Umuntu ngumuntu ngabantu
Il sudafricano Ramose illustra un concetto chiave nella struttura filosofica africana Anche rispetto alle grandi domande sulla giustizia sociale
- -di DORELLA CIANCI
Umuntu ngumuntu ngabantu:
tre parole, che racchiudono il senso della vita e che potremmo tradurre così:
«Essere una persona significa affermare la propria umanità attraverso l’umanità
degli altri» nella conseguente e infinita varietà di contenuto e forma. Questa
traduzione (sicuramente imperfetta) di una parte della filosofia africana
attesta, preliminarmente, un rispetto per la particolarità, l’individualità e
la storicità, senza le quali la decolonizzazione di quel sapere non potrà mai
avvenire fino in fondo. Dunque è finalmente arrivato il momento di metterci in
ascolto di quel continente a cui fin troppo spesso abbiamo pensato, lungo il
corso della storia, di insegnare, mentre avremmo dovuto limitarci a comprendere
e apprendere. Uno dei momenti più significativi, ieri, del Congresso mondiale
della filosofia sul tema della giustizia, dell’etica e del dialogo
interculturale, si è avuto durante la sessione con Mogobe Ramose, docente
presso il dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pretoria, fra gli
altri ospiti. Ramose è uno dei più importanti filosofi sudafricani, noto
soprattutto per la sua elaborazione della filosofia ubuntu. Qual è la
peculiarità di questo pensiero? Innanzitutto, va detto che il termine “ubuntu”
è un concetto chiave nella struttura etico-filosofica africana, poiché indica
la bellezza del vivere “con”, dell’esser-ci fra gli altri, dell’umanità che
acquista senso nel concetto di solidarietà e vicinanza concreta. L’insegnamento
di Ramose è, ancor più, di grandissimo rilievo nella società contemporanea, che
– con fatica e non senza ipocrisie – tenta di raggiungere una maggiore
giustizia sociale attraverso l’attenzione ai popoli e agli ambienti più
fragili, in primis proprio le diverse zone africane. Per far questo, tuttavia,
è necessario conoscere e rimettere al centro il pensiero critico per
contrastare le apparenze del linguaggio politico globale.
Ramose, innamorato del
suo popolo e delle tradizioni della sua gente, mostra, invece, anche nei tanti
scritti filosofici, un impegno incrollabile verso le grandi questioni della
giustizia sociale, della politica, dell’etica, nel tentativo di sollevare quei
grandi veli preconcettuali, che oscurano le verità. Gran parte del suo lavoro
pare esser stato influenzato dal pensiero politico del sudafricano Robert
Sobukwe, fondatore del Pan-Africanist Congress. Ramose ha contribuito e
continua a contribuire brillantemente al pensiero e all’attivismo
panafricanista: nel corso degli anni è diventato uno dei filosofi più citati in
Sudafrica e uno dei filosofi del continente africano più noti alla comunità
scientifica internazionale, ma anche al dibattito pubblico sui media di tutto
il mondo. Le sue parole ci riportano, innanzitutto, alla storia e al tempo
della lotta contro l’oppressione razziale in Sudafrica. Ramose nella sua
relazione, ha percorso, con leggerezza, la storia delle idee di un continente
che ancora fatica a esser visto nella sua essenza, lontano da paragoni e da
chiavi interpretative etnocentriche e malate di occidentalismo; ha menzionato
intellettuali all’interno di organizzazioni come l’African National Congress e
il Pan-Africanist Congress, arrivando al Black Consciousness Movement composto
da gruppi intellettuali e politici, i quali hanno sviluppato risposte
concettuali (anche discordanti) rispetto alle grandi domande sulla giustizia
sociale.
Non è facile condensare tutto il substrato culturale che è dentro gli scritti di Ramose, ma – senza scadere in semplificazioni – è doveroso soffermarsi sulla centralità della forza vitale all’interno della filosofia africana, spesso indicata come “etica della vita”. Questo concetto ci riporta a una sovrapposizione tra lo stile di vita legato al pensiero ubuntu e una valutazione ‘decolonizzata’ di quell’incontro fisiologico, che si verifica, nel pensiero africano, fra religione e filosofia. Come detto da Ramose, la scala comune che consente un pensiero autenticamente panafricano emerge solo attraverso il dialogo interreligioso, interculturale e attraverso l’esposizione reciproca (e congiunta) di concetti religiosi collegati a nodi cruciali filosofici. Il pensiero ubuntu, in tal senso, è il pensiero della compassione, quello che ci invita a incontrare la differenza per arricchire la cosiddetta “etica della vita”, imperniata tanto nella filosofia quanto nelle diverse religioni. La filosofia, in tal senso, per una parte del continente africano, va al cuore del rispetto per le particolarità delle credenze e delle pratiche altrui.
Il rispetto per l’unicità dell’altro è
strettamente collegato al rispetto per l’individualità. Tuttavia
l’individualità citata nella filosofia ubuntu non è di matrice cartesiana. Al
contrario, contraddice direttamente la concezione cartesiana
dell’individualità, secondo cui l’individuo può essere concepito senza
necessariamente pensare l’altro. L’individuo cartesiano esiste prima, o separatamente
e indipendentemente dal resto della comunità o della società. Al contrario, la
concezione ubuntu definisce l’individuo in termini di relazione con gli altri:
la parola “individuo” significa una pluralità di personalità corrispondente
alla molteplicità di relazioni in cui si trova l’individuo in questione. Essere
un individuo significa “essere- con-gli-altri”, decisamente ben al di là
dell’individualismo occidentale. Il caso della filosofia ubuntu è una lezione
per stare nel mondo e con gli altri in armonia, escludendo la logica
competitiva del conflitto.
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