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lunedì 21 ottobre 2024

GUAI A VOI, STOLTI

 


Non sapere il proprio posto nel mondo


Lo stolto è colui che non riconosce di essere parte di una vita che ha bisogno della pace personale e sociale, e di una comunità che accoglie la pace di Gesù.


di  Mariapia Veladiano

 

Lo stolto è destinato a tutti i fallimenti, costruisce la sua casa sulla sabbia «ed essa cadde, e la sua rovina fu grande» (Mt 7,26).

Stolto. Nessuno più nel linguaggio corrente quotidiano usa questa parola. Non si dice: «Che stolto che sei!». Oppure: «Lei è proprio uno stolto!». I social incrociano insulti ben più furiosi, che ci feriscono ancora se siamo cresciuti nell’abitudine a considerare l’effetto delle parole sul mondo che ci circonda, oppure che scivolano nelle nostre conversazioni distratte e si replicano nel linguaggio della politica, dello spettacolo, del confronto che è solo scontro e ci intossicano un poco alla volta.

La Bibbia non usa solo parole tiepide e misurate. Basta pensare alle maledizioni del capitolo 28 del Deuteronomio, con il corredo di ulcere maligne, bubboni, scabbia, cecità, pazzia che porta gli uomini e le donne, stritolati da assedi senza speranza, a divorare i propri figli. Gli esegeti ci diranno che è un genere letterario, ma che spavento, che violenza di immagini. E poi c’è questa parola, stolto, che ricorre moltissimo, soprattutto nei libri sapienziali, fino al Vangelo. A noi non fa impressione, è lontana, fuori uso, vagamente letteraria o, appunto, biblica. Però nella Scrittura agli stolti capitano cose tremende.

Lo stolto è dissipatore e «dilapida tutto» (Pr 21,20), non comprende nulla del suo stare al mondo perché «ha occhi ma non vede, ha orecchi ma non ode» (Ger 5,21), la sua vita gira a vuoto, si perde, «non sa neppure andare in città» (Qo 10,15), è destinato a tutti i fallimenti, costruisce la sua casa sulla sabbia «ed essa cadde, e la sua rovina fu grande» (Mt 7,26), fino alla catastrofe finale, perché resta escluso dal Regno dei cieli come le vergini stolte della parabola: «In verità vi dico: non vi conosco» (Mt 25,12).

Ma chi sono gli stolti? La parola ebraica è nabal e noi troviamo nella Bibbia un Nabal, nome proprio, al capitolo 25 del Primo libro di Samuele. È un uomo ricco, un allevatore che ha il suo bestiame al Monte Carmelo e sta tosandolo. È un’occasione di festa e generosità. Nel codice non scritto dei rapporti tra nomadi e stanziali possidenti è prevista una «tassa di fraternità», vuol dire che i due gruppi non si combattono, i nomadi proteggono dai predatori occasionali questi momenti importanti e in cambio hanno un riconoscimento. Davide manda i suoi servi a chiedere questo riconoscimento, «quanto puoi dare», semplicemente, e Nabal li caccia via. Davide allora mette in armi i suoi uomini, ma la sua mano è fermata dalla moglie di Nabal, la saggia Abigail. La storia finisce con Nabal che muore e Abigail che diventa sposa di Davide.

Nabal è stolto perché non riconosce di essere all’interno di una comunità più larga del suo clan, del suo potere, della sua ricchezza. Si sente un dio sciolto da ogni relazione, dimentica che il bene di cui godiamo viene da un mondo che non abbiamo creato. Non riconosce che la sua ricchezza viene dalla pace con questo mondo di relazioni. Questo è lo stolto. E il tempo della vita gli viene tolto mentre lui lo sciupa a ubriacarsi. Nabal somiglia al ricco stolto del Vangelo di Luca, che accumula accumula e quando dice alla sua anima «hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia», proprio allora gli viene richiesta la sua vita (12,19-20). Muore. Perché si muore, anche se viviamo storditi di potere e di rabbia, in faccia alle immagini che ci arrivano, alle guerre che vediamo, in diretta, minuto per minuto.

Ecco lo stolto. Quello che non sa il suo posto nella grande comunità del mondo, che non riconosce di essere parte di una vita che ha bisogno della pace personale e sociale: «Come un cane ritorna al suo vomito, così lo stolto ripete la sua stoltezza» (Pr 26,11). Aiuto. Che si fa? Che si fa? Vi lascio la pace, dice Gesù nel Vangelo. È già data, c’è solo da accoglierla, insieme.

Messaggero S. Antonio

 

 

 


 

venerdì 14 giugno 2024

UNO STRUMENTO AFFASCINANTE E TREMENDO


 PAPA FRANCESCO PARTECIPA 
ALLA SESSIONE DEL G7 

SULL'INTELLIGENZA ARTIFICIALE

 DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO

 Venerdì, 14 giugno 2024

  Gentili Signore, illustri Signori!

 Mi rivolgo oggi a Voi, Leader del Forum Intergovernativo del G7, con una riflessione sugli effetti dell’intelligenza artificiale sul futuro dell’umanità.

 «La Sacra Scrittura attesta che Dio ha donato agli uomini il suo Spirito affinché abbiano “saggezza, intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro” ( Es 35,31)» [1]. La scienza e la tecnologia sono dunque prodotti straordinari del potenziale creativo di noi esseri umani [2].

 Ebbene, è proprio dall’utilizzo di questo potenziale creativo che Dio ci ha donato che viene alla luce l’intelligenza artificiale.

 Quest’ultima, come è noto, è uno strumento estremamente potente, impiegato in tantissime aree dell’agire umano: dalla medicina al mondo del lavoro, dalla cultura all’ambito della comunicazione, dall’educazione alla politica. Ed è ora lecito ipotizzare che il suo uso influenzerà sempre di più il nostro modo di vivere, le nostre relazioni sociali e nel futuro persino la maniera in cui concepiamo la nostra identità di esseri umani [3].

 Il tema dell’intelligenza artificiale è, tuttavia, spesso percepito come ambivalente: da un lato, entusiasma per le possibilità che offre, dall’altro genera timore per le conseguenze che lascia presagire. A questo proposito si può dire che tutti noi siamo, anche se in misura diversa, attraversati da dueemozioni: siamo entusiasti, quando immaginiamo i progressi che dall’intelligenza artificiale possono derivare, ma, al tempo stesso, siamo impauriti quando constatiamo i pericoli inerenti al suo uso [4].

 Non possiamo, del resto, dubitare che l’avvento dell’intelligenza artificiale rappresenti una vera e propria rivoluzione cognitivo-industriale, che contribuirà alla creazione di un nuovo sistema sociale caratterizzato da complesse trasformazioni epocali. Ad esempio, l’intelligenza artificiale potrebbe permettere una democratizzazione dell’accesso al sapere, il progresso esponenziale della ricerca scientifica, la possibilità di delegare alle macchine i lavori usuranti; ma, al tempo stesso, essa potrebbe portare con sé una più grande ingiustizia fra nazioni avanzate e nazioni in via di sviluppo, fra ceti sociali dominanti e ceti sociali oppressi, mettendo così in pericolo la possibilità di una “cultura dell’incontro” a vantaggio di una “cultura dello scarto”.

 La portata di queste complesse trasformazioni è ovviamente legata al rapido sviluppo tecnologico dell’intelligenza artificiale stessa.

 Proprio questo vigoroso avanzamento tecnologico rende l’intelligenza artificiale uno strumento affascinante e tremendo al tempo stesso ed impone una riflessione all’altezza della situazione.

 In tale direzione forse si potrebbe partire dalla costatazione che l’intelligenza artificiale è innanzitutto uno strumento. E viene spontaneo affermare che i benefici o i danni che essa porterà dipenderanno dal suo impiego.

 Questo è sicuramente vero, poiché così è stato per ogni utensile costruito dall’essere umano sin dalla notte dei tempi.

 Questa nostra capacità di costruire utensili, in una quantità e complessità che non ha pari tra i viventi, fa parlare di una condizione tecno-umana: l’essere umano ha da sempre mantenuto una relazione con l’ambiente mediata dagli strumenti che via via produceva. Non è possibile separare la storia dell’uomo e della civilizzazione dalla storia di tali strumenti. Qualcuno ha voluto leggere in tutto ciò una sorta di mancanza, un deficit, dell’essere umano, come se, a causa di tale carenza, fosse costretto a dare vita alla tecnologia [5]. Uno sguardo attento e oggettivo in realtà ci mostra l’opposto. Viviamo una condizione di ulteriorità rispetto al nostro essere biologico; siamo esseri sbilanciati verso il fuori-di-noi, anzi radicalmente aperti all’oltre. Da qui prende origine la nostra apertura agli altri e a Dio; da qui nasce il potenziale creativo della nostra intelligenza in termini di cultura e di bellezza; da qui, da ultimo, si origina la nostra capacità tecnica. La tecnologia è così una traccia di questa nostra ulteriorità.

 Tuttavia, l’uso dei nostri utensili non sempre è univocamente rivolto al bene. Anche se l’essere umano sente dentro di sé una vocazione all’oltre e alla conoscenza vissuta come strumento di bene al servizio dei fratelli e delle sorelle e della casa comune (cfr Gaudium et spes, 16), non sempre questo accade. Anzi, non di rado, proprio grazie alla sua radicale libertà, l’umanità ha pervertito i fini del suo essere trasformandosi in nemica di sé stessa e del pianeta [6]. Stessa sorte possono avere gli strumenti tecnologici. Solo se sarà garantita la loro vocazione al servizio dell’umano, gli strumenti tecnologici riveleranno non solo la grandezza e la dignità unica dell’essere umano, ma anche il mandato che quest’ultimo ha ricevuto di “coltivare e custodire” (cfr Gen 2,15) il pianeta e tutti i suoi abitanti. Parlare di tecnologia è parlare di cosa significhi essere umani e quindi di quella nostra unica condizione tra libertà e responsabilità, cioè vuol dire parlare di etica.

 Quando i nostri antenati, infatti, affilarono delle pietre di selce per costruire dei coltelli, li usarono sia per tagliare il pellame per i vestiti sia per uccidersi gli uni gli altri. Lo stesso si potrebbe dire di altre tecnologie molto più avanzate, quali l’energia prodotta dalla fusione degli atomi come avviene sul Sole, che potrebbe essere utilizzata certamente per produrre energia pulita e rinnovabile ma anche per ridurre il nostro pianeta in un cumulo di cenere.

 L’intelligenza artificiale, però, è uno strumento ancora più complesso. Direi quasi che si tratta di uno strumento sui generis. Così, mentre l’uso di un utensile semplice (come il coltello) è sotto il controllo dell’essere umano che lo utilizza e solo da quest’ultimo dipende un suo buon uso, l’intelligenza artificiale, invece, può adattarsi autonomamente al compito che le viene assegnato e, se progettata con questa modalità, operare scelte indipendenti dall’essere umano per raggiungere l’obiettivo prefissato [7].

 Conviene sempre ricordare che la macchina può, in alcune forme e con questi nuovi mezzi, produrre delle scelte algoritmiche. Ciò che la macchina fa è una scelta tecnica tra più possibilità e si basa o su criteri ben definiti o su inferenze statistiche. L’essere umano, invece, non solo sceglie, ma in cuor suo è capace di decidere. La decisione è un elemento che potremmo definire maggiormente strategico di una scelta e richiede una valutazione pratica. A volte, spesso nel difficile compito del governare, siamo chiamati a decidere con conseguenze anche su molte persone. Da sempre la riflessione umana parla a tale proposito di saggezza, la phronesis della filosofia greca e almeno in parte la sapienza della Sacra Scrittura. Di fronte ai prodigi delle macchine, che sembrano saper scegliere in maniera indipendente, dobbiamo aver ben chiaro che all’essere umano deve sempre rimanere la decisione, anche con i toni drammatici e urgenti con cui a volte questa si presenta nella nostra vita. Condanneremmo l’umanità a un futuro senza speranza, se sottraessimo alle persone la capacità di decidere su loro stesse e sulla loro vita condannandole a dipendere dalle scelte delle macchine. Abbiamo bisogno di garantire e tutelare uno spazio di controllo significativo dell’essere umano sul processo di scelta dei programmi di intelligenza artificiale: ne va della stessa dignità umana.

 Proprio su questo tema permettetemi di insistere: in un dramma come quello dei conflitti armati è urgente ripensare lo sviluppo e l’utilizzo di dispositivi come le cosiddette “armi letali autonome” per bandirne l’uso, cominciando già da un impegno fattivo e concreto per introdurre un sempre maggiore e significativo controllo umano. Nessuna macchina dovrebbe mai scegliere se togliere la vita ad un essere umano.

 C’è da aggiungere, inoltre, che il buon uso, almeno delle forme avanzate di intelligenza artificiale, non sarà pienamente sotto il controllo né degli utilizzatori né dei programmatori che ne hanno definito gli scopi originari al momento dell’ideazione. E questo è tanto più vero quanto è altamente probabile che, in un futuro non lontano, i programmi di intelligenze artificiali potranno comunicare direttamente gli uni con gli altri, per migliorare le loro performance. E, se in passato, gli esseri umani che hanno modellato utensili semplici hanno visto la loro esistenza modellata da questi ultimi – il coltello ha permesso loro di sopravvivere al freddo ma anche di sviluppare l’arte della guerra – adesso che gli esseri umani hanno modellato uno strumento complesso vedranno quest’ultimo modellare ancora di più la loro esistenza [8].

 Il meccanismo basilare dell’intelligenza artificiale

 Vorrei ora soffermarmi brevemente sulla complessità dell’intelligenza artificiale. Nella sua essenza l’intelligenza artificiale è un utensile disegnato per la risoluzione di un problema e funziona per mezzo di un concatenamento logico di operazioni algebriche, effettuato su categorie di dati, che sono raffrontati per scoprire delle correlazioni, migliorandone il valore statistico, grazie a un processo di auto-apprendimento, basato sulla ricerca di ulteriori dati e sull’auto-modifica delle sue procedure di calcolo.

 L’intelligenza artificiale è così disegnata per risolvere dei problemi specifici, ma per coloro che la utilizzano è spesso irresistibile la tentazione di trarre, a partire dalle soluzioni puntuali che essa propone, delle deduzioni generali, persino di ordine antropologico.

 Un buon esempio è l’uso dei programmi disegnati per aiutare i magistrati nelle decisioni relative alla concessione dei domiciliari a detenuti che stanno scontando una pena in un istituto carcerario. In questo caso, si chiede all’intelligenza artificiale di prevedere la probabilità di recidiva del crimine commesso da parte di un condannato a partire da categorie prefissate (tipo di reato, comportamento in prigione, valutazione psicologiche ed altro), permettendo all’intelligenza artificiale di avere accesso a categorie di dati inerenti alla vita privata del detenuto (origine etnica, livello educativo, linea di credito ed altro). L’uso di una tale metodologia – che rischia a volte di delegare de facto a una macchina l’ultima parola sul destino di una persona – può portare con sé implicitamente il riferimento ai pregiudizi insiti alle categorie di dati utilizzati dall’intelligenza artificiale.

 L’essere classificato in un certo gruppo etnico o, più prosaicamente, l’aver commesso anni prima un’infrazione minore (il non avere pagato, per esempio, una multa per una sosta vietata), influenzerà, infatti, la decisione circa la concessione dei domiciliari. Al contrario, l’essere umano è sempre in evoluzione ed è capace di sorprendere con le sue azioni, cosa di cui la macchina non può tenere conto.

 C’è da far presente poi che applicazioni simili a questa appena citata subiranno un’accelerazione grazie al fatto che i programmi di intelligenza artificiale saranno sempre più dotati della capacità di interagire direttamente con gli esseri umani (chatbots), sostenendo conversazioni con loro e stabilendo rapporti di vicinanza con loro, spesso molto piacevoli e rassicuranti, in quanto tali programmi di intelligenza artificiale saranno disegnati per imparare a rispondere, in forma personalizzata, ai bisogni fisici e psicologici degli esseri umani.

 Dimenticare che l’intelligenza artificiale non è un altro essere umano e che essa non può proporre principi generali, è spesso un grave errore che trae origine o dalla profonda necessità degli esseri umani di trovare una forma stabile di compagnia o da un loro presupposto subcosciente, ossia dal presupposto che le osservazioni ottenute mediante un meccanismo di calcolo siano dotate delle qualità di certezza indiscutibile e di universalità indubbia.

 Questo presupposto, tuttavia, è azzardato, come dimostra l’esame dei limiti intrinseci del calcolo stesso. L’intelligenza artificiale usa delle operazioni algebriche da effettuarsi secondo una sequenza logica (per esempio, se il valore di X è superiore a quello di Y, moltiplica X per Y; altrimenti dividi X per Y). Questo metodo di calcolo – il cosiddetto “algoritmo” – non è dotato né di oggettività né di neutralità [9]. Essendo infatti basato sull’algebra, può esaminare solo realtà formalizzate in termini numerici [10].

 Non va dimenticato, inoltre, che gli algoritmi disegnati per risolvere problemi molto complessi sono così sofisticati da rendere arduo agli stessi programmatori la comprensione esatta del come essi riescano a raggiungere i loro risultati. Questa tendenza alla sofisticazione rischia di accelerarsi notevolmente con l’introduzione di computer quantistici che non opereranno con circuiti binari (semiconduttori o microchip), ma secondo le leggi, alquanto articolate, della fisica quantistica. D’altronde, la continua introduzione di microchip sempre più performanti è diventata già una delle cause del predominio dell’uso dell’intelligenza artificiale da parte delle poche nazioni che ne sono dotate.

 Sofisticate o meno che siano, la qualità delle risposte che i programmi di intelligenza artificiale forniscono dipendono in ultima istanza dai dati che essi usano e come da questi ultimi vengono strutturati.

 Mi permetto di segnalare, infine, un ultimo ambito in cui emerge chiaramente la complessità del meccanismo della cosiddetta intelligenza artificiale generativa (Generative Artificial Intelligence). Nessuno dubita che oggi sono a disposizione magnifici strumenti di accesso alla conoscenza che permettono persino il self-learning e il self-tutoring in una miriade di campi. Molti di noi sono rimasti colpiti dalle applicazioni facilmente disponibili on-line per comporre un testo o produrre un’immagine su qualsiasi tema o soggetto. Particolarmente attratti da questa prospettiva sono gli studenti che, quando devono preparare degli elaborati, ne fanno un uso sproporzionato.

 Questi alunni, che spesso sono molto più preparati e abituati all’uso dell’intelligenza artificiale dei loro professori, dimenticano, tuttavia, che la cosiddetta intelligenza artificiale generativa, in senso stretto, non è propriamente “generativa”. Quest’ultima, in verità, cerca nei big data delle informazioni e le confeziona nello stile che le è stato richiesto. Non sviluppa concetti o analisi nuove. Ripete quelle che trova, dando loro una forma accattivante. E più trova ripetuta una nozione o una ipotesi, più la considera legittima e valida. Più che “generativa”, essa è quindi “rafforzativa”, nel senso che riordina i contenuti esistenti, contribuendo a consolidarli, spesso senza controllare se contengano errori o preconcetti.

 In questo modo, non solo si corre il rischio di legittimare delle fake news e di irrobustire il vantaggio di una cultura dominante, ma di minare altresì il processo educativo in nuce. L’educazione che dovrebbe fornire agli studenti la possibilità di una riflessione autentica rischia di ridursi a una ripetizione di nozioni, che verranno sempre di più valutate come inoppugnabili, semplicemente in ragione della loro continua riproposizione [11].

 Rimettere al centro la dignità della persona in vista di una proposta etica condivisa

 A quanto già detto va ora aggiunta un’osservazione più generale. La stagione di innovazione tecnologica che stiamo attraversando, infatti, si accompagna a una particolare e inedita congiuntura sociale: sui grandi temi del vivere sociale si riesce con sempre minore facilità a trovare intese. Anche in comunità caratterizzate da una certa continuità culturale, si creano spesso accesi dibattiti e confronti che rendono difficile produrre riflessioni e soluzioni politiche condivise, volte a cercare ciò che è bene e giusto. Oltre la complessità di legittime visioni che caratterizzano la famiglia umana, emerge un fattore che sembra accomunare queste diverse istanze. Si registra come uno smarrimento o quantomeno un’eclissi del senso dell’umano e un’apparente insignificanza del concetto di dignità umana [12]. Sembra che si stia perdendo il valore e il profondo significato di una delle categorie fondamentali dell’Occidente: la categoria di persona umana. Ed è così che in questa stagione in cui i programmi di intelligenza artificiale interrogano l’essere umano e il suo agire, proprio la debolezza dell’ ethos connesso alla percezione del valore e della dignità della persona umana rischia di essere il più grande vulnus nell’implementazione e nello sviluppo di questi sistemi. Non dobbiamo dimenticare infatti che nessuna innovazione è neutrale. La tecnologia nasce per uno scopo e, nel suo impatto con la società umana, rappresenta sempre una forma di ordine nelle relazioni sociali e una disposizione di potere, che abilita qualcuno a compiere azioni e impedisce ad altri di compierne altre. Questa costitutiva dimensione di potere della tecnologia include sempre, in una maniera più o meno esplicita, la visione del mondo di chi l’ha realizzata e sviluppata.

 Questo vale anche per i programmi di intelligenza artificiale. Affinché questi ultimi siano strumenti per la costruzione del bene e di un domani migliore, debbono essere sempre ordinati al bene di ogni essere umano. Devono avere un’ispirazione etica.

 La decisione etica, infatti, è quella che tiene conto non solo degli esiti di un’azione, ma anche dei valori in gioco e dei doveri che da questi valori derivano. Per questo ho salutato con favore la firma a Roma, nel 2020, della Rome Call for AI Ethics [13] e il suo sostegno a quella forma di moderazione etica degli algoritmi e dei programmi di intelligenza artificiale che ho chiamato “algoretica”  [14]. In un contesto plurale e globale, in cui si mostrano anche sensibilità diverse e gerarchie plurali nelle scale dei valori, sembrerebbe difficile trovare un’unica gerarchia di valori. Ma nell’analisi etica possiamo ricorrere anche ad altri tipi di strumenti: se facciamo fatica a definire un solo insieme di valori globali, possiamo però trovare dei principi condivisi con cui affrontare e sciogliere eventuali dilemmi o conflitti del vivere.

 Per questa ragione è nata la Rome Call: nel termine “algoretica” si condensano una serie di principi che si dimostrano essere una piattaforma globale e plurale in grado di trovare il supporto di culture, religioni, organizzazioni internazionali e grandi aziende protagoniste di questo sviluppo.

 La politica di cui c’è bisogno

 Non possiamo, quindi, nascondere il rischio concreto, poiché insito nel suo meccanismo fondamentale, che l’intelligenza artificiale limiti la visione del mondo a realtà esprimibili in numeri e racchiuse in categorie preconfezionate, estromettendo l’apporto di altre forme di verità e imponendo modelli antropologici, socio-economici e culturali uniformi. Il paradigma tecnologico incarnato dall’intelligenza artificiale rischia allora di fare spazio a un paradigma ben più pericoloso, che ho già identificato con il nome di “paradigma tecnocratico” [15]. Non possiamo permettere a uno strumento così potente e così indispensabile come l’intelligenza artificiale di rinforzare un tale paradigma, ma anzi, dobbiamo fare dell’intelligenza artificiale un baluardo proprio contro la sua espansione.

 Ed è proprio qui che è urgente l’azione politica, come ricorda l’Enciclica Fratelli tutti. Certamente «per molti la politica oggi è una brutta parola, e non si può ignorare che dietro questo fatto ci sono spesso gli errori, la corruzione, l’inefficienza di alcuni politici. A ciò si aggiungono le strategie che mirano a indebolirla, a sostituirla con l’economia o a dominarla con qualche ideologia. E tuttavia, può funzionare il mondo senza politica? Può trovare una via efficace verso la fraternità universale e la pace sociale senza una buona politica?» [16].

 La nostra risposta a queste ultime domande è: no! La politica serve! Voglio ribadire in questa occasione che «davanti a tante forme di politica meschine e tese all’interesse immediato […] la grandezza politica si mostra quando, in momenti difficili, si opera sulla base di grandi principi e pensando al bene comune a lungo termine. Il potere politico fa molta fatica ad accogliere questo dovere in un progetto di Nazione e ancora di più in un progetto comune per l’umanità presente e futura» [17].

Una sana politica

 Questa mia riflessione sugli effetti dell’intelligenza artificiale sul futuro dell’umanità ci conduce così alla considerazione dell’importanza della “sana politica” per guardare con speranza e fiducia al nostro avvenire. Come ho già detto altrove, «la società mondiale ha gravi carenze strutturali che non si risolvono con rattoppi o soluzioni veloci meramente occasionali. Ci sono cose che devono essere cambiate con reimpostazioni di fondo e trasformazioni importanti. Solo una sana politica potrebbe averne la guida, coinvolgendo i più diversi settori e i più vari saperi. In tal modo, un’economia integrata in un progetto politico, sociale, culturale e popolare che tenda al bene comune può “aprire la strada a opportunità differenti, che non implicano di fermare la creatività umana e il suo sogno di progresso, ma piuttosto di incanalare tale energia in modo nuovo” ( Laudato si’, 191)»  [18].

 Questo è proprio il caso dell’intelligenza artificiale. Spetta ad ognuno farne buon uso e spetta alla politica creare le condizioni perché un tale buon uso sia possibile e fruttuoso.

 Grazie.

 [1] Messaggio per la LVII Giornata Mondiale della Pace del 1° gennaio 2024, 1.

 [2] Cfr ibid.

 [3] Cfr ivi, 2.

 [4] Questa ambivalenza fu già scorta da Papa San Paolo VI nel suo Discorso al personale del “Centro Automazione Analisi Linguistica” dell’Aloysianum, del 19 giugno 1964.

[5] Cfr A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Milano 1983, 43.

 [6] Lett. enc Laudato si’ (24 maggio 2015), 102-114.

 [7] Cfr Messaggio per la LVII Giornata Mondiale della Pace del 1° gennaio 2024, 3.

 [8] Le intuizioni di Marshall McLuhan e di John M. Culkin sono particolarmente pertinenti alle conseguenze dell’uso dell’intelligenza artificiale.

 [9] Cfr Discorso ai partecipanti alla Plenaria della Pontificia Accademia per la Vita, 28 febbraio 2020.

 [10] Cfr Messaggio per la LVII Giornata Mondiale della Pace del 1° gennaio 2024, 4.

 [11] Cfr ivi, 3 e 7.

 [12] Cfr Dicastero per la Dottrina della Fede, Dichiarazione Dignitas infinita circa la dignità umana (2 aprile 2024).

 [13] Cfr Discorso ai partecipanti alla Plenaria della Pontificia Accademia per la Vita, 28 febbraio 2020.

 [14] Cfr Discorso ai partecipanti al Convegno “Promoting Digital Child Dignity – From Concet to Action”, 14 novembre 2019; Discorso ai partecipanti alla Plenaria della Pontificia Accademia per la Vita, 28 febbraio 2020.

 [15] Per una più ampia esposizione, rimando alla mia Lettera Enciclica Laudato si’ sulla cura della casa comune del 24 maggio 2015.

 [16] Lettera enc. Fratelli tutti sulla fraternità e l’amicizia sociale (3 ottobre 2020), 176.

 [17] Ivi, 178.

 [18] Ivi, 179.

www.vatican.va


martedì 21 maggio 2024

LO STUDIO E' L'ARTE DELLA PACE

 


Sentiamo di vivere in un mondo sull'orlo del precipizio e sentiamo bene: siamo sull'orlo del precipizio. Non lo siamo però a causa di quanto pensiamo immediatamente, ma perché è fuggita dal mondo la sapienza.

 

-         di Vito Mancuso

-          

Con questo non intendo minimizzare i problemi di oggi nella loro concretezza quali il cambiamento climatico, l'oscuro futuro cui ci consegna la tecnologia, l'imperversare delle guerre, la lacerazione del tessuto sociale, le massicce migrazioni e le conseguenti reazioni identitarie. Sono consapevole del fatto che le testate atomiche negli arsenali di alcuni Stati sono in numero tale da distruggere più volte questo nostro piccolo pianeta blu, meraviglia assoluta nel nero dello spazio cosmico. So bene, inoltre, che l'umanità non ha mai vissuto tempi felici, mi ricordo bene l'incipit di Kant nel saggio sul male radicale: «Il mondo va di male in peggio: è questo un lamento antico quanto la Storia». Proseguiva: «Secondo questa prospettiva, noi oggi (un oggi che però è antico quanto la Storia) viviamo nel tempo estremo: l'ultimo giorno e la fine del mondo sono alle porte». Era il 1793, ma ancora oggi ognuno può cantare con Mina «Sono ancora qui» e con Vasco Rossi «Sono ancora qua».

Potere e giustizia

Il precipizio allora dov'è? Nel fatto che un tempo si aveva un punto fermo a cui appellarsi per iniziare a tacere e poi forse ragionare, e questo conferiva la speranza di poter sempre ricominciare. Non a caso Kant poteva scrivere negli stessi anni un saggio sulla pace (Per la pace perpetua del 1795) nel quale ipotizzava un mondo in cui il potere si sarebbe inchinato alla giustizia, alla politica al diritto, e su questa base, uscendo dalla logica della forza ed entrando in quella del diritto internazionale, costruire effettivamente la pace. Il punto fermo della mente lo si poteva chiamare Dio, Ragione, Socialismo, eccetera: rimaneva il fatto che l'umanità lo possedeva e quindi era capace, a un certo punto, di tacere, ascoltare, pensare e accordarsi. Vi era la possibilità di un esercizio pubblico della sapienza. Uno diceva «in nome di Dio», o «in nome della Costituzione» e tutti ascoltavano.

 La sapienza è fuggita dal mondo

Oggi il punto fermo è scomparso e per questo dico che la sapienza è fuggita dal mondo: tra noi non vi è più nulla di comune a cui tutti insieme appellarsi. Ne viene che ognuno è pronto a dire all'altro cosa deve fare, ma nessuno sa più ascoltare le ragioni dell'altro. Gli ecologisti dicono agli economisti e agli imprenditori quello che devono fare, ma non ascoltano le ragioni degli economisti e degli imprenditori; viceversa, gli economisti e gli imprenditori mirano al profitto e a come contrastare la concorrenza senza curarsi del pianeta e delle condizioni disastrose denunciate giustamente dagli ecologisti. I pacifisti dicono ai governanti e alle forze armate quello che devono e soprattutto non devono fare, ma non ascoltano le ragioni dei militari che chiedono ai governi ancora più armi per non far vincere la tirannide; viceversa, i militari non si curano granché delle vittime civili, della progressiva distruzione di interi territori e del pericolo crescente di una guerra mondiale, oggetto della giusta denuncia dei pacifisti e probabile ultimo atto della storia dell'umanità.

Volere e sapere dialogare

 A cosa possa portare il non-ascolto dell'altro lo manifesta nel modo più tragico il conflitto israelopalestinese. Esso si è ormai così incancrenito che essere oggi per lo Stato palestinese significa volere la distruzione dello Stato di Israele e ritrovarsi con chi insulta la Brigata ebraica della Resistenza e con chi reprime la libertà delle donne e degli omosessuali; e viceversa stare dalla parte di Israele significa negare la terra ai palestinesi alimentando il progressivo furto di territorio da parte di quei signori di solito chiamati coloni ma il cui vero nome è ladri (quando non assassini: ricordarsi sempre dell'assassinio di Ytzhaq Rabin il 4 novembre 1995, io piansi), oppure ritrovarsi accanto all'attuale governo israeliano che si accanisce a tal punto contro i civili di Gaza che se non è genocidio poco ci manca.

 A questo conduce l'incapacità di ascolto delle ragioni dell'altro per la mancanza di un punto fermo comune e della sapienza, e gli esempi si potrebbero moltiplicare. Persino il Papa da un lato predica al mondo la pace, dall'altro non è capace di praticarla veramente a casa sua e continua ad attaccare i cardinali, la Curia e padre Georg.

Sapienza ed equanimità

 Ebbene, all'interno di questo quadro abbastanza deprimente ogni tanto ci chiediamo cosa possiamo fare noi. La mia risposta è: cercare di capire esercitando la sapienza e l'equanimità. L'esercizio della sapienza consiste anzitutto nel desiderarla, per farla tornare almeno nel nostro cuore. E quando la sapienza ritorna, il primo dono che porta è l'equanimità, cioè il saper ascoltare le ragioni dell'altro.

 Aristotele insegnava la "via di mezzo" quale criterio per condurre la mente perché è trovando il centro tra due polarità che si ottengono le virtù, tra cui spicca la sapienza. Lo stesso insegnavano il Buddha e Confucio. È la soluzione per tutti i problemi? Ovvio che no, ma non si deve mai dimenticare il precetto posto da Ippocrate a fondamento della medicina: "Primum non nocere", "Primo non nuocere". A volte, volendo guarire, si peggiora la situazione, mentre bisognerebbe prendere atto che non si può guarire ma solo curare. Fuor di metafora: a cosa serve essere pacifisti invocando la pace, se lo si fa con parole violente ricolme di odio che alimentano le radici della guerra? A cosa serve richiedere la creazione di uno Stato per un popolo, se lo si fa aspirando alla distruzione di uno Stato per un altro popolo? Se non si capisce come servire effettivamente la pace, molto meglio astenersi dal prendere posizione. La bandiera della pace ha i colori dell'arcobaleno a significare di voler contenere tutti, se diventa di una parte sola fallisce.

 Per altri conflitti è più facile capire perché risulta chiaro chi aggredisce e chi è aggredito, chi combatte per invadere e chi per scacciare l'invasore, e allora si prende posizione appoggiando chi si difende dalla tirannide. Ovvio che mi riferisco alla guerra di difesa dell'Ucraina, a proposito della quale fin dall'inizio non ho avuto dubbi sull'opportunità di inviare aiuti, anche militari. Ma perché allora quando sento il presidente francese parlare di inviare i soldati, avverto un chiaro no nella mia mente? Paura? Sì, penso sia paura, e la paura è qualcosa di molto serio, è la prima delle sei emozioni universali, su di essa occorre sempre saggiamente riflettere. Hans Jonas giunse a scrivere di "euristica della paura": intendeva dire che la paura, se viene riconosciuta e non negata (perché a nessuno piace ammettere di averla), può aiutare a trovare. Euristica significa questo: metodo della scoperta («Eureka!», gridò Archimede dopo la famosa scoperta).

Essere pace

 Insomma, quando si ha il privilegio di non essere nella mischia si tratta di vincere la tentazione di immischiarsi e di farsi guidare da queste parole di Spinoza: «Mi sono impegnato a fondo non a deridere, né a compiangere, né tanto meno a detestare le azioni degli uomini, ma a comprenderle». La pace inizia nella mente che studia. Non ci può essere pace senza studio. E dallo studio della situazione apparirà una volta l'opportunità di agire, un'altra quella di non agire; una volta sarà giusto cedere, un'altra resistere. La saggezza, esercizio pratico di sapienza, è l'arte del discernimento.

 Il mio naturalmente non è un programma politico, perché non si rivolge ai molti né tantomeno ai popoli, ma al singolo nella sua solitudine. Ha scritto Etty Hillesum ad Amsterdam sotto occupazione nazista: «In fondo, il nostro unico dovere morale è quello di dissodare in noi stessi vaste aree di tranquillità, di sempre maggior tranquillità». Queste parole di una giovane donne ebrea scritte prima di essere deportata ad Auschwitz ci insegnano ancora oggi che il primo atto a favore della pace si compie nella mente: per liberarla dall'odio e studiare con equanimità raccogliendo la sapienza che ne deriva.

Chi lo fa, capisce che, se è bene manifestare per la pace, si tratta prima ancora di "essere pace".  

 

alzogliocchiversoilcielo


giovedì 4 gennaio 2024

SAPER DUBITARE



Dobbiamo osare 

un cambiamento 

di paradigma:

 il dubbio ci serve,

 il dubbio è fecondo. 

Senza il dubbio 

non c’è avanzamento

 della conoscenza. 

Chi non ha dubbi, 

si frega con le proprie mani.

Occorre che impariamo

 anche a dire 

“non lo so” e “non ho capito”

-         di Vera Gheno

-          

Non avere dubbi, normalmente, è considerato un fatto positivo. Il dubbio è il male: lo si fa coincidere con l’essere privi di certezze, di un’idea precisa. Avere dubbi riguardo a sé stessi è anche peggio: si viene velocemente bollati come persone insicure, indecise. Il dubbio è grigio, laddove i sicuri sanno cosa sia nero e cosa sia bianco, giusto e sbagliato, lecito e illecito. Il grigio, l’incertezza, è né carne né pesce: bianco sporco, o nero stinto. Il dubbio non è muscolare.

 Eppure, dobbiamo osare un cambiamento di paradigma: il dubbio ci serve, il dubbio è fecondo. Senza il dubbio non c’è avanzamento della conoscenza. Chi non ha dubbi, e pensa di sapere già tutto quello di cui ha bisogno, si frega con le proprie mani. Si chiude in una sorta di autoreferenzialità cognitiva e non si concede la possibilità di evolvere. La certezza è la fine dell’evoluzione. Il che non vuol dire mettere in dubbio qualsiasi cosa; vuol dire ammettere, con onestà, i limiti delle proprie competenze e conoscenze. “Là fuori” è pieno di nozioni, ci sono campi interi che ignoriamo completamente … Pattugliare i limiti del proprio sapere, secondo me, è essenziale. Purtroppo, ci siamo convinti che siccome le informazioni, in linea di massima, sono a portata di mano, possiamo sapere tutto. Ma acquisire un’informazione non vuol dire conoscere: non coincide nemmeno con il capirla. L’accesso all’informazione permesso da internet non ci ha dotati automaticamente della conoscenza, che va invece perseguita con fatica.

 Facciamoci caso: quante sono le persone che intervengono nelle discussioni senza alcuna competenza specifica, pensando di averla? Quanti criticano gli “esperti” con un “io non credo sia così”, certi delle proprie conoscenze e mettendo automaticamente in dubbio quelle altrui, come se fosse tutta questione di fiducia? Quante volte, quando parliamo di argomenti che conosciamo bene (perché li abbiamo studiati), capita di trovare qualcuno che sentenzia apodittico “non è vero”, oppure più enigmaticamente “mah”? …

 Tanti, troppi, non si rendono conto dei limiti delle loro conoscenze: si chiama effetto Dunning-Kruger: una distorsione cognitiva che porta le persone non molto competenti in un certo campo a sovrastimare le proprie conoscenze e a promuoversi esperte, con tutte le conseguenze del caso …

 Un genere di persone particolarmente comuni sui social, ma non solo, sono i sedicenti esperti; persone mai disposte ad ascoltare, che pensano di sapere già tutto, e che, se contraddetti, si lamentano di essere vittime degli altri (di solito, un “voi”) che li bullizzano. A ben pensarci, tutto questo circolo vizioso è causato dalla mancanza di dubbi rispetto alle proprie conoscenze …

 Mettiamoci il cuore in pace: nessuno di noi è tuttologo; nessuno, nemmeno il più colto, potrà capire tutto. Occorre che impariamo anche a dire “non lo so” e “non ho capito” … 

La persona colta si rende conto di avere bisogno di controllare un’informazione o una nozione, e più o meno sa dove andarla a cercare. La persona ignorante invece non si pone alcun dubbio: sa già tutto quello che ha bisogno di sapere, non si fa certo prendere dal morso del dubbio. Vive felice con le sue certezze, senza rendersi conto che sono un recinto esiguo che limita la possibilità di conoscere il mondo, di crescere. In ultima analisi, di vivere una vita piena.

 

V. Gheno, Le ragioni del dubbio. L’arte di usare le parole, Einaudi

sabato 30 dicembre 2023

DA UN ANNO ALL'ALTRO


 Quello che trasmetteremo



 -         José Tolentino Mendonça



Frase ricca di speranza, quella che scrisse Albert Camus: «In mezzo ai flagelli ci sono negli uomini più cose da ammirare che non da disprezzare». È vero: approfittiamo allora del trascorrere del tempo come di un’opportunità.

Possiamo forse attivare la nostra responsabilità nei confronti di un’ecologia integrale, celebrando un nuovo contratto sociale con la Creazione.

O forse investire nella ricerca di equilibri più soddisfacenti: tra il profitto e il dono, tra la crescita e la sostenibilità, tra l’individuale e il comunitario, tra il diritto a usare e il dovere di riutilizzare, tra il furore della tecnologia digitale e la natura artigianale della nostra umanità.

O forse imparare a interagire in modo più intelligente con la complessità del mondo, ma anche con una più grande disponibilità a meravigliarci della sua disarmante semplicità.

O forse mettere tra le competenze che più ci adoperiamo a esercitare la gentilezza e la fraternità.

O forse, come così chiaramente percepiamo il posto dell’educazione fisica o di quella scientifica, a saper cogliere il posto anche dell’educazione emozionale e spirituale.

O forse, infine, a preoccuparci più di quello che trasmetteremo, che non di quanto erediteremo.

Penso a quel versetto del salmo biblico: «Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore».

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venerdì 13 ottobre 2023

UNA PREZIOSA VIRTU'


 UMILTA' 
- di José Tolentino Mendonça

- Con la sapienza che gli viene riconosciuta, sant’Agostino ricorda che «né il nostro timore, né il nostro amore sono stabili e sicuri». Il suo punto di partenza è l’imperfezione delle valutazioni che noi facciamo, così spesso incapaci di andare al di là di uno sguardo inconsapevolmente approssimativo o anche del tutto errato, relativamente a persone, avvenimenti e cose. «Quale uomo, infatti, è in grado di giudicare?».

La domanda dell’autore delle Confessioni merita di diventare oggetto della nostra riflessione. È una briciola di saggezza offerta ai nostri discorsi forse troppo assertivi, alle nostre considerazioni probabilmente troppo sicure di sé, alle nostre quotidiane sentenze che si lasciano andare a un tono implacabile e ferreo, anche quando mascherato con i tic giudiziosi della buona educazione.

La verità è che facciamo fatica a discernere e, per dirlo senza mezzi termini, vederci chiaro non è una delle nostre qualità più immediate. Per altro verso, nemmeno la vita resta lì immobile ad aspettare di essere fotografata dal nostro giudizio: è mobile, in perpetua mutazione, attraversa stagioni diverse, si lascia meglio raccontare con le virgole che con frettolosi punti fermi.

 Nella Prima lettera ai Corinzi san Paolo scrive che «ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa» (1Cor 13,12), e aveva ragione.

 Rendercene conto ci aiuta a entrare nella scuola dell’umiltà.

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martedì 10 gennaio 2023

LA SAGGEZZA e L'AUDACIA

 David Sassoli è scomparso l’11 gennaio 2022. Oggi possiamo ereditare le parole e le intuizioni, l’esperienza e lo sguardo di un grande politico italiano.

David Sassoli aveva un’idea chiara dell’Italia e dell’Europa: aperte al futuro e consapevoli delle proprie imperfezioni.

«Uomini come David Sassoli conoscevano bene la responsabilità che ha l’Europa e che hanno i singoli individui di preservare i nostri diritti. E questo libro è un po’ la consapevolezza che ci lascia in eredità, e che è un bene che oggi possiamo leggerne e rileggerne.» -

“La pandemia non arretra, l’uscita dal tunnel continua ad allontanarsi e stiamo tardando a vedere i progressi di cui l’Unione ha bisogno, il progetto europeo di speranza che tutti i nostri concittadini europei stanno aspettando. Naturalmente abbiamo progetti ambiziosi per la nostra Europa, sono sul tappeto fin dall’inizio della legislatura, e li stiamo perseguendo caparbiamente, cambiando le cose, trovando un consenso tra di noi, insomma, avanzando e superando le nostre differenze. Certo, il Green Deal, la transizione digitale, un’Europa più forte e democratica, una maggiore giustizia sociale, sono progetti forti e indispensabili che l’Europa sta portando avanti, e dobbiamo riuscirci per lealtà verso i nostri concittadini.

Ma l’Europa ha anche e soprattutto bisogno di un nuovo progetto di speranza, un progetto che ci accomuni, un progetto che possa incarnare la nostra Unione, i nostri valori e la nostra civiltà, un progetto che sia ovvio per tutti gli europei e che ci permetta di unirci. Penso che questo progetto possa essere costruito intorno a tre assi forti, a un triplice desiderio di Europa che sia unanimemente condiviso da tutti gli europei: quello di un’Europa che innova, di un’Europa che protegge e di un’Europa che sia faro.” Esistono tante idee di Europa.

La raccolta dei discorsi di David Sassoli, dentro e fuori dalle istituzioni, ci indica una via: abbiamo bisogno di innovazione non solo nella tecnologia, ma nelle istituzioni, nelle politiche, nei nostri modi di agire e nei nostri stili di vita. Lo chiede la transizione ecologica. Dobbiamo ripristinare l’idea che l’Europa ci protegge: protegge i suoi confini, i suoi cittadini, agisce per la loro sicurezza, per il bene comune e per la sovranità di ciascuno dei suoi Stati membri.

Ma l’Europa deve anche ritrovare l’orgoglio del suo modello democratico. Dobbiamo desiderare che questo modello di democrazia, di libertà e di prosperità si diffonda, che attiri, che faccia sognare e non solo i nostri stessi concittadini europei, ma anche al di là delle nostre frontiere. Perché i cittadini europei sentiranno di appartenere all’Europa soltanto se il suo modello politico funge da esempio e attrae.

- La saggezza e l'audacia. Discorsi per l'Italia e per l'Europa  - di David Sassoli (Autore)  Claudio Sardo (Curatore) – Ed. Feltrinelli, 2023


 


domenica 6 marzo 2022

LA SAGGEZZA DEL TEMPO




 Ritrovare insieme 

la “saggezza

 del tempo”


-         di Mariolina Ceriotti Migliarese

-          Uomini, donne e persino bambini: ormai tutti, senza distinzione, viviamo di corsa e con affanno, sempre protesi in avanti, sbilanciati verso ciò che accadrà “dopo”. Abbiamo la sensazione che il tempo sia sempre insufficiente, e che si sia fatto troppo affollato e troppo stretto. Il tempo ci appare sempre più prezioso e insieme sempre più ostile. Ma come si entra nella percezione del tempo?

Gli animali non conoscono il tempo, ma sperimentano il ripetersi ritmico degli eventi; in natura, infatti, la ritmicità è una costante: c'è un ritmo nel rincorrersi delle stagioni, nelle fasi lunari, nell'istinto riproduttivo degli animali, nel respiro. Questa ritmicità che ci trascende e che non ha bisogno del nostro controllo costituisce un sottofondo rassicurante e affidabile e rappresenta un fondamentale organizzatore della vita.

Anche l'uomo alla nascita non ha cognizione del tempo: la vita del neonato è scandita da un flusso di bisogni e di sensazioni alle quali da solo non sa e non può dare significato né risposta. Si tratta di un flusso che potrebbe sopraffarlo e disorganizzarlo; solo la cura attenta e “sufficientemente buona” di un adulto è in grado di introdurlo in un ritmo più ordinato, nel quale riconoscere e regolare il tempo della fame e della sazietà, come quello del sonno e della veglia. Da sempre è soprattutto la donna a curarsi del tempo e della ritmicità, perché in lei più che nell'uomo la natura ha legato il corpo a precise finestre temporali; il tempo è una variabile centrale nella vita delle donne: sia in senso orizzontale (il ripetersi mensile del mestruo e dei giorni fertili) che longitudinale (il menarca, l'età fertile, la menopausa). È un tempo che, lo si voglia o no, ruota attorno al tema concreto e simbolico del figlio; che si tratti di un figlio da accettare, da cercare o da evitare le cose non cambiano: la domanda sul figlio rimane per le donne cruciale e ineludibile, modificando il loro modo di percepire il tempo.
L'uomo e la donna vivono il tempo in modo diverso. Nella percezione maschile, le età si susseguono senza soluzione di continuità e i compiti vitali vanno sommandosi l'uno all'altro, portandolo a crescere sul piano umano e professionale secondo un ordine di tipo lineare, in direzione di una meta “forte” e unificata. La donna invece percepisce il tempo in modo circolare e ciclico; la sua vita non è concentrata su un unico obiettivo principale, ma piuttosto su compiti vitali che si accavallano, si intersecano, si aprono e si chiudono secondo “anelli di senso” che sono “fase-specifici”, perché ritmati da passaggi e trasformazioni legate alla ciclicità del suo corpo. Per questo la donna più dell'uomo avverte con urgenza il tema del tempo e più di lui soffre per la mancanza di ritmi vitali buoni. E sempre per questo la madre percepisce istintivamente l'importanza di ritmare la vita del suo bambino: sente che si tratta di un compito primario e sa che il figlio sta bene quando trova finalmente un ritmo ordinato, che è il contrario dell'affanno.

A causa di queste differenze, può sembrare che l'uomo sappia guardare più lontano o che la donna non sappia avere obiettivi forti; per non perdere occasioni preziose, le donne hanno cercato perciò di adattarsi al modo maschile di vivere il tempo, rinunciando a battersi per salvaguardare i propri ritmi. Ma perdere il contatto con la propria dimensione temporale danneggia le donne, che hanno bisogno della flessibilità necessaria ad “aggiustare” continuamente il tempo alle esigenze concrete e mutevoli della vita propria e delle persone che amano, e di dare ad ogni fase l'energia necessaria al compito centrale di quel momento. Stiamo diventando sempre più simili a pipistrelli senza radar, affannate e insieme scontente, perché l'ordine della vita è andato perduto, con pesanti conseguenze per noi e per le persone che amiamo. Lottare perché sia salvaguardata la ritmicità buona della vita non è un obiettivo femminile, ma un obiettivo necessario per tutti: dobbiamo ritrovare insieme la “saggezza del tempo”, prendendo consapevolezza del suo limite e tornando a valorizzare uno per uno tutti i preziosi momenti che ci è dato vivere.

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mercoledì 5 gennaio 2022

OLTRE LE APPARENZE


  I Magi, primizie della fede

Nella solennità dell’Epifania, ricordiamo alcune riflessioni dei Papi sui Magi, venuti dall’Oriente a Betlemme, seguendo la stella, per far visita al Bambino Gesù


-         Amedeo Lomonaco – Città del Vaticano

 Le parole dei Papi sui Magi si intrecciano con i giorni vissuti a Betlemme dalla Santa Famiglia. Dal Vangelo secondo Matteo si leggono queste parole: "Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da Oriente a Gerusalemme e dicevano: 'Dov'è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo'".

Alle radici della fede

Al vedere la stella, si legge inoltre nel Vangelo secondo Matteo,  i Magi "provarono una gioia grandissima. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono" . Papa Leone XIII nella lettera enciclica Catholicae Ecclesiae del 1890 sottolinea che questi sapienti sono “chiamati le primizie della nostra vocazione e della fede”. Papa Pio X, nel discorso del 23 dicembre del 1903 per la presentazione degli auguri natalizi della Curia romana, descrive la scena della Natività e, facendo riferimento all’arrivo dei Magi, afferma che “la capanna di Betlemme è una scuola”.

“Videro il Bambino con Maria sua madre, e, prostratisi, l'adorarono. (Dal Vangelo secondo Matteo)”

In viaggio verso Betlemme

I Magi giungono a Betlemme condotti dalla stella. Nel radiomessaggio del 6 gennaio del 1957 Papa Pio XII esorta a rivolgere lo sguardo al Bambino Gesù, il quale, “come chiamò i Magi dall'Oriente, così invita tuttora gli uomini di ogni stirpe alla pienezza della felicità mediante la conoscenza della verità e l'amore del bene”.  Papa Giovanni XXIII, nel discorso del 18 dicembre del 1958 rivolge il proprio pensiero “alle auguste persone in viaggio” verso Betlemme: “a Gesù, rinchiuso nel seno immacolato di Maria; alla Madonna, esposta tutti i disagi, per il dovere dell'obbedienza a Dio e agli uomini; Giuseppe, che è con Lei, sposo umile e silenzioso, fedele e forte”. “Anche i Pastori e i Magi - aggiunge Papa Roncalli - si apprestano al viaggio, che li porterà all'adorazione nella grotta”.

“Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua Madre (Dal Vangelo secondo Matteo)”

La via dei Magi conduce a Dio

La presenza dei Magi a Betlemme introduce la dimensione missionaria della Chiesa: la venuta di Cristo, afferma Papa Paolo VI all’Angelus del 6 gennaio del 1977 “è per tutti, è universale nella sua intenzione di salvezza; è perciò apostolica, è missionaria; i Magi sono appunto considerati come i primi rappresentanti dei Popoli lontani, chiamati anche loro alla fede”. La Chiesa nella solennità dell’Epifania segue le orme dei tre Magi e ricorda le tappe del loro cammino. “La loro via - spiega Giovanni Paolo II durante la Santa Messa il 6 gennaio del 1985 - non conduce a Gerusalemme, a Betlemme, essa conduce a Dio, a quel Dio che è invisibile, benché si riveli mediante ciò che è visibile. I tre Magi sono stati chiamati a diventare testimoni di questo che nella rivelazione dell’invisibile è l’apice e il limite: Dio si è rivelato come uomo, è diventato uomo”. 

Pellegrinaggio interiore

Il Papa emerito Benedetto XVI durante la veglia con i giovani il 20 agosto del 2005 a Colonia, sulla Spianata di Marienfeld, descrive la scena dell’arrivo dei Magi a Betlemme. “Sicuramente avevano immaginato questo Re neonato in modo diverso”. “Il nuovo Re, davanti al quale si erano prostrati in adorazione – spiega Benedetto XVI - si differenziava molto dalla loro attesa. Così dovevano imparare che Dio è diverso da come noi di solito lo immaginiamo”.  Il Dio cercato e adorato dai Magi “ci invita a quel pellegrinaggio interiore che si chiama adorazione”.

“Non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili, perché le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili invece sono eterne (2 Cor 4,18)”

Vedere oltre il velo del visibile

I Magi arrivati a Betlemme hanno dunque visto un povero bambino con sua madre. Ma hanno saputo trascendere quella scena così umile “riconoscendo in quel Bambino la presenza di un sovrano”. Furono cioè in grado di “vedere”, spiega Papa Francesco durante la Santa Messa il 6 gennaio del 2021, al di là dell'apparenza. "Come i Magi, anche noi dobbiamo lasciarci istruire dal cammino della vita, segnato dalle inevitabili difficoltà del viaggio. Non permettiamo che le stanchezze, le cadute e i fallimenti ci gettino nello scoraggiamento. Riconoscendoli invece con umiltà, dobbiamo farne occasione per progredire verso il Signore Gesù".

Per adorare il Signore bisogna “vedere” oltre il velo del visibile, che spesso si rivela ingannevole. Erode e i notabili di Gerusalemme rappresentano la mondanità, perennemente schiava dell’apparenza. Vedono e non sanno vedere – non dico che non credono, è troppo – non sanno vedere perché la loro capacità è schiava dell’apparenza e in cerca di attrattive: essa dà valore soltanto alle cose sensazionali, alle cose che attirano l’attenzione dei più. D’altro canto, nei Magi vediamo un atteggiamento diverso, che potremmo definire realismo teologale – una parola troppo “alta”, ma possiamo dire così, un realismo teologale –: esso percepisce con oggettività la realtà delle cose, giungendo finalmente alla comprensione che Dio rifugge da ogni ostentazione. Il Signore è nell’umiltà, il Signore è come quel bambino umile, rifugge dall’ostentazione, che è proprio il prodotto della mondanità. Questo modo di “vedere” che trascende il visibile, fa sì che noi adoriamo il Signore spesso nascosto in situazioni semplici, in persone umili e marginali. Si tratta dunque di uno sguardo che, non lasciandosi abbagliare dai fuochi artificiali dell’esibizionismo, cerca in ogni occasione ciò che non passa, cerca il Signore.

I Magi, ricorda infine Papa Francesco il 6 gennaio del 2017, “avevano il cuore aperto all’orizzonte e poterono vedere quello che il cielo mostrava perché c’era in loro un desiderio che li spingeva: erano aperti a una novità”. Ed esprimono “il ritratto dell’uomo credente, dell’uomo che ha nostalgia di Dio; di chi sente la mancanza della propria casa, la patria celeste”. Riflettono l’immagine “di tutti gli uomini che nella loro vita non si sono lasciati anestetizzare il cuore”.

 Vatican News