José Tolentino
de Mendonça
- - di Davide Brullo
Di
primo acchito, sorride. Gli occhi sembrano colibrì dietro la voliera delle
lenti. Pare innocuo, un parroco di campagna – per questo bisogna stare in
sospetto, tendere le gambe e le orecchie, come archi. José Tolentino è nato a Madeira, in Portogallo, a metà
dicembre del 1965; ha quattro fratelli, lui è il più giovane. “Mio padre faceva
il pescatore”, mi dice. È la seconda cosa che dice. La prima è una domanda.
“Qual è il senso che usa quando scrive una poesia?”. Forse l’udito, dico. Mi
piace sentire il rumore di un verso: a volte è un legno che si spezza, a volte
un barrito, a volte anelli che ragliano in un secchio. In un paio di
poesie, José Tolentino si chiede Cos’è una poesia.
“Una poesia è una forma di apostasia. Non c’è vera poesia che non faccia del
soggetto un fuorilegge”. E poi: “Una poesia segue le premesse della guerriglia
urbana”. In portoghese la parola permissas mi rimanda a
“promessa”: la poesia come promessa di guerriglia.
In
Portogallo José Tolentino è riconosciuto come uno dei poeti più
importanti di oggi: per quel che conta, ha ottenuto molti premi. Il primo
libro, Os dias contados, esce nel 1990, l’anno in cui è ordinato
presbitero. Di fronte a San Pietro: canonica fila di visitatori, aureolati da
impermeabili dai colori sgargianti. Il colonnato di piazza San Pietro può
sembrare un abbraccio – o un giogo. Il palazzo in cui ci ospita José Tolentino è enorme, vuoto, con vasti corridoi che
danno su decine di stanze e uffici, decorati con severa eleganza. Sono insieme
a Nicola Crocetti, l’editore di Tolentino; a me questa traboccante bellezza
ricorda alcune scene di Shining.
José Tolentino, il poeta, è stato nominato arcivescovo
da papa Francesco nel 2018; dal 2022 è Prefetto del
Dicastero per la cultura e l’educazione, che, tra l’altro – così leggo
nella Praedicate evangelium –, “promuove e sostiene le
relazioni tra la Santa Sede e il mondo della cultura”. Nel suo stemma campeggia
un giglio giallo su scudo rosso, con questo motto, Considerate lilia
agri; è tratto dal capitolo sesto del Vangelo di Matteo: Gesù invita a non
occuparsi “di quello che mangerete o berrete”, di non domandarsi “che cosa
indosseremo?”, ma di cercare “il regno di Dio e la sua giustizia”. Il resto
verrà di conseguenza.
Il
cardinale – celato sotto la bonaria gentilezza di un parroco di campagna – ama
Pier Paolo Pasolini, ricorda la Prima lettera ai Corinzi tradotta
da Giovanni Testori, cita Eugenio Montale e Ungaretti. Non frequenta i poeti
italiani, fa una vita ritirata, improntata alla solitudine e all’austerità:
preferisce Milo De Angelis, di cui ha apprezzato anche la traduzione del De
rerum natura di Lucrezio. Parliamo di Elizabeth Bishop in Brasile e
dei suoi amici poeti, portoghesi, Ana Luísa Amaral, Eugénio de Andrade. La sua
curiosità per la poesia di oggi è inesauribile. Ogni giorno, per mestiere,
parla in almeno quattro lingue: non ha mai pensato di scrivere in inglese, o in
italiano? “È più difficile liberarsi della propria madre che della lingua
madre”, mi dice, laconico. “A me piace guardarle…”, mi dice. Siamo a tornati a
parlare dei cinque sensi – o forse sei, forse sette, come le virtù – della
poesia. “Le parole, intendo. Mi piace guardarle. Mi piace osservarle. Come
fossero un presagio, un sortilegio”. Un gioco di prestigio, vorrei dirgli.
Prima
di rispondere, allo scoccare di ogni domanda, il cardinale poeta fissa il
vuoto, organizza la topografia del pensiero. Le sedie sono fin troppo
comode.
Lei
insiste spesso sui legami tra poesia e fede, elementi che possono apparire in
contraddizione. La fede, intendo, è come se uniformasse, orientasse la
direzione della poesia. Qual è il punto di giunzione che lega poesia e fede?
Questa
è per me una domanda centrale. Noi siamo una rivelazione a noi stessi, ci
sveliamo nel tempo. Ecco, per me l’espressione letteraria è affine
all’esistenza: la poesia è cioè una questione di vita o di morte. La poesia ha
fatto ingresso durante il mio cammino di ricerca spirituale. Sono entrato in
seminario a undici anni: nella costruzione di me stesso poesia e fede hanno
trovato una forma di coesistenza, di unità. Non è un caso se nell’anno in cui
sono stato ordinato prete, nel 1990, ho pubblicato la prima raccolte di poesie. D’altronde,
se un avvocato, un medico o un calciatore possono essere poeti, non si vede
perché non lo possa essere un prete…
…ma
poesia e fede non sono la stessa cosa…
Le
dico di più: poesia e fede non convivono pacificamente. Secondo il cardinal
John Henry Newman il discorso della fede riguarda l’aderire a una particolare
grammatica. La poesia, invece, chiede solitudine e deserto, uno svuotamento
radicale. La pagina bianca non è altro che una metafora della nudità che un
uomo deve sperimentare davanti alle domande fondamentali della vita. Per quel
che mi riguarda, non sono capace di scrivere una poesia “confessionale”, non mi
interessa una poesia dottrinale o catechetica. Nella mia poesia Dio non è mai
esplicitato: è una presenza, una domanda, all’orizzonte. Quando per me sarà
facile parlare di Dio, lo avrò tradito in ciò che profondamente è.
Eppure,
c’è chi ha fatto della poesia una forma di fede, ha eletto la poesia a proprio
dio.
Provo
a rispondere alla sua domanda formulandola in questa maniera: la poesia è in
grado di salvare l’uomo? No, perché nessuna parola umana è sufficiente. Ma è
questa insufficienza la ragione della sua grandezza. Questa insufficienza ci
pone sulla soglia di qualcosa. Poesia e letteratura, in fondo, fondano l’uomo
come una figura dell’attesa. La poesia non redime l’uomo, non risponde al suo
enigma. La poesia fa di ciascuno di noi un’attesa: ci colloca in prossimità di
qualcos’altro, ed è tanto, tantissimo. Sono certo che cancellare la
trascendenza sia un errore, una dannazione.
Lei
ha detto, durante un incontro pubblico, che “Gesù è un poeta”: cosa voleva
dire?
La
figura di Gesù provoca in me uno stupore senza fine perché Egli è veramente
estraneo alla terra, eppure è il più vicino all’umanità, il più umano tra le
creature. Le sue parabole aprono cammini e possibilità prima inesistenti, suo è
il potere rigenerante della parola. Gesù incarna nel suo stile la potenza del
Verbo: sa andare oltre le frontiere, porta in sé una visione più ampia,
solitaria e autentica. Controcorrente. In questo senso è davvero poeta: guarda
alla realtà dislocando il suo senso in un oltre. Anche quando la poesia parla
del presente, non coincide mai con questo presente, viene da più lontano e va
più lontano. Gesù esprime una poetica chiara nei suoi gesti: segna la realtà
con vigore poetico. I miracoli esistono perché esiste una poetica di Gesù, che
vuol dire rifare il mondo e il suo detto.
Quando
parla di poesia, mi accorgo che usa spesso le parole “deserto” e “solitudine”,
come mai?
C’è
pure quel brano di Osea, paradossale, in cui Dio dice “la condurrò nel deserto
e parlerò al suo cuore”. È il movimento che fa la poesia. La poesia lavora
sempre in ciò che ignoriamo di noi, mai in quello che abbiamo già visto; la
poesia odia il facile, ci fa abitare in una complessità austera che si
rispecchia nell’immagine del deserto. A un primo livello, è vero, nella mia
poesia c’è la descrizione della vita comune: un critico, a questo proposito, ha
scritto che con i miei versi le buste del supermercato sono entrate per la
prima volta nella lirica portoghese. Eppure, la poesia chiede di andare oltre
la realtà: pretende il deserto, il silenzio.
Nei
suoi lavori, usa spesso la letteratura per rischiarare alcuni problemi
teologici: cita Pessoa, Clarice Lispector, i poeti contemporanei…
Paul
Claudel credeva che la poesia fosse una propedeutica necessaria al discorso
teologico. Ringraziava Dio dell’esistenza di Rimbaud perché senza la sua
“mistica selvaggia” non sarebbe mai arrivato a Dio. Voglio dire: la poesia e la
letteratura affinano i nostri sensi naturali per attivare i sensi
soprannaturali. Offrono una capacità di ascolto, di ospitalità, che l’orecchio
di per sé non possiede. La letteratura è il veicolo privilegiato della vita,
pone questioni disarmanti: se la teologia la ignora rischia di ingarbugliarsi
in un discorso autoreferenziale, incapace di incidere sulla realtà.
Quali
sono i libri che la hanno formata?
Naturalmente
la Bibbia, che è grande letteratura. La Bibbia è una grande mistagogia
spirituale, ma anche letteraria. Capiamo davvero la poesia quando rileggiamo il
Cantico dei cantici, i Salmi, il libro di Giobbe. Amo molto i lirici greci e mi
sento vicino ai poeti portoghesi del nostro tempo, senza i quali sarei una
persona molto diversa da quella che sono. Pessoa ha avuto un grande impatto su
di me, ma anche Ruy Belo ed Eugénio de Andrade, di cui sono stato amico. Non mi
convince chi preferisce leggere i poeti del passato, ignorando quelli del
proprio tempo. Il dialogo con i contemporanei mi ha nutrito sempre; come
l’ordinarietà priva di pompa che trovo leggendo i classici, che mi seduce
sempre.
Lei
ha tradotto in portoghese le poesie di Cristina Campo e ha fatto tradurre Gli
imperdonabili per l’editore Assírio & Alvim. Come giudica la lotta
di Cristina Campo per la tutela della liturgia latina, la sua vicinanza a
Monsignor Marcel Lefebvre?
Cristina
Campo è un poeta, e un poeta è sempre una figura del dissenso. Il poeta ha il
dovere di portare in sé la domanda, deve parlare di ciò di cui non si può
parlare. Ho conosciuto Cristina Campo leggendo la sua magnifica introduzione
ai Detti e fatti dei padri del deserto, poi ho scoperto le sue
poesie. Non ho dubbi che con il tempo la Campo sarà vista sempre di più come
una madre del Concilio Vaticano II. Intendo dire che in ciò che allora era
un’opposizione scorgo ora un richiamo alla fedeltà alla tradizione, a conservare
qualcosa di essenziale, che la Chiesa non può permettersi di perdere. La sua
figura ha rafforzato il cammino della Chiesa contemporanea, ricordandoci cose
decisive: il concetto di inattualità, ad esempio. La missione della
Chiesa non può non ascoltare il nostro tempo: eppure, non può ridursi a un
mero aggiornamento coi tempi, che appiattisce la missione
stessa. Il cristianesimo deve restare inattuale. Non perché ancorato nel
passato, ma perché ha in sé una carica profetica: la forza essenziale del
cristianesimo arriva dal futuro.
Ricordo,
ancora, l’intransigente battaglia della Campo per la bellezza della liturgia:
siamo passati dai cori gregoriani alle schitarrate, ai preti “al passo coi
tempi”.
Dobbiamo
dire che c’è stato un diffuso mutamento culturale, un abbassamento
generalizzato, nella cultura comune, della comprensione musicale. Tuttavia, io
resto in una prospettiva ottimistica: ancora oggi nelle chiese si canta
insieme; ancora oggi si conserva nella liturgia una qualità della parola e
della musica. La liturgia, cioè, è ancora tradizione umana di alto valore. Le
parole della Campo, così, precisano una esigenza profonda: dobbiamo fare di più
nel custodire la liturgia. Ricordo quanto diceva Romano Guardini: per capire la
liturgia dobbiamo capire il rapporto di un bambino con il suo giocattolo,
quella forma allo stesso tempo inutile e decisiva. La preghiera non è “utile”:
come non sono utili le rose o il blu del mare o le dichiarazioni d’amore.
Eppure, proprio queste eccedenze, che non coincidono con i bisogni primari,
sono ciò che pertiene alla nostra umanità.
Benedetto
XVI la ha nominata consigliere del Pontificio consiglio della cultura; Francesco la ha eletta Prefetto del Dicastero per la
cultura e l’educazione: esiste una differenza di ‘poetica’ tra i due papi?
Ogni
papa porta con sé delle differenze, di cui non dobbiamo avere paura. Papa
Ratzinger trascinava la monumentalità di una visione teologica del
cristianesimo in rapporto al contemporaneo. Interpretava la contemporaneità
intuendola, da una parte, come una chance, dall’altra scorgendone i pericoli, i
riduzionismi, i relativismi. Capiva con capillare potenza gli incubi del nostro
tempo. Papa Francesco incorpora un’altra poetica. A me, ad
esempio, affascina il suo modo di ragionare. Mentre Benedetto XVi ragionava
come un maestro, squadernando concetti, Francesco ragiona per immagini. In questo è davvero
straordinario. Quando gli pongono una domanda, il papa inizia il ragionamento
in questo modo: “mi vengono in mente due immagini…”. Ragionare per immagini ha
una forza impressionante, che tutti capiscono, perché più universale, tocca
livelli non solo concettuali ma anche emozionali.
Nella
Chiesa di oggi vige una “poetica” o piuttosto una “politica”?
La
politica esiste sempre: riguarda il rapporto delle persone con la storia e con
il mondo. Credo però sia prevalente una visione poetica, che è il campo dello
spirituale. Penso ad esempio alla capacità di Francesco di costruire parabole indimenticabili: tutti
ricordiamo il papa durante la pandemia, in un momento di grave crisi
planetaria, che prega in una piazza San Pietro vuota…
Lei
cita la figura del papa durante il Covid; io controbatto dicendole che proprio
in quel periodo i fedeli si sono sentiti soli, con le Chiese chiuse,
l’impossibilità di celebrare i funerali, in una specie di dismissione del mondo
cattolico.
La
forza del cristianesimo, penso in questo all’epistolografia paolina, è che non
dipende da uno spazio ma dalla qualità di un rapporto. In condizioni estreme
l’umanità può pregare? Sì, questo è possibile. La pandemia è stata una
situazione estrema, che ci ha sorpresi impreparati e di cui sappiamo ancora
poco. Io sono meno pessimista di lei: lo spirituale non è venuto meno durante
il Covid, anzi, ha proliferato nei gesti minimi, in un cristianesimo minimo,
nella riattivazione della Chiesa “domestica”, ad esempio. Un cristianesimo
bocca-a-bocca, mi viene da dire, dal contagio diverso, ma dall’intensità
abbacinante. Un cristianesimo che guardava alle origini, che sempre aiutano a
decostruire tante paure.
Quali
sfide attendono il cardinale, quali il poeta?
Ero
poeta prima di diventare cardinale: rimango poeta. Cerco di abitare questa
tensione, una tensione di cui io in primo luogo devo essere cosciente. Devo,
cioè, vivere con autenticità il fatto di essere un uomo di Chiesa, con molte
responsabilità, restando però allo stesso tempo me stesso. La poesia, che porto
nella Chiesa, non è una minaccia: ha in sé una visione, una forma diversa di
ascolto.
Cosa
del Vangelo, oggi, continua a folgorarla?
In
questi tempi leggo, in modo ricorrente, i passi del Vangelo che valorizzano le
briciole. Siamo sempre più consapevoli che il banchetto che ci è destinato è
fatto di una moltitudine di briciole: dobbiamo raccoglierle. Nelle briciole si
scopre il sapore della totalità. Viviamo nella frammentazione, ma il frammento
ci permette un percorso elitario, spirituale; la donna cananea insegna che “i
cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni” (Mt 15,
27): Gesù valorizza, elogia la fede di quella donna. Per me, poi, il grande
libro del nostro tempo è il Cantico dei cantici, un vademecum
dell’innamoramento. Il futuro esiste soltanto se sappiamo innamorarci ancora,
abbiamo bisogno di cuori innamorati.
Eppure,
nel Cantico Dio appare forse una volta sola…
…è
vero, ma è sempre presente, anche quando non sembra che ci sia. Dio preferisce
entrare a casa nostra quando non ci siamo. Non è male che sia così.
Cos’è
l’ispirazione? Esiste un rapporto tra poesia e profezia?
Secondo
Rimbaud, il poeta è un veggente. Credo che sia così. Non esiste poesia senza
visione. Il poeta deve catturare per primo i segni dell’invisibile,
dell’inudibile, e restituirne l’ampiezza, la forma, l’opportunità. Credo nella
dimensione profetica della poesia. Quando si riduce a status quo, la poesia è
morta: la poesia, al contrario, deve parlare di mondi mai visti, di cose che
non hanno avuto ancora luogo, di cammini che si possono ancora percorrere.
Offre immagini che non si trovano nei media o nei social. La poesia non deve
coincidere con il suo tempo, tanto meno con il linguaggio del tempo. La sua
frattura, però, è feconda.
Lei
è stato archivista della Biblioteca vaticana, ed è, in sostanza, un uomo del
libro: come si relaziona con i social?
Capisco
che i social e la rete rappresentano una sfida decisiva: viviamo un cambiamento
epocale. Il digitale non è soltanto un mezzo, un canale: prevede un nuovo
pensiero, un nuovo modo di abitare il mondo, una nuova lingua. Per questo,
abbiamo bisogno di traduttori. Penso al cristianesimo, nato come una realtà
rurale ed ebraica: in Paolo ha trovato il primo geniale traduttore di concetti.
Il nostro compito è accompagnare questa umanità in un tempo nuovo, in un mondo
che ancora ignoriamo. Forse siamo la prima generazione nella storia che vive in
prossimità dello sconosciuto, che non sa cosa accadrà domani. Questo ci fa
tremare, ma ci obbliga a vedere l’ignoto come una opportunità. Siamo gli
ultimi, ma al tempo stesso i primi. Abitare questa soglia richiede coraggio e
saggezza.
In
questa soglia, tuttavia, il poeta resta l’indifeso assoluto, il puro inutile,
recintato nell’indifferenza: tutti hanno qualcosa da dire, con ogni mezzo,
ovunque, mentre al poeta è reiteratamente tolta la parola.
Oggi
il poeta è la figura dell’idiota. Si guarda alla poesia come a un’idiozia. Il
poeta è una figura che fa ridere, considerata minore, ai margini della cultura
dominante, priva di rilevanza. Mi viene in mente quanto scrive San Paolo
nella Prima lettera ai Corinzi: “siamo stolti a causa di Cristo” (1
Cor 4, 10). Eppure, il mondo è salvato dagli idioti. Il Vangelo, dal
punto di vista del buon senso, è un fallimento; le figure redentrici della
storia sono figure che hanno costellato di “idiozie” il loro passaggio.
Cristina Campo diceva che è proprio nel periodo in cui l’anima viene meno che
dobbiamo guardare ai gigli del campo. Proprio questo tempo, in cui la poesia è
uno spreco, non si può fare a meno dei poeti. Tornando dal viaggio apostolico
in Giappone, nel 2019, Papa Francesco ha detto: “credo che all’Occidente
manchi un po’ di poesia”. Abbiamo bisogno di poeti per ricostruire il reale. La
clandestinità del poeta è una risorsa per il contemporaneo, un patrimonio di
sete. Nella poesia noi non troviamo acqua, ma sete; non troviamo dolcezza, ma
aridità; non ricaviamo una soluzione, ma uno spazio aperto, l’esordio di un
cammino.
Fonte: Pangea
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