I
palestinesi di Gaza a rischio
di deportazione “volontaria”
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di Giuseppe Savagnone*
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Una
proposta inquietante
Ancora
più inquietante delle notizie quotidiane sulla spietata conduzione della
guerra, nella Striscia di Gaza, è quella, rimbalzata in questi ultimi giorni
sui giornali, riguardo alla sua possibile conclusione, che sembra prevedere una
deportazione dei palestinesi residenti in questo territorio (gazawi) nella
Repubblica del Congo.
Si
chiama piano «The Day After». Ne avevano anticipato qualche giorno fa
l’esistenza due ministri del governo di unità nazionale di Tel Aviv, Bezalel
Smotrich e Itamar Ben Gvir. Sarebbe «una soluzione umanitaria», hanno
garantito. E soprattutto corrisponderebbe a una precisa esigenza, visto che,
hanno detto Smotrich e Ben Gvir, «il 70% degli israeliani è per un’emigrazione
volontaria dei gazawi, perché non è più accettabile che due milioni di persone
si sveglino ogni mattina a cinque minuti da casa nostra sognando di
distruggerci», mentre «la discussione sul dopoguerra sarebbe ben diversa se
nella Striscia rimanessero solo 100-200 mila palestinesi, non due milioni».
Il
Dipartimento di Stato americano, in una nota, ha duramente stigmatizzato le
parole dei ministri israeliani. Il portavoce Matthew Miller ha parlato
apertamente di «retorica provocatoria e irresponsabile». «Ci è stato detto
ripetutamente e costantemente dal governo israeliano, compreso il primo
ministro, che tali dichiarazioni non riflettono la politica del governo
israeliano. Dovrebbero fermarsi immediatamente».
Il
punto di vista degli Stati Uniti, infatti, è agli antipodi di questa
prospettiva: «Siamo stati chiari, coerenti e inequivocabili», ha ricordato
Miller, «sul fatto che Gaza è terra palestinese e rimarrà terra palestinese,
senza che Hamas abbia più il controllo del suo futuro e senza gruppi
terroristici in grado di minacciare Israele. Questo è il futuro che cerchiamo
nell’interesse di israeliani e palestinesi, della regione circostante e del
mondo».
Ha
fatto seguito a questa la decisa presa di posizione del Quai d’Orsay, il
ministero degli Esteri francese: «La Francia ricorda che il trasferimento
forzato di popolazioni costituisce una grave violazione del diritto
internazionale. Non spetta al governo israeliano decidere dove i palestinesi
debbano vivere nelle loro terre. Il futuro della Striscia di Gaza e dei suoi
abitanti sarà parte di uno Stato palestinese unificato che vivrà in pace e
sicurezza accanto a Israele».
Tutto
chiarito, dunque? Non proprio. Intanto perché i due ministri del governo
israeliano non si sono affatto lasciati zittire, anzi hanno replicato senza
mezzi termini: «Gli Stati Uniti sono i nostri migliori amici» ha scritto Ben
Gvir su X, «ma prima di tutto faremo ciò che è meglio per lo Stato di Israele:
la migrazione di centinaia di migliaia da Gaza consentirà ai residenti del
confine di tornare a casa e vivere in sicurezza». Da parte sua Smotrich ha
ribadito che «un Paese piccolo come il nostro non può permettersi una realtà in
cui a quattro minuti dalle nostre comunità si trova un focolaio di odio e
terrorismo».
A
conferma che quella dei due ministri non era un’uscita isolata, è arrivata poco
dopo la notizia, pubblicata dal quotidiano «The Times of Israel», citando fonti
governative, secondo cui Israele sta trattando il reinsediamento dei profughi
della Striscia di Gaza con paesi africani e arabi. In particolare – secondo
quanto riporta il giornale – il governo ha avviato una trattativa con il Congo,
che si sarebbe detto “disponibile”. Per quanto riguarda il mondo arabo invece –
spiegano le stesse fonti – sarebbero in corso sondaggi con l’Arabia Saudita.
Da
parte sua Netaniahu ha parlato pubblicamente di una deportazione, precisando
che il problema è di trovare chi sia disposto ad accogliere gli esiliati, ma
riferendosi finora solo ai «terroristi».
Il
carattere “volontario” del trasferimento
In
realtà quella di un trasferimento della popolazione di Gaza è un’idea che
circola già da settimane. In ottobre, il ministro dell’Intelligence del governo
israeliano, Gila Gamliel, aveva proposto all’Egitto di piazzare
«temporaneamente» i gazawi nel deserto del Sinai. E alla fine di novembre, la
dichiarazione congiunta finale del vertice straordinario dei leader dei paesi
del Brics (un gruppo che raccoglie le economie emergenti del pianeta) diceva
che questi Stati «si oppongono alla deportazione forzata dei palestinesi». Una
ipotesi che evidentemente già allora era nota a livello internazionale .
Consapevole
della difficoltà dell’espressione “deportazione forzata”, proprio in questi
giorni sempre il ministro Gamliel, tornando sull’argomento, ha parlato di
«creare condizioni che incoraggino i palestinesi che vogliono costruire la
propria vita altrove».
Insomma,
si tratterebbe di riprodurre quel fenomeno che, nella versione di Israele, è
stata la «migrazione volontaria» dei palestinesi dai territori dove avevano
abitato per secoli. Oggi si parla di «reinsediamento volontario» ed è un
progetto, caldeggiato, come si è visto, da una parte del governo di Tel Aviv
che mira a incentivare la popolazione palestinese di Gaza a lasciare le proprie
case. O, meglio, ciò che ne resta dopo tre mesi di bombardamenti, abbandonando
l’idea della ricostruzione della Striscia e spostandosi all’interno dei confini
di uno Stato estero.
Certo,
il Congo, con il 52,5% della popolazione al di sotto della soglia minima di
povertà, non sarebbe un paradiso. Ma non lo sono neppure i campi profughi dove,
sempre secondo la ricostruzione storica israeliana, gli abitanti dei territori
della Palestina si sarebbero spontaneamente ritirati, vivendovi ancora oggi
accampati in condizioni proibitive. Perché non dovrebbe ripetersi un analogo
trasferimento “volontario”?
Si
diceva all’inizio che in tutto questo vi è qualcosa di più inquietante, forse,
dei più di 22.000 morti, della fame, dello sfollamento forzato degli abitanti
di Gaza dalle loro case, che la guerra finora ha provocato. Qui si tratta di un
progetto che mira a sradicare un popolo dalla sua terra, uccidendone l’identità
storica. Non è genocidio, certo. L’accusa del Sudafrica contro lo Stato ebraico
presso il Tribunale internazionale dell’Aia persegue un falso bersaglio ed è
destinata ad essere respinta. Israele non vuole sterminare i palestinesi. Vuole
solo che se ne vadano. Non è genocidio. Il nome tecnico è “pulizia etnica”.
Il
compimento di un progetto
Oggi
come ieri. È quello che il programma sionista che è all’origine dello Stato
ebraico ha sempre voluto. Certo, va detto che all’inizio le terre furono
regolarmente acquistate dagli ebrei che cominciavano a insediarsi in Palestina.
Ma ciò non riguarda se non una parte – secondo alcuni il 10% – del territorio. Come va detto che, in
occasione della guerra del 1948 tra Israele e i paesi arabi, furono proprio
questi ultimi ad esortare i palestinesi ad andarsene.
Ricordare
questi aspetti della complessa questione, come ha fatto Pasquale Hamel nel suo
intervento pubblicato recentemente su “Tuttavia”,
è un contributo significativo alla ricostruzione dei fatti.
Ma
ci sono altri aspetti che non possono essere ignorati e che sono stati messi in
luce dagli studiosi israeliani della cosiddetta “nuova storia”, sorta negli
anni Ottanta, i quali – come scrive uno di essi (Ilan Pappé, La pulizia
etnica della Palestina) – «utilizzando principalmente gli archivi militari
israeliani», hanno dimostrato «falsa e assurda» la tesi del «trasferimento
volontario», rivelando «che le forze ebraiche avevano commesso un gran numero
di atrocità».
In
realtà, come risulta da una documentazione inoppugnabile, fin dal marzo 1948
l’Haganà, la principale organizzazione armata clandestina sionista, guidata da
Davide Ben Gurion (venerato dagli israeliani come “il padre della patria”)
aveva programmato e avviato un programma di sistematica espulsione dei
residenti palestinesi. La sua finalità era espressa nelle parole: «I
palestinesi devono andarsene». A monte, c’era la «determinazione ideologica
sionista ad avere un’esclusiva presenza ebraica in Palestina».
I
metodi non erano quelli della compravendita: «Intimidazioni su vasta scala;
assedio e bombardamento di villaggi e centri abitati; incendi di case,
proprietà e beni; espulsioni; demolizioni; e infine collocazione di mine tra le
macerie per impedire agli abitanti espulsi di fare ritorno».
«Ci
vollero sei mesi per portare a termine la missione. Quando questa fu compiuta,
più di metà della popolazione palestinese originaria, quasi 800.000 persone,
era stata sradicata, 531 villaggi erano stati distrutti e 11 quartieri urbani
svuotati dei loro abitanti».
Scrive
Pappé: «Davide Ben Gurion, nel suo libro Rebirth and Destiny of Israel, p.530,
notava candidamente che: “Fino alla partenza degli inglesi, il 15 maggio 1948
nessun insediamento ebraico, anche remoto, era stato attaccato o occupato dagli
arabi, mentre l’Haganà aveva conquistato molte posizioni arabe e liberato
Tiberiade, Haifa, Giaff e Safad (…). Così, nel giorno del destino, quella parte
della Palestina dove l’Haganà poteva operare era quasi ripulita dagli arabi”».
Non si parla così del risultato di una legittima compravendita di terreni né di
un esodo volontario.
Oggi
questo progetto – perseguito peraltro sistematicamente con la moltiplicazione
degli insediamenti illegali in Cisgiordania – sembra prossimo a trovare il suo
compimento con la espulsione dei palestinesi anche da Gaza, dove si erano
rifugiati. Sempre sottolineando che questo avverrà “volontariamente”.
Magari
anche grazie a una tempesta di fuoco che ne ha già uccisi 22.000 e distrutto
più del 30% delle case e a un blocco dei viveri e dell’energia che ha ridotto i
superstiti – secondo tutte le agenzie umanitarie – a condizioni di vita
disperate. E, come è chiaro da come sono andate le cose finora, neppure
l’opposizione degli Stati Uniti sembra in grado di fermare il governo di
Netaniahu.
Come
non lo sono state le imponenti proteste di piazza che da tre mesi si susseguono
in tutte le città occidentali. Del resto, continua ad essere predominante nei
governi occidentali, la tesi che Israele va comunque difeso perché esprime i valori
della nostra democrazia e che – come ha detto un nostro uomo politico,
stigmatizzando quelle proteste – , «l’odio per Israele è l’odio che l’Occidente
ha per se stesso, per la libertà, l’uguaglianza e i diritti umani».
*
Responsabile
del sito della Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo,
Scrittore
ed Editorialista.
www.tuttavia.eu
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