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giovedì 10 luglio 2025

HO VISTO UN RE

 

-SANDOKAN !-

Italia, 1936. 

Emilio è un bambino fantasioso, con la passione per Sandokan. Un giorno crede di vederlo davvero, quando suo padre, podestà fascista, cattura e rinchiude in una voliera nel giardino di casa sua il principe africano Abraham Imirrù. A Emilio non sembra vero: finalmente potrà conoscere da vicino un eroe, ma suo padre, i suoi colleghi e tutto il suo paese non lo guarda allo stesso modo. 

Il razzismo è dilagante, come la violenza su chi è considerato «diverso».

Cos’è più forte della paura? L’immaginazione. I libri. Questi i cardini di Ho visto un re, storia fantastica contro la xenofobia, ispirata da una storia vera, quella di Nino Longobardi, futuro giornalista, ancora bimbo ai tempi della Campagna d’Africa, che si vede arrivare un prigioniero etiope nel suo paese d’origine. Siamo ai tempi del fascismo e della guerra.

Tra adulti che vivono di illusioni e bimbi che fanno di quell’illusione una realtà immaginaria, alternativa, si snoda il racconto del lungometraggio di Giorgia Farina, che «spariglia» le carte, mettendo al centro lo sguardo di un innocente, rendendo straordinario un ordinario percorso di scoperta e di crescita. Quella di Emilio, ragazzino di 10 anni appassionato dei romanzi di Salgari, che quindi nella sua mente vive a metà tra Mompracem e Roccasecca, suo luogo natìo.

Tutto parte proprio da qui, da questa tranquilla cittadina di provincia, dove nel 1936 la vita scorre pigramente tra slogan mussoliniani, bambini divisi tra Balilla e Piccole italiane, donne relegate al ruolo di mogli e madri e podestà pervasi dalla retorica di regime e dall’entusiasmo generale per la conquista dell’Etiopia, in un fervore coloniale senza precedenti.

L’Africa è un luogo mitico e lontano, terra di conquista e mistero.

La vita del piccolo paese laziale è «accesa» dall’arrivo del «confinato» Abraham Imirrù (Gabriel Gougsa), un ras etiope rinchiuso in una voliera nel giardino della villa del padre di Emilio (Marco Fiore), il podestà Marcello (Edoardo Pesce). È lui il motore del racconto insieme allo sguardo innocente del bambino, che non vede un prigioniero, o uno «scimmione puzzolente», bensì il suo eroe, lì, davanti a sé, in carne e ossa: Sandokan.

Tra federali e fascisti ridotti a macchiette umane, propaganda di regime grossolana, rozza, basata sull’assenza di conoscenza dell’altro, del diverso da noi, la chiave di lettura è nello sguardo puro, senza filtri, di Emilio e del suo amore per la letteratura d’avventura. Così la realtà si trasforma: si apre la gabbia materiale e metaforica delle menti, degli spiriti più ottusi, come quello del podestà razzista e chiuso (l’unico personaggio che non si evolverà per tutto il film) o del federale Trocca, ancora più «prigioniero» del pensiero fascista, «villain», reso da un eccellente Gaetano Bruno, e si è capaci di guardare all’altro come a un nostro simile, un essere umano.

Farina, alternando il registro della commedia e del grottesco, utilizzando la fantasia come grimaldello per scardinare la brutalità del reale, non solo propone una critica alla dittatura fascista, ma, in una visione più ampia, indica quanto chi è ai margini della società in realtà abbia un pensiero libero, lucido e «irridente» sul mondo. I temi del colonialismo, dell’odio razziale, dell’identità sono attraversati sempre con levità, grazie all’immensa meraviglia e al potere dell’immaginazione di Emilio. Tra registro fiabesco e realistico, il film inquadra con accuratezza il periodo storico, rimanendo sui tratti del sognante e del naïf. È interessante, anche per una carezza interiore: all’essere umano è dato evolversi, a patto però di mantenere il cuore aperto, e il resto verrà da sé; non saremo più soli su quel vascello che avanza intrepido verso l’avventura più grande, la versione migliore di noi stessi.

 La Civiltà Cattolica




sabato 6 gennaio 2024

RISCRIVERE IL PASSATO

 L'ex museo coloniale di Roma è ora il Museo delle Civiltà. Viene operata una riscrittura del passato coloniale italiano. 

Una sfida per la scuola

 

-di Fabrizio Foschi

Roma, città eterna e capitale d’Italia, è anche la sede di una importante rivisitazione e riscrittura del nostro passato. Si tratta di una operazione culturale e formativa di non poco conto. Ci riferiamo alla nuova collocazione dell’ex museo coloniale di Roma, le cui opere e documenti hanno trovato una nuova sistemazione presso gli edifici in stile razionalista del Museo delle Civiltà, nella zona monumentale dell’Eur, implicato in un percorso “di progressiva e radicale revisione che metterà in discussione, provando a riscriverle, la sua storia, la sua ideologia istituzionale e le sue metodologie di ricerca e pedagogiche” (questi i termini con cui si presenta il sito museodellecivilta.it in corso di aggiornamento).

 La nuova veste, e dunque il nuovo impianto categoriale da cui si prende spunto per comporre la nuova narrativa coloniale, fa perno sul tema della “opacità”. Il museo delle “opacità”, si legge nelle didascalie interne alla esposizione permanente, è indirizzato a “documentare la complessità del passato coloniale, ricercarla nel presente, condividerla per il futuro”. Le vicende coloniali italiane sono parte integrante, del nostro passato e non sono solo un’eredità fascista, dato che la storia coloniale italiana in Africa data dal 1882 al 1960. Nel nuovo museo delle opacità (seguiamo sempre la traccia orientativa dei curatori) i reperti (circa 12mila oggetti, tra carte, manufatti, opere d’arte) chiusi dal 1971 in un deposito romano costituiscono oggi una nuova fonte di conoscenza, testimoniando allo stesso tempo come una storia rimossa (l’occupazione di terre oltremare) possa riprendere vita se giudicata nel presente.

 Il nuovo progetto è così illustrato dall’attuale direttore del Museo delle Civiltà, Andrea Viliani: “Da una parte si può pensare che il termine opacità sia affine al velo di amnesia steso sulla storia coloniale italiana, come se fosse qualcosa di dimenticato e dimenticabile. Dall’altro è invece un termine positivo, che ha qualcosa di assolutamente gioioso, fantasioso e poetico. Nel 1959 uno scrittore, Édouard Glissant (Martinica, 1928-Parigi, 2011), partecipa proprio qui a Roma al Congresso degli scrittori e degli artisti neri all’Istituto italiano per l’Africa di Roma […] Nella poetica di questo autore non esiste nulla di trasparente, non esiste un’identità trasparente, non esiste un’azione trasparente. Nulla è trasparente, nemmeno l’aria, e questo ce l’ha insegnato nella pittura già Leonardo da Vinci, con lo sfumato”. Fin qui Viliani. In altri approfondimenti collegati al riassetto si precisa che l’opacità teorizzata dal poeta Glissant è il diritto, valido per tutti, di “non assoggettare la propria identità alla comprensione degli altri, alla trasparenza che classifica in modo unilaterale, all’accettazione che riduce alle categorie già esistenti”. In questo senso (siamo ancora nell’ottica di Glissant), ogni individuo ha il diritto di non subordinare la propria identità a criteri che comportano un’appropriazione e una classificazione unilaterali, ma piuttosto al criterio della “condivisione”, che permette di assumere e condividere identità autonome e specifiche, generate da sé stessi.

 Applicata pertanto alla storia del colonialismo, l’opacità fornirebbe uno strumento di lettura delle sue dinamiche interne che avrebbero violato le identità altrui (le culture dei popoli sottomessi), costringendole entro parametri di “comprensione”, da intendere come “movimento delle mani che prendono ciò che le circonda e lo riportano a sé”. È questo, in sintesi, quanto emerge dalle indicazioni esplicative interne al museo e ai siti di riferimento.

 Ma c’è di più. Il museo delle opacità si propone di ricontestualizzare il passato coloniale, ponendo gli oggetti provenienti dalle ex colonie a contatto con documenti e opere d’arte contemporanee. Dal confronto (o dialogo) tra passato e presente emergerebbe come la collocazione di un oggetto in una particolare situazione (per esempio un oggetto rituale posto erroneamente a indicare una inutile forma di superstizione piuttosto che l’anima religiosa di un popolo) assume il valore di una “testimonianza antropologica”, ovvero si configura come memoria critica del contesto che ha originato un certo ambito museale, nonché delle relazioni tra gli oggetti e i dispositivi linguistici ed espositivi che ne hanno sostenuto l’interpretazione.

 Al termine di questa breve carrellata relativa ad un’operazione culturale di indubbio impatto e forte dimensione innovativa, specie sul versante della proposta didattica alla scuola e all’università, è inevitabile collocare il tentativo entro l’orizzonte di quella riscrittura del passato, bello o brutto che sia, che orienta tanta parte della storiografia ufficiale contemporanea. Si va dalla cancellazione di intere sequenze storiche ritenute non congruenti con l’opinione prevalente, alla revisione di momenti della storia europea che hanno visto gli Stati del vecchio continente lanciati verso il dominio di mezzo mondo.

 Il colonialismo è stato un vizio comune a democrazie e autoritarismi, repubbliche e formazioni totalitarie. Espungerlo non serve, bisogna capirlo, come tanti studi hanno cercato di fare. In esso, e il capitolo italiano non ne è esente, si mescolano desiderio di conquista, nazionalismo, razzismo e anche percorsi di re-insediamento della popolazione nazionale in esubero presso territori “vergini”. È anche vero che il colonialismo ha partorito una ermeneutica dalla quale è ancora oggi difficile uscire, basti pensare da una parte al mito dalla “grande proletaria” (l’Italia) che aveva il diritto ad un posto al sole e, dall’altra, ai complessi di colpa che ancora affliggono società che hanno pagato un alto prezzo per le loro avventure in terre lontane. 

La realtà del colonialismo bisogna guardarla tutta intera, compreso il meccanismo del consenso che esso ha generato intorno a sé, indistintamente, presso nazioni dalla diversa matrice e caratura. Ben venga dunque l’uso dell’opacità, purché non sia ostativa ad una “comprensione”, afferente in questo caso più che al verbo “afferrare”, all’intenzione di cogliere il senso di un passato che è impossibile rimuovere perché segna ancora il nostro presente.

 Il Sussidiario

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venerdì 8 ottobre 2021

GURNAH: UNO IATO TRA CULTURA E CONTINENTI


 Da “Cuore di Tenebra” 

a “Paradise” 

perché il Nobel a Gurnah

-         di Luigi Saanlorenzo

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Per oltre due secoli l’immaginario collettivo è stato influenzato dall’intramontato racconto di Joseph Conrad “Cuore di Tenebra” pubblicato in inglese nel 1899 e tradotto in italiano nel 1924, cui si ispirò nel 1979 il capolavoro di Francis Ford Coppola “Apocalypse Now”, ambientando la vicenda durante la guerra del Vietnam.

Com’è noto, nel romanzo si narra la vicenda della ricerca del commerciante d’avorio Kurtz sulle cui tracce si mette il narratore Charles Marlowe, abilitando Conrad a tracciare un parallelismo tra Londra e l’Africa come luogo paradigmatico d’oscurità che avvolge molti territori persino nella “civilissima” Europa.

Di ritorno da uno dei suoi viaggi in Estremo Oriente, un giorno, nella vetrina di un negozio, Marlowe aveva visto la mappa el Congo. La cosa che più l’aveva colpito era il percorso di un grande fiume «somigliante a un immenso serpente srotolato, con la testa nel mare…la coda perduta nelle profondità del territorio». Era il fiume del viaggio che di lì a poco avrebbe intrapreso. Addentratosi nel fiume – anche se i nomi del fiume, dei luoghi e della foresta non sono mai esplicitati – in un lungo itinerario, a bordo di uno sgangherato vaporetto, dalla costa al centro, al luogo nel quale la coda del serpente si perde, Marlow compie una discesa in un’oscurità ben più profonda della funerea oscurità che avvolge il Tamigi, dove almeno i fanali permettono di individuare navi, il porto perduto nella nebbia, conducendo lo sguardo a un paesaggio conosciuto.

Romanzo/manifesto del colonialismo e dei suoi “orrori” l’opera ha mantenuto nel tempo l’Africa confinata in una sorta di non luogo dove alla rapacità degli sfruttatori occidentali corrisponde la passività dei nativi, quasi a giustificare la liceità della conquista, spacciata per civilizzazione.

Quasi duecento anni dopo, tale prospettiva viene ribaltata dal libro Paradise di Abdulrazak Gurnah pubblicato nel 2004 ed al cui autore è stato assegnato ieri il Premio Nobel per la Letteratura 2021.

Come spiega l’Accademia Reale, “Paradise” «è un racconto di formazione e una triste storia d’amore in cui mondi e sistemi di credenze diversi scontrarsi». Il tratteggio dei rifugiati, la tristezza e la disperazione descritta e poi ancora l’attenzione sull’identità sono gli elementi caratteristici delle opere di Gurnah: «I personaggi si trovano in uno iato tra culture e continenti, tra una vita che era e una vita emergente; è uno stato insicuro che non potrà mai essere risolto», sottolinea l’Accademia del Nobel nel conferire il premio, «rompe consapevolmente con le convenzioni, capovolgendo la prospettiva coloniale per evidenziare quella delle popolazioni indigene. Così, il suo romanzo ‘Desertion‘ (2005) su una storia d’amore diventa una netta contraddizione con quello che ha chiamato “il romanzo imperiale”». Ed è questa una netta presa di posizione degli Accademici svedesi, che non a caso, con questo premio hanno posto l’accento sull’emergenza mondiale dei migranti.

Lo scrittore tanzaniano naturalizzato britannico Abdulrazak Gurnah è nato nell’isola di Zanzibar nel 1948 e dal 1968 vive in Inghilterra, dove dapprima andò per studiare per poi diventare professore di letteratura inglese all’Università del Kent; come studioso si è dedicato a ricerche sulla narrativa postcoloniale e alle questioni associate al colonialismo, specialmente per quanto riguarda l’Africa.  Considerato uno dei più brillanti autori della letteratura africana post coloniale, è autore di acclamati romanzi come “Il disertore”, il già citato “Paradiso”considerato il suo capolavoro e “Sulla riva del mare” del 2005, tutti pubblicati in italiano da Garzanti.

Il racconto segue la storia di Yusuf, un ragazzo nato nella città immaginaria di Kawa in Tanzania all’inizio del XX secolo. Il padre è un albergatore indebitato con il ricco e potente mercante arabo Aziz. All’inizio della storia Yusuf è ceduto ad Aziz dal padre per pagare quanto dovuto e deve lavorare gratuitamente per il mercante e si unisce ad una carovana commerciale che viaggia in buona parte dell’Africa Centrale e del Congo, incontrando l’ostilità delle tribù locali, delle belve della savana e le asperità del territorio.

Al rientro in Africa orientale, scoppia la Prima Guerra mondiale ed Aziz entra in contatto con l’esercito tedesco che controllava la Tanzania, arruolando a forza gli africani nel proprio esercito coloniale.  Yusuf conosce la morte e la violenza e impara le difficili regole di convivenza di un mondo sull’orlo del conflitto, dove musulmani, missionari cristiani e indiani coesistono in un fragile equilibrio. Al ritorno è un altro: un giovane robusto e avvenente. È ancora schiavo, ma a dargli la libertà del cuore c’è l’amore, quello per la giovane ancella della padrona, Amina. Ma la ragazza cela un terribile segreto e, mentre il colonialismo europeo stringerà le sue maglie sul continente africano, Yusuf capirà il cammino che dovrà intraprendere.

Il libro avrà un seguito con il romanzo più recente di Gurnah, “Afterlives” pubblicato nel settembre del 2020 e che riprende dove finisce Paradise. E, come in quell’opera, l’ambientazione è all’inizio del XX secolo, nel periodo recedente la fine della colonizzazione tedesca dell’Africa orientale.

Hamza, un giovane che ricorda Yusuf in Paradise, è costretto a fare la guerra ai tedeschi e diventa dipendente da un ufficiale che lo sfrutta sessualmente. Ferito in uno scontro interno tra soldati tedeschi, viene lasciato in cura in un ospedale da campo. Ma quando torna al suo paese natale sulla costa, non trova né famiglia né amici. I venti capricciosi della storia dominano e come in Desertion seguiamo la trama attraverso diverse generazioni, fino al piano non realizzato dei nazisti per la ricolonizzazione dell’Africa orientale. L’epilogo è scioccante e tanto inaspettato quanto allarmante. Ma di fatto lo stesso pensiero ricorre costantemente nel libro: l’individuo è indifeso se l’ideologia regnante – in questo caso, il razzismo – esige sottomissione e sacrificio.

Il valore del conferimento del Premio Nobel a Gurnah non è solo letterario ma rappresenta una straordinaria attenzione all’attualità del tema dell’Africa e del nuovo colonialismo che la sta interessando, nel roboante silenzio dell’Unione Europea, di cui ho scritto in occasione della sanguinaria esecuzione dell’ambasciatore italiano in Congo, Luca Attanasio, e che i miei lettori dello Spessore ricorderanno.

Nelle già fredde regioni della Scandinavia, da sempre in prima linea nelle missioni umanitarie nei paesi in via di sviluppo, sembra proprio che il cuore batta piu forte e generoso che da noi!

 

Lo Spessore