeso o obeso.[1] Alcuni genitori illuminati devono rosicchiare il poco tempo a disposizione per far partecipare i figli a corsi sportivi, teatrali, musicali. Pensate che stress: dalle sei alle otto ore a scuola, poi (per fortuna non sempre) compiti a casa, poi un breve spazio dove poter fare altro e pronti che domani si ricomincia. C’è qualcosa che non va.
Ripartiamo dalla pluralità delle educazioni, dall’importanza dei contesti informali e non formali, dal desiderio di promuovere la passione per la ricerca e l’apprendimento. Il tempo da vivere e dedicare alla famiglia può giocare un ruolo chiave nella crescita armonica del bambino: è necessario incrementare, incentivare e promuovere un tempo di qualità dedicato alla scoperta, al gioco e, ogni tanto, all’ozio. Promuovere una cultura dell’apprendimento lungo tutto l’arco della vita (il cosiddetto life long learning) passa dalla scelta strategica di valorizzare apprendimenti significativi a discapito di quelli puramente meccanici, tenendo in considerazione tutti gli aspetti della persona.
Fare meno compiti, in altre parole, non renderebbe i nostri figli più ignoranti. Non farli per niente, d’altronde, rischia di non insegnare loro l’importanza di percorso costante di formazione. Non perdiamo mai di vista, in nessun caso, che la scuola deve essere a servizio del bambino e non viceversa e che studiare senza insegnare a riflettere è un po’ come voler capire il libretto d’istruzioni dell’IKEA senza dover comprare, né montare alcunché. Sicuri che questo modo di fare scuola aiuti i nostri bambini?







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