-di ALESSANDRO D’AVENIA
Nel primo appello dell’anno 2024 ho invitato ciascuno dei
miei studenti di quinta al consueto gioco di scegliere una parola per l’anno
nuovo. Le parole che ci abitano diventano nell’ordine: pensieri, azioni,
carattere, destino, in una parola, carne. Quindi scegliere la parola che deve
farsi carne mi sembra essenziale per difendersi dalle parole che la cultura
dominante ci impone. Dove c’è il vuoto interiore è lo spirito del tempo a
occuparlo, perché abbiamo bisogno di legami con il mondo, ma così rischiamo di
accettare i fili di cui cantava Bennato nel 1977: “è stata tua la colpa allora
adesso che vuoi/ volevi diventare come uno di noi/ e come rimpiangi quei giorni
che eri/ un burattino senza fili/ e invece adesso i fili ce l’hai!”.
Concreto o astratto?
Bruce Chatwin racconta nel libro “In Patagonia” che il
missionario anglicano Thomas Bridges per spiegare il vangelo agli aborigeni
della Terra del Fuoco compilò un dizionario della lingua Yaghan, popolo di
pescatori di quei fiordi. Si rese presto conto che mancavano i concetti
astratti di cui aveva bisogno, perché in quella lingua tutto era concreto: la
monotonia si indicava con l’assenza di amici maschi; la depressione con la fase
vulnerabile del granchio che, perso il guscio, aspetta che cresca il nuovo; pigro
deriva da un tipo di pinguino; adultero da un falchetto che svolazza qua e là
per scagliarsi poi sulla vittima; il singhiozzo è un groviglio di alberi
caduti; la vecchiaia è come le cozze (il loro cibo base) fuori stagione. Fu
proprio Bridges a chiamarli “Yaghan” dal nome di un luogo, ma loro si
riferivano a se stessi come Yámana che, come verbo, significa “vivere,
respirare, essere felice, guarire o essere sano” e, come nome, “persone” in
contrapposizione ad animali. Concludeva Chatwin, per spiegare l’assurdità di
sottrarli ai luoghi natii: “le associazioni metaforiche che formavano il loro
terreno mentale incatenavano gli indios alla loro terra natale con legami che
non potevano essere spezzati. Un territorio della tribù, per quanto scomodo,
era sempre un paradiso”. Lingua e parole che usiamo ci ancorano a una terra
simbolica che è la nostra patria. Come è la terra delle nostre parole? Che
patria abbiamo?
La lingua modella il pensiero
Mi è tornato in mente l’articolo in cui Lera Boroditsky,
professoressa di scienze cognitive a Stanford, mostra come la lingua modella il
pensiero: “Sono accanto a una bambina di cinque anni a Pormpuraaw, comunità
aborigena nel nord dell’Australia. Quando le chiedo di indicare il nord lo fa
con precisione e senza esitare: la mia bussola conferma. Tornata in un’aula
alla Stanford University, faccio la stessa richiesta a un pubblico di eminenti
studiosi: chiudere gli occhi e indicare il nord. Molti si rifiutano o non sanno
rispondere. Coloro che lo fanno ci pensano a lungo e poi puntano il dito in
tutte le direzioni possibili. Ho ripetuto l’esperimento a Harvard e Princeton,
a Mosca, Londra e Pechino, ottenendo sempre lo stesso risultato. Una bambina di
cinque anni in una cultura può fare con facilità ciò che eminenti scienziati
faticano a fare in altre. È una gran differenza nelle abilità cognitive. Come
si spiega?”. La risposta sembra essere la lingua: “a differenza dell’inglese,
la lingua parlata a Pormpuraaw non utilizza termini spaziali relativi come
sinistra e destra. Ci si esprime in termini di punti cardinali assoluti (nord,
sud, est, ovest). Anche in inglese li utilizziamo ma solo per scale spaziali
più vaste. Non diremmo, ad esempio: “Hanno messo le forchette per l’insalata a
sudest di quelle da cena!”, ma in Kuuk Thaayorre i punti cardinali si usano in
tutte le scale. Si dirà “la tazza è a sudest del piatto” o “il ragazzo in piedi
a sud di Mary è mio fratello”. A Pormpuraaw è necessario rimanere sempre orientati”
(Scientific American, febbraio 2011). Questo perché la comunità abita in un
territorio dove perdersi è fatale e bisogna sapersi orientare in ogni istante e
circostanza. Fuor di metafora, le parole che usiamo ci permettono di abitare il
mondo e orientarci nella vita?
L’anti-lingua
Già anni fa Italo Calvino si scagliava contro l’anti-lingua,
che non dice le cose con precisione rifugiandosi in perifrasi e approssimazioni
che rendono le parole prive di energia e sostanza (avete presente il
politichese, o quello che chiamo il “temese”: quando allungavamo i temi per
fingere di aver qualcosa da dire?). Scriveva in “Esattezza”: “Mi sembra che
un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la
caratterizza, l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta
come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende
a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a
diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni
scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze… la
letteratura (e forse solo la letteratura) può creare degli anticorpi che
contrastino l’espandersi della peste del linguaggio” (Lezioni americane). Più
abbiamo parole precise più mondo vediamo e meno siamo manipolabili.
La parola
Credo sia fondamentale allenare l’uso preciso e concreto
della parola, ed è quello che chiedo ai ragazzi nella scelta di quella annuale:
ne va del loro destino. Ecco alcune delle loro parole: vivere non sopravvivere,
resilienza, ambizione, squilibrio, mietitura, fioritura, accettazione,
evoluzione, luce, spensieratezza, fuori, paraocchi, avocado… Sono sicuro che
quelle che incuriosiscono di più sono le più concrete, per questo ho usato la
più strana per titolare l’articolo! Io ho scelto “creazione” che, in una mia
personale lingua Yagan, suonerebbe “fare come le api, nutrirsi da buone fonti
per fare un buon miele” e se parlassi la lingua di Pormpuraaw starebbe a est,
dove sorge il Sole. Avendo sperimentato che nella mia vita c’è tanta gioia
quanta creazione, spero che questa sia la parola a incarnarsi, portandone con
sé altre come studio, silenzio, pazienza, meraviglia, ascolto, verità,
attenzione, cura, bellezza… proteggendomi da altre ancora come fretta, rumore,
approssimazione, pigrizia, invidia, distrazione…
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