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lunedì 11 agosto 2025

GIOVANI, OSATE I SOGNI


 I giovani di oggi sono molto diversi da quelli di ieri, perché repentino è stato il cambiamento sociale degli ultimi decenni. 
Agli adulti spetta la responsabilità di non sottrarre loro la dimensione della generatività, senza la quale non c’è futuro.

Luciano Manicardi

Mentre parlava dei giovani come coloro che «in se stessi rappresentano la speranza», papa Francesco puntava il dito sulla responsabilità degli adulti nei loro confronti: «Non possiamo deluderli… prendiamoci cura delle giovani generazioni» (Spes non confundit, 12). La speranza dei giovani è anche responsabilità degli adulti. E ciò di cui gli adulti devono anzitutto prendere coscienza, e che devono conoscere, è quella che Michel Serres, parlando appunto dei giovani, ha chiamato la «nascita di un nuovo umano». 

Quelli di oggi sono giovani che, rispetto ai loro padri, hanno diversa attesa di vita, diversa famiglia, diversa sofferenza, diversa formazione – ormai monopolio dei media –, diverso spazio in cui vivere grazie alla «onniconnettività», diverso linguaggio, diverso modo di pensare e relazionarsi alla realtà, diversa temporalità, diverso rapporto con il lavoro, diversi legami dovuti alla precarizzazione delle appartenenze (nazionali, politiche, religiose, di genere). Prima responsabilità degli adulti è ascoltare, conoscere, comprendere

Solo ora cominciamo ad avere una certa conoscenza degli effetti che la familiarità quotidiana – praticamente fin dalla culla – con gli smartphone, può avere sui bambini e sugli adolescenti. Jonathan Haidt, studiando la generazione Z (i nati dopo il 1995), ha notato la crescita di fenomeni di ansia, angoscia, depressione, comportamenti autolesionistici, suicidi. Crescere avvolti nel cosiddetto mondo virtuale non aiuta certo ad affrontare il mondo reale e influenza pesantemente lo sviluppo sociale e neurologico dei bambini. Nel suo libro La generazione ansiosa, dopo aver notato che da un’infanzia fondata sul gioco si è passati a un’infanzia fondata sul telefono, l’autore sostiene che l’iperprotezione nel mondo reale e la scarsa protezione nel mondo virtuale sono alla base dell’«ansietà» di questa generazione

Ma, soprattutto, agli adulti spetta di dare fiducia e fare spazio al giovane, non di istituire paragoni e giudicare. Solo dando fiducia si crea speranza. Responsabilità sociale e culturale, oggi, è recuperare la dimensione della generatività senza la quale i giovani vengono derubati del futuro: se il mondo del lavoro, l’economia, la politica si appiattiscono sul presente, investendo e puntando su obiettivi solo di breve e brevissimo termine, le giovani generazioni ne pagano le conseguenze. Senza fiducia nel futuro viene tolta speranza ai giovani. Il deficit di generatività è connesso alla scomparsa dell’iniziazione nelle società occidentali. Le iniziazioni sono ritualizzazioni dei passaggi dell’esistenza umana che insegnano all’iniziato il prezzo del vivere, inculcando l’antico principio del «muori e divieni». 

Purtroppo, ormai in Occidente mancano (o sono in grave crisi) istituzioni deputate ad accompagnare la crescita umana del giovane. Vi è necessità di una educazione emotiva che dia strumenti al giovane per riconoscere, nominare e governare le proprie emozioni. Altrimenti succederà sempre più spesso che emozioni non riconosciute di rabbia vengano disregolate in aggressività, portando a violenze; o che emozioni non riconosciute di tristezza vengano disregolate in depressione. Così come sarebbe fondamentale una formazione al pensare, alla solitudine, al silenzio, al lavoro di conoscenza di sé, alla coltivazione dell’interiorità. 

E che cosa spetta al giovane? È fondamentale per un giovane imparare a guardarsi dal demone della facilità. Egli incontra oggi un’abbondante offerta di beni di comfort (enormemente accresciuta grazie al digitale) che danno gratificazione immediata, ma poi producono assuefazione, dipendenza e, alla lunga, noia, non gioia. Inoltre, abituano a una temporalità del tutto e subito, contraria al lavoro paziente, fatto anche di attese, correzioni e revisioni cammin facendo, tipiche di quel work in progress che è la costruzione di relazioni profonde. Relazioni in cui consistono tanto il senso quanto la felicità di una vita. 

Ha scritto frère Roger di Taizé: «Solo l’umile dono della propria persona ci rende felici». I cosiddetti beni di stimolo richiedono fatica, sforzo, impegno e risultano meno appetibili, ma solo assumendo la dimensione della fatica e dello sforzo si può costruire un sé robusto e relazioni serie. I beni di stimolo sono beni culturali, relazionali, afferenti l’ambito sociale (per esempio, il volontariato), la pratica sportiva, l’ambito spirituale. Ma per impegnare fatica e sforzo il giovane deve nutrire una passione, perché solo questa gli permette di raccogliere le proprie energie e porle a servizio del perseguimento del proprio scopo. Un consiglio ai giovani?

Coltivate creatività e immaginazione. E abbiate coraggio: osate voi stessi e il vostro desiderio.

Messaggero di Sant'Antonio

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venerdì 12 gennaio 2024

LA "CANNA" MAI E' LEGGERA

Nella letteratura scientifica sempre più evidenze della pericolosità del consumo di cannabis.

 Danni neurologici anche irreversibili tra gli adolescenti, con un contenuto di Thc che dal 5 è salito fino al 50%. Nei nuovi dati diffusi dal Ministero della Salute un capitolo scientifico che fa chiarezza su droghe e giovanissimi.

Al messaggio diffuso nella “Generazione Z” sulla presunta innocuità della cannabis si oppongono i dati delle ricerche su disturbi ed effetti anche gravi.

 

-         -di VIVIANA DALOISO

 Attacchi di panico, ansie, psicosi. Il grande male che sta scavando un abisso nell’esistenza dei nostri ragazzi, e che dal Covid in avanti ha fatto suonare un campanello d’allarme sulla fragilità della loro salute mentale, ha radici profonde che psicoterapeuti e neuropsichiatri negli ultimi mesi hanno cercato di mettere a fuoco mescolando gli esiti dell’isolamento sociale, l’incapacità di relazionarsi e gestire le responsabilità imposte da un mondo adulto sempre più distante, la sovraesposizione tecnologica. 

Non basta. Perché, se è vero che il 28% degli adolescenti in età scolare fa uso di stupefacenti (che per 600mila di loro è la cannabis), l’11% di psicofarmaci e addirittura il 50% di alcol, mescolandolo alle sostanze e alle pasticche, al computo delle cause di tanto disagio bisognerebbe trovare il coraggio di aggiungere una volta per tutte il capitolo dipendenze. L’argomento, invece, risulta per lo più dimenticato. Sul piano politico il dibattito resta viziato da strumentalizzazioni e slogan sempre uguali a sé stessi: l’ultima trovata è quella di una proposta di legge di iniziativa popolare per la coltivazione domestica di cannabis, promossa dalle associazioni radicali. Già trentamila le firme, raccolte con i soliti slogan: che non fa male (anzi, che farebbe persino bene), che l’uso personale deve essere consentito, che in altri Paesi si può acquistare e consumare nei “club” mentre da noi («proibizionisti») no. 

Argomenti persuasivi sul fronte di un’opinione pubblica ormai anestetizzata agli allarmi sulle cosiddette “droghe leggere”, che leggere non sono, senza che ai più giovani venga spiegato il perché. Esagerazioni? Tutt’altro: i dati appena diffusi dal Ministero della Salute sulla presa in carico di chi fa uso di sostanze nel nostro Paese (quasi 130mila persone nel 2022) evidenziano come oltre il 70% dei giovanissimi siano assistiti nei Serd proprio per dipendenza da cannabis. Due su tre. Depressione e psicosi legate al suo consumo i primi scogli da affrontare, proprio come avviene negli ospedali e nei Pronto soccorso, dove oltre la metà degli accessi per abuso di sostanze finisce con una diagnosi psichiatrica. «Niente che stupisca – spiega Antonio Bolognese, professore onorario di Chirurgia generale del dipartimento Pietro Valdoni del Policlinico Umberto I e responsabile scientifico della Commissione istituita dall’Ordine dei medici di Roma e Provincia per la valutazione e la prevenzione dei danni delle cannabis sui ragazzi –. La verità è che la scienza di questi danni parla ormai da anni, per lo più inascoltata».

 Quella che è cambiata è la penetrazione massiccia dei consumi nelle nuove generazioni (con un crollo della “prima volta” fino agli 11 anni) e soprattutto la concentrazione di principio attivo della cannabis: « Oggi quest’ultima risulta del tutto trasformata da coltivazioni intensive e modificazioni genetiche, con un contenuto di Thc che dal 5% è passato al 30% se non addirittura al 50%. È facile immaginare il danno incommensurabile, e sempre più spesso irreversibile, che una sostanza così pesante può avere su cervelli ancora in via di sviluppo, quali sono quelli dei nostri ragazzi fino ai 24 anni». Il consumo di cannabis interferisce infatti con la maturazione cerebrale, modifica comportamenti e capacità decisionali, causa deficit di memoria e di concentrazione (arrivando ad abbassare il quoziente intellettivo fino a 8 punti), altera la percezione della realtà e del pericolo, persino il coordinamento psicomotorio. «Di più, e ciò che è più grave: innesca danni permanenti sulla salute mentale aumentando il rischio di depressione, attacchi di panico e schizofrenia».

Sono le stesse conclusioni a cui è giunto lo scorso settembre lo studio pubblicato sul British medical journal, che per la prima volta ha messo a confronto oltre un centinaio di ricerche e pubblicazioni con l’obiettivo di misurare il rapporto tra rischi e benefici della cannabis. Dimostrando che «i primi superano di gran lunga i secondi» spiega Marco Solmi, lo psichiatra italiano che insegna all’Università di Ottawa e che ha coordinato il gruppo di lavoro. Impressionante il legame evidenziato dagli esperti tra il consumo della sostanza tra i più giovani e le alterazioni del funzionamento cognitivo che possono esporre con facilità agli incidenti stradali, a quelli sul lavoro, ma anche a tendenze autolesionistiche e suicidarie: tutti fenomeni che stanno travolgendo la cosiddetta “Generazione Z”, cresciuta sul piano culturale alla scuola della totale normalizzazione del consumo di cannabis. 

«La considerano una sostanza innocua, ciò che è manifestamente falso – sottolinea Solmi, che in Canada (dove la cannabis si può comprare liberamente) gestisce un centro per psicosi che accoglie sempre più ragazzi segnati dalle conseguenze di un consumo incontrollato – visto che scientificamente di innocuo non esiste nulla. Io non sono proibizionista, non ho ricette politiche, ma come uomo di scienza credo che i ragazzi vadano informati dei rischi che corrono. Di qui la necessità di questo studio, che lo dimostra al di là di prese di posizione ideologiche».

 È quel che tenta di fare anche il professor Bolognese nelle scuole, nelle società sportive e persino negli oratori di Roma con il progetto pilota sostenuto dall’Omceo: «Proviamo ad arrivare prima, già tra gli 8 e i 10 anni, a spiegare ai più piccoli che cos’è la cannabis prima che la incontrino». Serve una consapevolezza che manca, anche tra gli adulti, «anche tra molti medici, che ignorano i rischi del consumo e non trattano più la tossicodipendenza come una malattia. La nostra attività di formazione è rivolta a tutti, con l’obiettivo di una presa di coscienza collettiva».

 Canale Vita

www. Avvenire. it/ Vita


 

venerdì 10 luglio 2020

LA "GENERAZIONE Z" IN CERCA DI UNO SGUARDO DI VERA FIDUCIA


La nuova fotografia del Rapporto Giovani dell’Istituto Toniolo sulle relazioni dei ragazzi nati tra il 1997 e il 2012
Gli adolescenti oggi testimoniano una buona qualità dei rapporti familiari ma patiscono le stesse ambivalenze del mondo adulto, sentendosi fragili.
Occorre guardare al fenomeno adolescenza attuale non limitandosi a concentrarsi su ciò che manca ma cercando di valorizzare il bene che c’è perché possa esprimersi al meglio 
Chi ha la responsabilità di guidare i ragazzi deve aprirgli uno spiraglio di speranza per farli uscire dalla «liquidità»


PAOLA BIGNARDI*
ELENA MARTA

Quale sguardo siamo soliti posare sui giovani nati tra il 1997 e il 2012, i membri della cosiddetta Generazione Z, i fratelli minori dei Millennials, i primi veri nativi digitali? Una generazione nata e cresciuta in un mondo fortemente connotato dalla guerra al terrorismo seguita all’11 settembre, che ha vissuto gli esiti di una forte crisi economica e che ora, nel pieno della sua adolescenza e transizione all’età adulta, sta vivendo un’emergenza pandemica inedita e inattesa. Cosa vediamo quando li guardiamo? La loro condizione di rischio, in parte fisiologica data la fase che stanno vivendo e in parte legata alle letture mass-mediatiche dei 'rischiologi'? La loro visione concreta e realista, che sembra porre in secondo piano sogni e ideali? La loro capacità di appassionarsi per le condizioni ambientali del nostro pianeta, di scendere in piazza, di delineare scenari futuri di sviluppo, con competenza e caparbietà, alternando momenti di serietà con momenti di gioiosa confusione?
Non è indifferente lo sguardo che posiamo su di loro perché da esso discende il modo con cui li sappiamo valorizzare o squalificare, accompagnare e sostenere o dominare e mortificare e da cui, certo in maniera non deterministica ma possibile, a sua volta deriva il modo con cui si penseranno cittadini nelle loro comunità di vita. C onsapevole di questo, nel 2016 l’Istituto Toniolo, attraverso il suo Osservatorio Giovani, ha dato avvio alla ricerca nazionale longitudinale denominata «Generazione Z», giunta alla sua quarta rilevazione, che ha coinvolto mediamente 6mila adolescenti all’anno, studenti di diversi tipi di scuole secondarie superiori (licei, istituti tecnici e istituti professionali). In questa ricerca abbiamo deciso di guardare gli adolescenti con uno sguardo né malevolente né benevolente a priori, quanto piuttosto curioso, empatico, non giudicante ma nemmeno de-responsabilizzante, accogliente ma connotato dalla fermezza che dovrebbe caratterizzare l’adulto che si assume, in maniera generativa, la responsabilità di far crescere la generazione successiva alla propria. Abbiamo deciso di metterci in ascolto della loro voce, dei loro desideri, dei loro sogni. Ma anche di considerarli come soggetti-in-relazione con pari e adulti e soggetti-nei- contesti di vita che con essi condividono.
Dal punto di vista scientifico abbiamo assunto come frameworkteorico il «Positive Youth Development», un approccio nato all’interno della psicologia degli interventi di comunità che, pur non dimenticando i rischi e le difficoltà dell’ado- lescenza, focalizza l’attenzione contemporaneamente sia sui talenti delle persone sia sui contesti relazionali in cui essi possono svilupparsi e venir valorizzati.
Q uesto framework ci ha consentito di considerare gli adolescenti come persone nella loro pienezza senza ridurre i loro talenti a profili di competenze standard, ma valorizzandoli in termini di qualità personali che hanno un valore in sé e danno valore al Sé di ciascuno. Inoltre, focalizzare l’attenzione sui contesti relazionali ha significato per noi trattare il tema di ciò che fonda il legame interpersonale e sociale, ovvero la fiducia. Costrutto relazionale per eccellenza, essa si compone di tre aspetti: cognitivo, ovvero le informazioni che si possiedono sull’altro e le strategie co- gnitive che si possono utilizzare per prevedere il suo comportamento; emotivo, ovvero la paura di fidarsi dell’altro o, al suo opposto, un coinvolgimento 'cieco' e acritico nelle relazioni; pro-sociale o morale, ovvero l’interesse non tanto e non solo per sé, non tanto e non solo per l’altro, quanto soprattutto per la relazione. Non una relazione purchessia, ma una relazione generativa, attraversata dalla dinamica del dono, che sempre porta con sé gratuità e obbligo, riconoscimento dell’altro e gratitudine. Ecco perché lo sguardo che poniamo sui giovani è importante: se la fiducia è un prerequisito affinché la relazione si generi, è lo sguardo che noi poniamo sull’altro – e viceversa – che di fatto genera il legame o lo rigenera nel caso si sia incrinato o rotto.
L o sguardo degli adulti sui giovani dunque non è privo di conseguenze. Ecco perché è così importante guardare alla Generazione Z con fiducia e studiare la qualità delle relazioni che essa vive nei diversi contesti della sua quotidianità: per dare avvio a questo circolo relazionale virtuoso che offre senso al vivere e fonda il convivere con gli altri e con le altre generazioni.
Ecco perché abbiamo dedicato al tema della fiducia e delle relazioni significative degli adolescenti un capitolo del Rapporto Giovani 2020 (edito dal Mulino) e più diffusamente ne tratteremo nella pubblicazione di prossima uscita a fine luglio per i tipi di Vita e Pensiero.
Le relazioni indagate sono quelle con i familiari, padre, madre e fratelli/sorelle; con il partner e con i pari; con compagni di squadra e allenatori. Alle relazioni con gli insegnanti era stato dedicato il volume precedente. In generale i dati della ricerca ci mostrano che la qualità delle relazioni familiari è buona e che la mamma continua a rimanere la figura cardine delle relazioni degli adolescenti. Vale la pena notare, però, che anche con il padre vi sono relazioni positive: in particolare i dati pongono in luce un interessante asse padre-figlio maschio. È questo un dato che conferma come si sia chiusa l’epoca dei cosiddetti 'padri pallidi': il padre non ha più una posizione marginale ma è difficile definire i contorni della sua presenza all’interno del nucleo familiare.
Un altro elemento interessante è l’intensità con cui sembra che questa generazione viva le relazioni al Sud: sia gli aspetti più positivi sia quelli più critici, in questa parte del nostro Paese sono vissute 'al massimo', e restituiscono l’immagine di relazioni ricche e vive. Lo stesso profilo sembrano avere le relazioni per le sorelle rispetto ai fratelli.
Chi sono, dunque, i giovani e le giovani della Generazione Z? Sono persone/ cittadini in formazione che sperimentano più degli adulti le ambivalenze del vivere: sono figli delle libertà autoespressive e sono vittime di uno scenario sociale che li rende fragili ed esclusi. In questo non sono diversi dalla generazione adulta, con la quale oggi purtroppo troppo spesso condividono la difficoltà di dare una direzione e un senso coerente al proprio vivere. Come gli adolescenti delle generazioni precedenti hanno sogni e desideri, ancorati al loro tempo. E come ci siamo spesso trovate a dire, riconfermiamo che spetta a ogni generazione assumersi le proprie responsabilità. Agli adulti viene chiesto costantemente di assumersi le proprie responsabilità, termine molto usato soprattutto in questi tempi, che nella pratica però si traduce in stretti e impervi sentieri poco frequentati. È nostra la responsabilità di iniziare a guardare al 'fenomeno adolescenza' con occhi diversi: non solo puntare il dito su ciò che non funziona, che manca, che crea disagio o problemi, ma anche e soprattutto valorizzare ciò che già c’è e che ha bisogno di essere sostenuto per potersi esprimere al meglio. È responsabilità della generazione adulta aprire lo spiraglio alla speranza d’uscita dalla liquidità baumaniana, che significa rendere pensabile e possibile la speranza in un mondo veramente a misura di persona, capace di valorizzare i talenti di ciascuno/a e rinforzi costantemente quei circoli virtuosi di fiducia che rendono la vita degna di essere vissuta.

*Paola Bignardi è coordinatrice dell’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo Elena Marta è componente dell’Osservatorio Giovani docente di Psicologia sociale e di comunità all’Università Cattolica