- - di Cristina Uguccioni
Vivere con speranza e
scoprire la speciale densità della realtà: è l’invito che, in questa
conversazione, formula padre Mauro Giuseppe Lepori. Ticinese,
è abate generale dell’Ordine Cistercense e vicepresidente dell’Unione dei
Superiori Generali.
Abate Lepori, con quali
occhi guardare l’anno appena cominciato?
«Occorre guardarlo con
speranza. Certo, il mondo è ferito da violenze efferate e indubbiamente molte
aspettative personali e collettive sono andate deluse. Ma le aspettative spesso
vengono deluse perché attendono sempre qualcosa basandosi su realtà non ancora
presenti: le aspettative, in fondo, non sono che sogni. Invece la speranza
cristiana è un’attesa fondata su realtà che sono già presenti e che gli occhi
della fede possono scorgere: Dio c’è, si è fatto uomo, ci crea e ci ama di
amore eterno, è Padre, il Suo grembo è il nostro destino. Spesso, fissandoci
sulle aspettative, finiamo per non vedere i segni di speranza che ci
circondano. Guardando con attenzione possiamo scoprire che sempre, anche in
situazioni tragiche, ci sono fatti e persone che danno consistenza alla
speranza, che fanno vivere il momento presente con speranza ossia attendendo
una pienezza che ci è già data e alla quale dobbiamo soltanto permettere di
manifestarsi e compiersi nella nostra vita e nel mondo».
Esiste una dimensione
poetica della vita? E quali tratti possiede?
«Sì, esiste. La definirei
come quello sguardo, quel sentimento (a volte inconscio o difficile da
esprimere) che intuisce nella realtà la bellezza profonda di qualcosa di
immensamente più grande. È la sensibilità per la bellezza sentita come un bene
che ci supera e che allo stesso tempo ci appartiene perché ci è già dato. La
dimensione poetica non è un sentimento romantico che sogna ciò che è assente. È
una dimensione del cuore, che è fatto per l’infinito e riesce a scorgere che la
realtà è segno dell’infinito. A me affascina sempre scoprire come può essere
bello un qualsiasi dettaglio della realtà: se si osserva con attenzione, si
scopre che nelle situazioni più diverse è sempre possibile cogliere una
bellezza, un’armonia, una originalità. E poi c’è la bellezza delle persone: a
volte, quando cammino in mezzo alla folla, sto attento ai volti pensando che
dietro a ognuno di essi c’è una storia, una vita con i suoi drammi, le sue
gioie, i suoi incanti, c’è una unicità stupefacente, un mistero. La realtà ha una
densità che il cuore intuisce».
È una densità che ha
senso.
«Sì. C’è una domanda che
tutti gli esseri umani si pongono: che senso ha la vita? Il senso è definito
dall’origine e dal fine, come il fiume dalla sorgente e dal mare. Una cosa è
pensare – non senza disperazione (riconosciuta o inconsapevole) – di venire dal
nulla e finire nel nulla, altra cosa è scoprire che il senso c’è perché tutto
(noi stessi, gli altri, il mondo) è stato creato per amore da Dio e tornerà nel
Suo grembo. Gesù è venuto proprio a rivelarci questo. Tale senso può essere
colto anche nei frammenti della vita, degli accadimenti, dei rapporti. Essere
coscienti che una persona è stata creata per amore da Dio e a Lui è destinata
influisce sul rapporto che avremo con lei: non potremo ridurla a come appare,
ai suoi difetti, ai suoi errori, e staremo attenti a non strumentalizzarla.
Ogni persona è un tempio sacro».
Come si educa a scoprire
la dimensione poetica della vita?
«Ogni essere umano
possiede per natura questa dimensione. I bambini si stupiscono di fronte alla
bellezza, alla densità delle cose e delle persone. Poi, crescendo, il loro
sguardo perde questa capacità di lasciarsi incantare. È questa, in fondo, la
traccia in noi del peccato originale: Adamo ed Eva avevano con il Signore un
rapporto limpido e grato per tutto, poi si sono concentrati su un solo frutto,
su una sola cosa che ha spento il loro stupore di fronte a tutto il resto. E
così tutto è diventato negativo e faticoso. Il peccato originale rovina la
dimensione poetica del cuore dell’uomo, ma non la estirpa. Per farla emergere
bisogna educare al silenzio: è necessario imparare a fermarsi per permettere
alla realtà di rivelarci che è fatta per l’infinito. Purtroppo, viviamo in
società dominate dal rumore: suoni, immagini, informazioni, stimoli emotivi non
ci danno tregua. In questo caos diventa difficile ascoltare ciò che abita nella
profondità del cuore umano e della storia, la quale non è costituita solo da un
susseguirsi di lotte per il potere e per il denaro, ma da una umanità che viene
da Dio e va a Dio».
La gratuità appartiene a
questa dimensione poetica.
«Sì: questa dimensione è
infatti la percezione della gratuità dell’essere. Ed è questo che va scoperto
per vivere umanamente e anche per godere della vita: il consumare non appaga
veramente perché, consumando, si resta subito delusi dal finire del godimento.
Invece, la contemplazione delle cose e delle persone nella loro dimensione di
gratuità e di dono assicura una pienezza del cuore che non finisce perché
sempre rimanda a Colui che ce le dona. Gesù viveva così. Era capace di godere
anche delle più piccole cose – gli uccellini, i gigli nei campi, i due
spiccioli offerti al tempio da una povera vedova – perché in esse vedeva un
segno, un riflesso dell’amore del Padre. È questa la grande dimensione poetica
che Gesù è venuto a rivelarci: c’è un Padre che ci crea per amore e che per
amore ci dona cose buone, tutte segno dell’amore di Lui. Fra me e la mia stessa
vita c’è Qualcuno che me la dona: diventare consapevoli di ciò significa
diventare consapevoli della bontà intrinseca della vita e del fatto che nulla,
neppure la morte, potrà togliermela, poiché essa ha in Dio la sua origine e il
suo destino».
Può proseguire la
riflessione sullo sguardo di Gesù?
Penso a come Gesù
guardava le persone: non le riduceva ai loro peccati o alla loro vita
disordinata. Guardava ogni persona come un dono ricevuto dal Padre, un dono da
accogliere e da riconsegnare al Padre. Ogni persona per Lui era un mistero che
lo riempiva di gratitudine e di stupore: lo stupore eterno fra il Padre e il
Figlio che, nello Spirito, mettono al mondo creature che sono altro da sé. Gesù
diceva: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29): la mitezza
e l’umiltà sono il modo divino, e quindi veramente umano, di accogliere le
persone e la realtà nella loro dimensione di dono. Purtroppo, oggi molti
giovani pensano di valere poco o fanno dipendere il loro valore dal consenso
ottenuto sui social. Hanno disperatamente bisogno di essere raggiunti da uno
sguardo così, da uno sguardo che li riconosce come un dono prezioso, che vede
in loro la dignità assoluta di essere voluti e amati per sempre da Dio.
Raggiunti da questo sguardo che li rende consapevoli del loro autentico valore,
potranno poi, a loro volta, guardare gli altri allo stesso modo, con
delicatezza e rispetto. La fraternità si edifica scoprendosi figli amati da
Dio».
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