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giovedì 8 agosto 2024

UBUNTU, UN'ETICA DELLA VITA


Umuntu ngumuntu ngabantu

 Il sudafricano Ramose illustra un concetto chiave nella struttura filosofica africana Anche rispetto alle grandi domande sulla giustizia sociale


-         -di DORELLA CIANCI

Umuntu ngumuntu ngabantu: tre parole, che racchiudono il senso della vita e che potremmo tradurre così: «Essere una persona significa affermare la propria umanità attraverso l’umanità degli altri» nella conseguente e infinita varietà di contenuto e forma. Questa traduzione (sicuramente imperfetta) di una parte della filosofia africana attesta, preliminarmente, un rispetto per la particolarità, l’individualità e la storicità, senza le quali la decolonizzazione di quel sapere non potrà mai avvenire fino in fondo. Dunque è finalmente arrivato il momento di metterci in ascolto di quel continente a cui fin troppo spesso abbiamo pensato, lungo il corso della storia, di insegnare, mentre avremmo dovuto limitarci a comprendere e apprendere. Uno dei momenti più significativi, ieri, del Congresso mondiale della filosofia sul tema della giustizia, dell’etica e del dialogo interculturale, si è avuto durante la sessione con Mogobe Ramose, docente presso il dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pretoria, fra gli altri ospiti. Ramose è uno dei più importanti filosofi sudafricani, noto soprattutto per la sua elaborazione della filosofia ubuntu. Qual è la peculiarità di questo pensiero? Innanzitutto, va detto che il termine “ubuntu” è un concetto chiave nella struttura etico-filosofica africana, poiché indica la bellezza del vivere “con”, dell’esser-ci fra gli altri, dell’umanità che acquista senso nel concetto di solidarietà e vicinanza concreta. L’insegnamento di Ramose è, ancor più, di grandissimo rilievo nella società contemporanea, che – con fatica e non senza ipocrisie – tenta di raggiungere una maggiore giustizia sociale attraverso l’attenzione ai popoli e agli ambienti più fragili, in primis proprio le diverse zone africane. Per far questo, tuttavia, è necessario conoscere e rimettere al centro il pensiero critico per contrastare le apparenze del linguaggio politico globale.

Ramose, innamorato del suo popolo e delle tradizioni della sua gente, mostra, invece, anche nei tanti scritti filosofici, un impegno incrollabile verso le grandi questioni della giustizia sociale, della politica, dell’etica, nel tentativo di sollevare quei grandi veli preconcettuali, che oscurano le verità. Gran parte del suo lavoro pare esser stato influenzato dal pensiero politico del sudafricano Robert Sobukwe, fondatore del Pan-Africanist Congress. Ramose ha contribuito e continua a contribuire brillantemente al pensiero e all’attivismo panafricanista: nel corso degli anni è diventato uno dei filosofi più citati in Sudafrica e uno dei filosofi del continente africano più noti alla comunità scientifica internazionale, ma anche al dibattito pubblico sui media di tutto il mondo. Le sue parole ci riportano, innanzitutto, alla storia e al tempo della lotta contro l’oppressione razziale in Sudafrica. Ramose nella sua relazione, ha percorso, con leggerezza, la storia delle idee di un continente che ancora fatica a esser visto nella sua essenza, lontano da paragoni e da chiavi interpretative etnocentriche e malate di occidentalismo; ha menzionato intellettuali all’interno di organizzazioni come l’African National Congress e il Pan-Africanist Congress, arrivando al Black Consciousness Movement composto da gruppi intellettuali e politici, i quali hanno sviluppato risposte concettuali (anche discordanti) rispetto alle grandi domande sulla giustizia sociale.

Non è facile condensare tutto il substrato culturale che è dentro gli scritti di Ramose, ma – senza scadere in semplificazioni – è doveroso soffermarsi sulla centralità della forza vitale all’interno della filosofia africana, spesso indicata come “etica della vita”. Questo concetto ci riporta a una sovrapposizione tra lo stile di vita legato al pensiero ubuntu e una valutazione ‘decolonizzata’ di quell’incontro fisiologico, che si verifica, nel pensiero africano, fra religione e filosofia. Come detto da Ramose, la scala comune che consente un pensiero autenticamente panafricano emerge solo attraverso il dialogo interreligioso, interculturale e attraverso l’esposizione reciproca (e congiunta) di concetti religiosi collegati a nodi cruciali filosofici. Il pensiero ubuntu, in tal senso, è il pensiero della compassione, quello che ci invita a incontrare la differenza per arricchire la cosiddetta “etica della vita”, imperniata tanto nella filosofia quanto nelle diverse religioni. La filosofia, in tal senso, per una parte del continente africano, va al cuore del rispetto per le particolarità delle credenze e delle pratiche altrui. 

Il rispetto per l’unicità dell’altro è strettamente collegato al rispetto per l’individualità. Tuttavia l’individualità citata nella filosofia ubuntu non è di matrice cartesiana. Al contrario, contraddice direttamente la concezione cartesiana dell’individualità, secondo cui l’individuo può essere concepito senza necessariamente pensare l’altro. L’individuo cartesiano esiste prima, o separatamente e indipendentemente dal resto della comunità o della società. Al contrario, la concezione ubuntu definisce l’individuo in termini di relazione con gli altri: la parola “individuo” significa una pluralità di personalità corrispondente alla molteplicità di relazioni in cui si trova l’individuo in questione. Essere un individuo significa “essere- con-gli-altri”, decisamente ben al di là dell’individualismo occidentale. Il caso della filosofia ubuntu è una lezione per stare nel mondo e con gli altri in armonia, escludendo la logica competitiva del conflitto.

www.avvenire.it

 

 

venerdì 22 settembre 2023

NAGORNO KARABAKH. CI INTERESSA?

 



di Giuseppe Savagnone*

 A chi interessa il Nagorno Karabakh?

In un momento in cui l’attenzione dell’opinione pubblica è unilateralmente concentrata sulle vicende diplomatiche e militari della guerra in Ucraina, ha ricevuto ben poca attenzione l’esplodere, in questi giorni, di un’altra guerra, anch’essa combattuta sul territorio del nostro continente, anche se di proporzioni quantitative molto più ridotte.

 E così, pochissimi, in Italia e in Occidente, si sono resi conto che la fulminea aggressione scatenata in questi giorni dall’Azerbaigian, con forze soverchianti, ha posto fine in 24 ore all’esistenza di un piccolo Stato, la repubblica dell’Artsakh, nato il 6 gennaio 1992 sul territorio del Nagorno Karabakh.

 Molto più deboli militarmente, abbandonati da tutti e mal sostenuti dalla stessa Armenia – il cui primo ministro Nikol Pashinyan è stato oggetto di aspre accuse di debolezza e di incapacità da parte della opinione pubblica armena – , i difensori della repubblica si sono dovuti arrendere per non essere massacrati e ormai l’intera regione è nelle mani delle forze azere.

 Può essere utile, per capire l’accaduto, un po’ di storia. Il contesto è quello dello sfacelo dell’Unione Sovietica, che diede luogo alla diaspora delle diverse realtà etniche che ne facevano parte. Una di esse fu l’Azerbaigian, che alla fine dell’agosto 1991 decise di dar vita ad una repubblica autonoma.

 Subito dopo, ai primi di settembre, il soviet del Nagorno Karabakh, una enclave a maggioranza etnica armena che si trovava all’interno del suo territorio, decise di non seguire l’Azerbaigian e votò per la costituzione di una nuova entità statale autonoma. Il 10 dicembre 1991 un referendum confermò la scelta dell’autonomia.

 Seguì, all’inizio del nuovo anno, la proclamazione ufficiale della repubblica, che però non è stata mai riconosciuta dalla comunità internazionale, pur fondandosi, indiscutibilmente, sul principio di autodeterminazione dei popoli.

 In ogni caso, l’Azerbaigian non ha mai rinunziato a questa parte del suo territorio. Già nel 1992 ha cercato di impedire con le armi la nascita del nuovo Stato, ma in quell’occasione uscì sconfitto nel conflitto con l’Armenia – un altro soggetto politico originato dalla diaspora dell’URSS – , che sosteneva gli autonomisti.

 Ma il fuoco covava sotto la cenere. Già nell’aprile del 2016 un attacco da parte degli azeri aveva dato luogo alla cosiddetta “guerra dei quattro giorni”. E nel novembre del 2020 l’Azerbaigian – sostenuto fortemente dalla Turchia – , dopo un attacco su vasta scala, ha riconquistato una parte del territorio del Nagorno Karabakh, sottraendolo al governo dell’Artsakh.

 Ora la guerra è esplosa nuovamente, di nuovo per iniziativa dell’Azerbaigian. Il pretesto – lo stesso sbandierato da Putin per giustificare l’aggressione all’Ucraina – è una “operazione antiterrorismo”. Ma tutti sanno che il progetto era di completare la conquista, iniziata nel 2020, dei territori dell’auto-proclamata repubblica autonoma.

 Intento pienamente realizzato, con l’aiuto degli armamenti forniti dalla Turchia e grazie anche all’inerzia della Russia – in passato sostenitrice dell’Armenia e garante dell’autonomia della neonata repubblica autonomista – , che invece in questa occasione, distratta dal altri problemi e bisognosa dell’appoggio turco su scenari più ampi, ha mantenuto un profilo bassissimo.

 Baku ha raggiunto tutti i suoi obiettivi: la resa di tutte le “formazioni militari armene illegali”, la consegna dell’intero arsenale in mano ai ribelli e il parallelo scioglimento delle autorità separatiste. In sostanza, la resa senza condizioni dell’Artsakh.

 Un grande silenzio

In realtà l’Azerbaigian ha potuto operare indisturbato anche perché gode, oltre che dell’appoggio della Turchia, di quello dello Stato di Israele, che punta su di esso in funzione anti-iraniana. Ma, oltre che su questi espliciti sostegni, ha anche potuto contare anche su un clima di sostanziale indifferenza per quanto stava accadendo. Della Russia si è detto. Ma anche l’Unione europea e gli Stati Uniti sono stati molto cauti nelle loro reazioni all’attacco azero, non andando al di là di generiche raccomandazioni di “cessate il fuoco”, ovviamente inascoltate da parte di chi stava prevalendo.

 Ci si potrebbe sorprendere di questo grande silenzio, in un contesto in cui, nel mondo occidentale, si rinnovano continuamente le proteste per l’invasione russa dell’Ucraina, in nome di princìpi etici inderogabili, come la libertà dei popoli.

 A quanto pare, gli aggrediti non sono tutti meritevoli della stessa solidarietà. Certo, come si accennava prima, la repubblica dell’Artsakh non è mai stata riconosciuta dagli altri Stati. E le dimensioni quantitative sono diverse nei due casi. in gioco la vita di 12.0000 armeni, pochi se confrontati con la popolazione ucraina.

 Ma l’etica non si può ridurre a una questione puramente giuridica e meno che mai a un problema di numeri e se è veramente per motivi morali che oggi la Nato è polarizzata, con uno sforzo diplomatico e militare senza precedenti, nel sostenere la causa delle vittime dell’aggressione di Putin, forse ci si sarebbe potuti aspettare che almeno un briciolo della sua sensibilità etica venisse investita anche nella difesa del piccolo popolo del Nagorno Karabakh. Magari intervenendo presso la Turchia, che è uno dei suoi membri, e che in questa vicenda è stata il principale sponsor dello Stato aggressore.

Ci sono in gioco, sicuramente, degli interessi economici Questo vale inannzi tutto per il nostro paese. Non tutti sanno che l’Azerbaigian è il primo fornitore di petrolio dell’Italia sin dal 2013. Secondo i dati di InfoMercati Esteri della Farnesina, in quell’anno, Baku (la capitale azera) ha superato la Libia e la Federazione Russa. Quella italo-azera è una partnership consolidata, divenuta ancora più importante con lo scoppio della guerra in Ucraina, quando Roma ha dovuto tagliare i rapporti energetici con Mosca, rivolgendosi a Stati come l’Algeria e, appunto, l’Azerbaigian.

 Reciprocamente, l’Italia è uno dei partner più importanti della repubblica azera per quanto riguarda la fornitura di armamenti. Le armi per invadere l’Artsakh le abbiamo fornite anche noi all’Azerbaijan.

 L’ Assemblea generale dell’Onu

La geopolitica, evidentemente, non si può appiattire automaticamente sull’etica. Non può non impressionare, però, che quest’ultima venga chiamata n causa in certe occasioni e non in altre.

 Al di là della vicenda del Nagorno Karabakh, si ha a volte l’impressione che essa venga strumentalizzata in base all’ordine del giorno stabilito secondo ben altri criteri e che l’enfasi con cui la si è applicata alla vicenda della guerra ucraina, pur legittima in sé, serva anche da alibi per nascondere altri problemi che hanno pure una valenza morale indiscutibile.

 Colpisce, per esempio, che nel recente dibattito all’Assemblea generale dell’ONU, di cui tanto si è parlato sui mass media e che è stato quasi esclusivamente centrato sul tema di questa guerra, si sia parlato molto poco e molto distrattamente di altri problemi che avevano una rilevanza sicuramente non minore e forse anche maggiore, riguardando non un singolo paese ma molti – quelli cosiddetti “in via di sviluppo” -, che avrebbero urgente bisogno di po’ di quegli ingentissimi aiuti economici che oggi vengono investiti unilateralmente per armare l’Ucraina.

 Si può leggere sul quotidiano «Avvenire» del 21 settembre scorso un resoconto di Elena Molinari che fa riflettere: «Al secondo giorno del dibattito generale all’ONU, sui banchi dell’Assemblea generale c’erano solo una manciata di leader e la galleria della stampa era quasi vuota.

 Sul podio della sala si stavano alternando i presidenti di Nigeria, Ecuador, Guyana, Angola, Tagikistan e Honduras», che non parlavano dell’Ucraina, ma «dei diciassette obiettivi di sviluppo sostenibile della Nazioni Unite» per risolvere problemi come «povertà estrema e fame, istruzione secondaria, azioni urgenti per combattere il cambiamento climatico». «Alcuni hanno ricordato che, ai ritmi attuali, entro la data stabilita del 2030 non se ne realizzerà neanche uno» e hanno parlato di «promesse non mantenute» da parte dei paesi ricchi.

 Particolarmente drammatica la situazione dell’Africa. Non che non che all’Assemblea dell’NU non se ne sia parlato. Lo ha fatto ampiamente anche il nostro presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Ma non per insistere sulla necessità di sostenerla nel suo sviluppo, bensì per caldeggiare misure contenitive dei flussi migratori da parte della comunità internazionale.

 L’etica, dell’Occidente, evocata ad ogni pie’ sospinto per condannare (giustamente) la politica di aggressione russa, anche in questo caso sembra stranamente latitante quando si tratta delineare gli scenari geopolitici relativi ad altre situazioni, dove pure essa, che lo si voglia o no, entra in gioco.

 Siamo ben lieti che l’etica venga chiamata in causa dalla politica. Ma forse dovremmo chiedere ai nostri governanti – italiani e no – maggior coerenza nell’appellarsi ad essa o, almeno, un po’ più di rispetto della nostra intelligenza.

 *Scrittore ed editorialista – Pastorale della Cultura Diocesi di Palermo

 

www.tuttavia.eu

 

sabato 16 ottobre 2021

AFRICA A RISCHIO


SULL’AFRICA 

UNA TEMPESTA PERFETTA

 

-          di PAOLO M. ALFIERI

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C’è una tempesta perfetta all’orizzonte di un’Africa che si interroga sul suo futuro. Tramontata, o almeno momentaneamente accantonata, la narrativa dell’«Africa rising» di qualche anno fa – quell’ottimismo diffuso di inizio millennio che poggiava su tassi di crescita del Pil a doppia cifra per molti Paesi africani e sull’emergere, finalmente, anche di una nuova classe media – il continente nero frena ora più del previsto. E non solo a causa di sue debolezze. Ogni volta che un nuovo rapporto esce, ogni volta che si snocciolano numeri, tabelle, grafici su una fame che è già lì solo a volerla osservare con sguardo attento e lucido, ci si chiede quale sia la novità rispetto al passato, cosa va meglio, cosa peggio, su quale aspetto si possa concretamente intervenire. Le Ong lanciano appelli, le agenzie Onu raccolgono fondi, le fondazioni benefiche, anche quelle nate in ambito religioso, provano a far sentire le voci «dal basso». Eppure, tutto questo sembra non bastare mai, la malnutrizione sempre dieci passi più avanti. Fame zero, è l’obiettivo che si è data l’Onu, un obiettivo che oggi scopriamo ancora più lontano, e non solo per l’Africa, con 20 milioni di persone in più rispetto al 2019 in stato di «insicurezza alimentare acuta» stando al rapporto Cesvi presentato ieri. A luglio, già lo studio annuale Sofi della Fao non aveva lasciato spazio a interpretazioni: la fame, sottolineava il documento, continua a crescere per il quinto anno consecutivo: nel mondo ne soffrono 811 milioni di persone.

L’incidenza della pandemia di Covid-19, il riscaldamento climatico di cui l’Africa soffre le maggiori conseguenze pur inquinando molto meno degli altri continenti, i conflitti che nel continente continuano a imperversare, senza contare la crescente penetrazione del terrorismo islamico, formano nubi micidiali sul futuro di intere regioni africane che già hanno a che fare con corruzione e cattivi modelli di governance. Il triangolo Mali-Niger-Burkina Faso, da questo punto di vista, è il perfetto emblema di una situazione allo sbando. La debolezza delle istituzioni, unita agli appetiti delle formazioni armate locali, ha favorito i crescenti conflitti per un bene sempre più prezioso e sempre meno coltivato, la terra.

L’insicurezza ha portato 1,5 milioni di persone a scappare dai propri villaggi, la crisi ambientale si è fatta alimentare,

poi sociale ed economica, etnico-religiosa, e infine umanitaria, compiendosi così in una grave forma di degrado umano. Un territorio in cui non vince il dialogo, ma vede regnare i potentati e i giochi di parte, è destinato a veder fallita in partenza la sfida contro la fame, pure complicata dalla volatilità dei prezzi delle materie prime, dall’energia ai beni agricoli. Il Sud Sudan, ultimo nato tra gli Stati africani, non ha fatto in tempo a esultare nel 2011 per la sua indipendenza che già all’orizzonte risuonavano tamburi di guerra.

Risultato: 7 milioni di persone, il 60% della popolazione, lottano ancora ogni giorno per riuscire a mangiare. È giusto, è necessario affrontare il nodo della mancanza di vaccini anti-Covid in Africa. Ma di pari passo va vinta la sfida della fame, quella del clima, quella dei conflitti, restituendo dignità umana a chi oggi fatica anche a reclamare i suoi più elementari diritti.

 

www.avvenire.it

 

venerdì 8 ottobre 2021

GURNAH: UNO IATO TRA CULTURA E CONTINENTI


 Da “Cuore di Tenebra” 

a “Paradise” 

perché il Nobel a Gurnah

-         di Luigi Saanlorenzo

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Per oltre due secoli l’immaginario collettivo è stato influenzato dall’intramontato racconto di Joseph Conrad “Cuore di Tenebra” pubblicato in inglese nel 1899 e tradotto in italiano nel 1924, cui si ispirò nel 1979 il capolavoro di Francis Ford Coppola “Apocalypse Now”, ambientando la vicenda durante la guerra del Vietnam.

Com’è noto, nel romanzo si narra la vicenda della ricerca del commerciante d’avorio Kurtz sulle cui tracce si mette il narratore Charles Marlowe, abilitando Conrad a tracciare un parallelismo tra Londra e l’Africa come luogo paradigmatico d’oscurità che avvolge molti territori persino nella “civilissima” Europa.

Di ritorno da uno dei suoi viaggi in Estremo Oriente, un giorno, nella vetrina di un negozio, Marlowe aveva visto la mappa el Congo. La cosa che più l’aveva colpito era il percorso di un grande fiume «somigliante a un immenso serpente srotolato, con la testa nel mare…la coda perduta nelle profondità del territorio». Era il fiume del viaggio che di lì a poco avrebbe intrapreso. Addentratosi nel fiume – anche se i nomi del fiume, dei luoghi e della foresta non sono mai esplicitati – in un lungo itinerario, a bordo di uno sgangherato vaporetto, dalla costa al centro, al luogo nel quale la coda del serpente si perde, Marlow compie una discesa in un’oscurità ben più profonda della funerea oscurità che avvolge il Tamigi, dove almeno i fanali permettono di individuare navi, il porto perduto nella nebbia, conducendo lo sguardo a un paesaggio conosciuto.

Romanzo/manifesto del colonialismo e dei suoi “orrori” l’opera ha mantenuto nel tempo l’Africa confinata in una sorta di non luogo dove alla rapacità degli sfruttatori occidentali corrisponde la passività dei nativi, quasi a giustificare la liceità della conquista, spacciata per civilizzazione.

Quasi duecento anni dopo, tale prospettiva viene ribaltata dal libro Paradise di Abdulrazak Gurnah pubblicato nel 2004 ed al cui autore è stato assegnato ieri il Premio Nobel per la Letteratura 2021.

Come spiega l’Accademia Reale, “Paradise” «è un racconto di formazione e una triste storia d’amore in cui mondi e sistemi di credenze diversi scontrarsi». Il tratteggio dei rifugiati, la tristezza e la disperazione descritta e poi ancora l’attenzione sull’identità sono gli elementi caratteristici delle opere di Gurnah: «I personaggi si trovano in uno iato tra culture e continenti, tra una vita che era e una vita emergente; è uno stato insicuro che non potrà mai essere risolto», sottolinea l’Accademia del Nobel nel conferire il premio, «rompe consapevolmente con le convenzioni, capovolgendo la prospettiva coloniale per evidenziare quella delle popolazioni indigene. Così, il suo romanzo ‘Desertion‘ (2005) su una storia d’amore diventa una netta contraddizione con quello che ha chiamato “il romanzo imperiale”». Ed è questa una netta presa di posizione degli Accademici svedesi, che non a caso, con questo premio hanno posto l’accento sull’emergenza mondiale dei migranti.

Lo scrittore tanzaniano naturalizzato britannico Abdulrazak Gurnah è nato nell’isola di Zanzibar nel 1948 e dal 1968 vive in Inghilterra, dove dapprima andò per studiare per poi diventare professore di letteratura inglese all’Università del Kent; come studioso si è dedicato a ricerche sulla narrativa postcoloniale e alle questioni associate al colonialismo, specialmente per quanto riguarda l’Africa.  Considerato uno dei più brillanti autori della letteratura africana post coloniale, è autore di acclamati romanzi come “Il disertore”, il già citato “Paradiso”considerato il suo capolavoro e “Sulla riva del mare” del 2005, tutti pubblicati in italiano da Garzanti.

Il racconto segue la storia di Yusuf, un ragazzo nato nella città immaginaria di Kawa in Tanzania all’inizio del XX secolo. Il padre è un albergatore indebitato con il ricco e potente mercante arabo Aziz. All’inizio della storia Yusuf è ceduto ad Aziz dal padre per pagare quanto dovuto e deve lavorare gratuitamente per il mercante e si unisce ad una carovana commerciale che viaggia in buona parte dell’Africa Centrale e del Congo, incontrando l’ostilità delle tribù locali, delle belve della savana e le asperità del territorio.

Al rientro in Africa orientale, scoppia la Prima Guerra mondiale ed Aziz entra in contatto con l’esercito tedesco che controllava la Tanzania, arruolando a forza gli africani nel proprio esercito coloniale.  Yusuf conosce la morte e la violenza e impara le difficili regole di convivenza di un mondo sull’orlo del conflitto, dove musulmani, missionari cristiani e indiani coesistono in un fragile equilibrio. Al ritorno è un altro: un giovane robusto e avvenente. È ancora schiavo, ma a dargli la libertà del cuore c’è l’amore, quello per la giovane ancella della padrona, Amina. Ma la ragazza cela un terribile segreto e, mentre il colonialismo europeo stringerà le sue maglie sul continente africano, Yusuf capirà il cammino che dovrà intraprendere.

Il libro avrà un seguito con il romanzo più recente di Gurnah, “Afterlives” pubblicato nel settembre del 2020 e che riprende dove finisce Paradise. E, come in quell’opera, l’ambientazione è all’inizio del XX secolo, nel periodo recedente la fine della colonizzazione tedesca dell’Africa orientale.

Hamza, un giovane che ricorda Yusuf in Paradise, è costretto a fare la guerra ai tedeschi e diventa dipendente da un ufficiale che lo sfrutta sessualmente. Ferito in uno scontro interno tra soldati tedeschi, viene lasciato in cura in un ospedale da campo. Ma quando torna al suo paese natale sulla costa, non trova né famiglia né amici. I venti capricciosi della storia dominano e come in Desertion seguiamo la trama attraverso diverse generazioni, fino al piano non realizzato dei nazisti per la ricolonizzazione dell’Africa orientale. L’epilogo è scioccante e tanto inaspettato quanto allarmante. Ma di fatto lo stesso pensiero ricorre costantemente nel libro: l’individuo è indifeso se l’ideologia regnante – in questo caso, il razzismo – esige sottomissione e sacrificio.

Il valore del conferimento del Premio Nobel a Gurnah non è solo letterario ma rappresenta una straordinaria attenzione all’attualità del tema dell’Africa e del nuovo colonialismo che la sta interessando, nel roboante silenzio dell’Unione Europea, di cui ho scritto in occasione della sanguinaria esecuzione dell’ambasciatore italiano in Congo, Luca Attanasio, e che i miei lettori dello Spessore ricorderanno.

Nelle già fredde regioni della Scandinavia, da sempre in prima linea nelle missioni umanitarie nei paesi in via di sviluppo, sembra proprio che il cuore batta piu forte e generoso che da noi!

 

Lo Spessore