DA RIABILITARE
Le dinamiche educative mostrano un ripensamento opportuno
Sono
tra i tanti che avevano apprezzato la testimonianza del padre di Giulia
Cecchettin, come pure la riflessione offerta nel giorno del funerale della
figlia. Con lo strazio nel cuore e con una compostezza affettuosa e disarmante,
papà Gino ha coraggiosamente richiamato valori e contenuti su cui tutti
dovremmo confrontarci. Come si ricorderà, nel passaggio rivolto ai genitori, ha
chiesto di insegnare «ai nostri figli il valore del sacrificio e dell’impegno»;
di aiutarli «anche ad accettare le sconfitte».
Da tempo nell’educazione va di moda il non obbligare mai. Siamo sicuri che sia giusto? Non ci sono forse degli “obblighi” di coscienza, come pure nell’amicizia, nell’amore, nella responsabilità educativa, cui allenarsi? Il “vietato vietare”, ormai dato per scontato, non aiuta a discernere tra i divieti utili, opportuni, necessari ai fini educativi e quelli che non lo sono, o sono posti da chi non ha legittimità morale né giuridica. Che dire, poi, della parola “disciplina”? Anch’essa sembra sottoposta a troppo facili stroncature. Ratzinger, da fine intellettuale, fece notare che “disciplina” viene da “discepolo” e questo, in casa cristiana, ha un sapore tutto evangelico. Così in ambito laico: non v’è sport, pratica scientifica o altro importante percorso che non esiga disciplina.
Anche
l’autodisciplina, importante obiettivo educativo, passa attraverso
l’etero-disciplina. Una pedagogia degna di questo nome non deve in alcuni
momenti esercitare con amore e fermezza la funzione della vigilanza e del
controllo? Si acquisisce forse la maturità senza imparare l’autocontrollo in
emozioni, impulsi, bisogni? È appunto una disciplina da apprendere in certe
fasi dello sviluppo, in cui esercitarsi attraverso il dar conto a un’autorità
che legittimamente incoraggia, vigila, corregge... Insomma: le parole non sono
mai neutre, né innocenti. Sono simboli, hanno significato oggettivo, razionale
e conscio, da un lato, soggettivo dall’altro: possono essere accolte o respinte
per la valenza affettiva che hanno, talvolta inconsapevolmente, o addirittura
distorte, rimosse, perché evocano ferite e traumi. L’impressione è che la
“censura” di un certo vocabolario in ambito educativo – quello evocato,
ovviamente, è solo una parte – sia frutto anche di una diffusa regressione a
modalità di pensiero poco razionale, se non primitivo, e dell’abbassamento del
senso critico.
Di
qui la necessità di una riconciliazione con la propria storia personale e
collettiva, come di un più serrato e sereno confronto culturale, affinché ci si
desti dal “sonno della ragione”.
Grazie ancora, dunque, al papà di Giulia che
dalla cattedra del dolore ha suggerito, tra sacrifici e sconfitte, un rinnovato
impegno, senza rimuovere dall’alfabeto educativo certe parole scomode, ma
importanti.
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