sabato 26 ottobre 2019

UN FARISEO E UN PUBBLICANO ....

+ Dal Vangelo secondo Luca  Lc 18,9-14

In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri:
«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.
Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

Commento di don Fabio Quadrini

L’odore di ulivo raccolto che pervade le campagne, rende gradevolmente piccante la nebulosa aria autunnale. I campi brulicano di operai, frenetici per la fretta di concludere il lavoro, temendo la variabilità delle condizioni atmosferiche, ma euforici per la gioia di riempire, anche in quest’anno, le proprie dispense con la preziosa spremitura.
I frantoi, aperti giorno e notte, odorano di dolcezza: suscita una sconcertante meraviglia contemplare come l’amarezza di un acino produca il più soave tra i sapori solo dopo essere stato pestato da una macina.
Quante volte nostro Signore Gesù Cristo avrà respirato questi odori lungo il suo peregrinare, e quante volte, guardando un ulivo e contemplando il suo frutto, avrà visto in quell’acino sé stesso e il suo compimento.
       Quanto sarebbe straordinaria l’esperienza di abbandonare ogni parola, qualsiasi commento o catechesi, e sedersi ai piedi di un ulivo, guardarlo e lasciarlo parlare: basterebbe esso a raccontarci di Gesù. E così si potrebbe fare reclinati accanto alle radici un fico o di una vite: fermarsi, sedersi, guardarli e lasciare che parlino. Narrerebbero di nient’altro se non del Cristo.
È gradito allo scrivente immaginare che il Signore stesso si sia riposato frequentemente all’ombra di questi alberi, e in essi abbia contemplato il fine e il culmine della sua missione.
Che lo Spirito Santo illumini i nostri cuori e le nostre menti.
Al frantoio
Il passo evangelico che la sacra liturgia ci propone quest’oggi è molto profondo ed acuto.
Come al solito vogliamo proporre al lettore un approfondimento che abbia, come punto di partenza, una parola contenuta all’interno della pericope. Prima, però, di indicare il termine che abbiamo scelto, ci piace far notare a colui che legge il continuo movimento del “salire” e dello “scendere” che caratterizza tutta quanta la narrazione. È giustappunto la stessa dinamica che accade con la preghiera: essa è strumento per far salire al Signore la nostra voce, affinché dall’alto abbia a scendere la carezza di Dio.
Lasciando, in tale ambito, margine alla meditazione del lettore, coadiuvata e corroborata dalla partecipazione all’Eucaristia e dalle omelie dei sacerdoti, la parola che vogliamo proporre quest’oggi è PUBBLICÀNO.
                    In greco il sostantivo “pubblicàno” si esprime con “telònes”.
Se andiamo ad approfondire la composizione di tale nome, scopriamo che questo è l’unione di due termini, ovvero “tèlos” e “onèomai”. Il verbo “onèomai” significa “comprare/acquistare”, ma interessante è sviluppare ciò che contiene in sé il sostantivo “tèlos”.
               Esso ha certamente come significato “imposta/tassa/tributo/gabella”, ma non come primo tratto. Propriamente, infatti, “telòs” vale “fine/risultato/compimento/culmine”.
Ma interessante è tutto il percorso etimologico che germoglia attorno a questo lemma.
La sua radice “tal/tla” genera i verbi “tèllo” (che significa “restare/rimanere”, ed anche “sorgere”), e “tlènai” il quale, come primo significato, intende “sopportare/resistere” ed anche “soffrire”.
Per meglio comprendere il senso dell’intera analisi che stiamo percorrendo, dobbiamo avvicinarci alla nostra lingua.
Dalla stessa radice “tal/tla” nascono i verbi latini “tollo” (alzare/togliere/caricare), “tolero” (sopportare/resistere/sostenere), e “tuli” (ovvero “fero” che significa “portare/sopportare” ed anche “innalzare/esaltare”), da cui il nostro “tollerare”.
Fatta tutta questa premessa possiamo emarginare alcune conclusioni dalle molteplici che se ne potrebbero trarre. Sia la meditazione del lettore a completare la pochezza del ragionamento dello scrivente.
Quando ascoltiamo il brano dell’estratto evangelico odierno, il nostro immaginario disegna per certo il fariseo in piedi e il pubblicano sicuramente in ginocchio (anche il foglietto della domenica rappresenta tale quadretto). Tuttavia abbiamo visto come “tèlos” abbia in sé propriamente il senso del “raggiungere un obiettivo”, e solitamente uno “scopo” o un “termine” sono l’ “apice” di un percorso, la “vetta”, la “cima”, il “punto più alto”. Ecco allora che il pubblicàno non reca nella sua qualità una posa che tende al basso o allo stare in ginocchio, ovvero uno stare reclinato, ma nella sua qualifica, nel suo attributo, rappresenta uno “stare in alto”, un “mirare in alto”. Ma ecco il punto: non è la posa “eretta” il problema, ma quale senso essa assuma. Lo “stare eretto” del pubblicàno reca in sé il significato del “resistere/sopportare/non_cedere”, ovvero “farsi_carico”.

Il sostantivo “telònes” (pubblicàno) letteralmente sarebbe colui_che_acquista_l’appalto_per_la_riscossione_delle_gabelle”; ma come non rileggere tale nome alla luce del mistero di nostro Signore Gesù Cristo: “siete stati comprati a caro prezzo” recita la Prima Lettera ai Corinzi capitolo 6 versetto 20. 
Il Signore Gesù è il “Pubblicano” che ha comprato la Salvezza per la nostra vita, ovvero ha dato compimento alla nostra esistenza (Egli che è il “Compimento”), pagando il prezzo della Croce, ovvero caricandosi dei nostri peccati.
Che la rappresentazione della figura del pubblicàno (telònes), ovvero il senso profondo del suo termine, richiami fortemente nostro Signore Gesù è appalesato, anche a dar seguito a quanto fin ora detto, da una formula proclamata dal sacerdote durante la messa: “Ecco Colui che toglie i peccati del mondo”: quel “toglie” nella formula latina è “tollis” (dal verbo “tollo” di cui sopra), ovvero “togliere” col senso di “sollevare/caricare su di sé”. Tale proclamazione sacerdotale, inoltre, è la replica delle parole pronunziate da Giovanni Battista (“Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!” Gv 1, 29), ed è molto interessante come il verbo “alzare” del versetto 13 della pericope odierna (“(il pubblicàno) non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo”) in greco sia “epàrai”, che viene dallo stesso verbo “àiron” (“toglie” ovvero “prende_su_di_sé”) che il Battista pronuncia in Gv 1, 29.
Per rimanere ancora in connessione col Vangelo secondo Giovanni, l’inizio della seconda parte (detta per convenzione “Vangelo dell’ora”), ovvero il versetto 1 del capitolo 13 recita: “Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine”. Quel “sino alla fine” in greco è “eis tèlos” che varrebbe in traduzione “sino al compimento/culmine”.
       Anche in questa occasione siamo in dovere di richiamare il capitolo 2 della Lettera ai Filippesi. Il Vangelo proclama: “(con riferimento al fariseo) chiunque si esalta sarà umiliato, (con riferimento al pubblicano) chi invece si umilia sarà esaltato” (v. 14). La Lettera appena citata recita così ai versetti 8 e 9: “(Gesù) umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato”. I verbi usati sono gli stessi sia nel Vangelo che nella Lettera ai Filippesi: “tapeinòo” (umiliare) e “upsòo” (esaltare), ed il movimento che assume il pubblicano è lo stesso che assume Gesù.
Ecco allora che in questo brano evangelico ad essere sgradito non è lo stare alzati, lo stare sollevati dinanzi al Signore nostro Dio (la Risurrezione è “anìstemi” letteralmente “alzarsi/sollevarsi_in_piedi”: interessante come “ìstemi” sia proprio la posa assunta dal fariseo), ma il fine, il culmine, il senso di questo “stare eretti”: per essere cosa gradita al Signore nostro Gesù Cristo dobbiamo “stare eretti per riuscire a caricare la croce sulle nostre spalle, ma questo altro non comporta che assumere una posa “abbassata”, poiché il carico e il peso non fanno altro che incurvarci, piegarci. Ma dobbiamo essere certi che lo stare “abbassati”, ovvero “sollevati e carichi”, ci porterà all’ “esaltazione” definitiva della vita eterna, poiché nostro Signore Gesù                       Cristo è Risorto e noi risorgeremo con lui.





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