+ Dal Vangelo secondo Luca Lc 18,9-14
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per
alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli
altri:
«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era
fariseo e l’altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O
Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti,
adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e
pago le decime di tutto quello che possiedo”.
Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non
osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O
Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a
casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si
umilia sarà esaltato».
Commento di don Fabio Quadrini
L’odore di ulivo raccolto che pervade le campagne,
rende gradevolmente piccante la nebulosa aria autunnale. I campi brulicano di
operai, frenetici per la fretta di concludere il lavoro, temendo la variabilità
delle condizioni atmosferiche, ma euforici per la gioia di riempire, anche in
quest’anno, le proprie dispense con la preziosa spremitura.
I frantoi, aperti giorno e notte, odorano di
dolcezza: suscita una sconcertante meraviglia contemplare come l’amarezza di un
acino produca il più soave tra i sapori solo dopo essere stato pestato da una
macina.
Quante volte nostro Signore Gesù Cristo avrà
respirato questi odori lungo il suo peregrinare, e quante volte, guardando un
ulivo e contemplando il suo frutto, avrà visto in quell’acino sé stesso e il
suo compimento.
Quanto sarebbe straordinaria l’esperienza di
abbandonare ogni parola, qualsiasi commento o catechesi, e sedersi ai piedi di
un ulivo, guardarlo e lasciarlo parlare: basterebbe esso a raccontarci di Gesù.
E così si potrebbe fare reclinati accanto alle radici un fico o di una vite:
fermarsi, sedersi, guardarli e lasciare che parlino. Narrerebbero di
nient’altro se non del Cristo.
È gradito allo scrivente immaginare che il Signore
stesso si sia riposato frequentemente all’ombra di questi alberi, e in essi
abbia contemplato il fine e il culmine della sua missione.
Che lo Spirito Santo illumini i nostri cuori e le
nostre menti.
Al frantoio
Il passo evangelico che la sacra liturgia ci propone
quest’oggi è molto profondo ed acuto.
Come al solito vogliamo proporre al lettore un
approfondimento che abbia, come punto di partenza, una parola contenuta
all’interno della pericope. Prima, però, di indicare il termine che abbiamo
scelto, ci piace far notare a colui che legge il continuo movimento del
“salire” e dello “scendere” che caratterizza tutta quanta la narrazione. È
giustappunto la stessa dinamica che accade con la preghiera: essa è strumento
per far salire al Signore la nostra voce, affinché dall’alto abbia a scendere
la carezza di Dio.
Lasciando, in tale ambito, margine alla meditazione
del lettore, coadiuvata e corroborata dalla partecipazione all’Eucaristia e
dalle omelie dei sacerdoti, la parola che vogliamo proporre quest’oggi è
PUBBLICÀNO.
In greco il sostantivo “pubblicàno” si esprime con
“telònes”.
Se andiamo ad approfondire la composizione di tale
nome, scopriamo che questo è l’unione di due termini, ovvero “tèlos” e
“onèomai”. Il verbo “onèomai” significa “comprare/acquistare”, ma interessante
è sviluppare ciò che contiene in sé il sostantivo “tèlos”.
Esso
ha certamente come significato “imposta/tassa/tributo/gabella”, ma non come
primo tratto. Propriamente, infatti, “telòs” vale
“fine/risultato/compimento/culmine”.
Ma interessante è tutto il percorso etimologico che
germoglia attorno a questo lemma.
La sua radice “tal/tla” genera i verbi “tèllo” (che
significa “restare/rimanere”, ed anche “sorgere”), e “tlènai” il quale, come
primo significato, intende “sopportare/resistere” ed anche “soffrire”.
Per meglio comprendere il senso dell’intera analisi
che stiamo percorrendo, dobbiamo avvicinarci alla nostra lingua.
Dalla stessa radice “tal/tla” nascono i verbi latini
“tollo” (alzare/togliere/caricare), “tolero” (sopportare/resistere/sostenere),
e “tuli” (ovvero “fero” che significa “portare/sopportare” ed anche
“innalzare/esaltare”), da cui il nostro “tollerare”.
Fatta tutta questa premessa possiamo emarginare
alcune conclusioni dalle molteplici che se ne potrebbero trarre. Sia la
meditazione del lettore a completare la pochezza del ragionamento dello
scrivente.
Quando ascoltiamo il brano dell’estratto evangelico
odierno, il nostro immaginario disegna per certo il fariseo in piedi e il
pubblicano sicuramente in ginocchio (anche il foglietto della domenica
rappresenta tale quadretto). Tuttavia abbiamo visto come “tèlos” abbia in sé
propriamente il senso del “raggiungere un obiettivo”, e solitamente uno “scopo”
o un “termine” sono l’ “apice” di un percorso, la “vetta”, la “cima”, il “punto
più alto”. Ecco allora che il pubblicàno non reca nella sua qualità una posa
che tende al basso o allo stare in ginocchio, ovvero uno stare reclinato, ma
nella sua qualifica, nel suo attributo, rappresenta uno “stare in alto”, un
“mirare in alto”. Ma ecco il punto: non è la posa “eretta” il problema, ma
quale senso essa assuma. Lo “stare eretto” del pubblicàno reca in sé il
significato del “resistere/sopportare/non_cedere”, ovvero “farsi_carico”.
Il sostantivo “telònes” (pubblicàno) letteralmente
sarebbe colui_che_acquista_l’appalto_per_la_riscossione_delle_gabelle”; ma come
non rileggere tale nome alla luce del mistero di nostro Signore Gesù Cristo:
“siete stati comprati a caro prezzo” recita la Prima Lettera ai Corinzi
capitolo 6 versetto 20.
Il Signore Gesù è il “Pubblicano” che ha comprato la Salvezza
per la nostra vita, ovvero ha dato compimento alla nostra esistenza (Egli che è
il “Compimento”), pagando il prezzo della Croce, ovvero caricandosi dei nostri
peccati.
Che la rappresentazione della figura del pubblicàno
(telònes), ovvero il senso profondo del suo termine, richiami fortemente nostro
Signore Gesù è appalesato, anche a dar seguito a quanto fin ora detto, da una
formula proclamata dal sacerdote durante la messa: “Ecco Colui che toglie i
peccati del mondo”: quel “toglie” nella formula latina è “tollis” (dal verbo
“tollo” di cui sopra), ovvero “togliere” col senso di “sollevare/caricare su di
sé”. Tale proclamazione sacerdotale, inoltre, è la replica delle parole
pronunziate da Giovanni Battista (“Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie
il peccato del mondo!” Gv 1, 29), ed è molto interessante come il verbo
“alzare” del versetto 13 della pericope odierna (“(il pubblicàno) non osava
nemmeno alzare gli occhi al cielo”) in greco sia “epàrai”, che viene dallo
stesso verbo “àiron” (“toglie” ovvero “prende_su_di_sé”) che il Battista
pronuncia in Gv 1, 29.
Per rimanere ancora in connessione col Vangelo
secondo Giovanni, l’inizio della seconda parte (detta per convenzione “Vangelo
dell’ora”), ovvero il versetto 1 del capitolo 13 recita: “Gesù, sapendo che era
giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi
che erano nel mondo, li amò sino alla fine”. Quel “sino alla fine” in greco è
“eis tèlos” che varrebbe in traduzione “sino al compimento/culmine”.
Anche in
questa occasione siamo in dovere di richiamare il capitolo 2 della Lettera ai
Filippesi. Il Vangelo proclama: “(con riferimento al fariseo) chiunque si
esalta sarà umiliato, (con riferimento al pubblicano) chi invece si umilia sarà
esaltato” (v. 14). La Lettera appena citata recita così ai versetti 8 e 9:
“(Gesù) umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di
croce. Per questo Dio l’ha esaltato”. I verbi usati sono gli stessi sia nel
Vangelo che nella Lettera ai Filippesi: “tapeinòo” (umiliare) e “upsòo”
(esaltare), ed il movimento che assume il pubblicano è lo stesso che assume
Gesù.
Ecco allora che in questo brano evangelico ad essere
sgradito non è lo stare alzati, lo stare sollevati dinanzi al Signore nostro
Dio (la Risurrezione è “anìstemi” letteralmente “alzarsi/sollevarsi_in_piedi”:
interessante come “ìstemi” sia proprio la posa assunta dal fariseo), ma il
fine, il culmine, il senso di questo “stare eretti”: per essere cosa gradita al
Signore nostro Gesù Cristo dobbiamo “stare eretti per riuscire a caricare la
croce sulle nostre spalle, ma questo altro non comporta che assumere una posa
“abbassata”, poiché il carico e il peso non fanno altro che incurvarci,
piegarci. Ma dobbiamo essere certi che lo stare “abbassati”, ovvero “sollevati
e carichi”, ci porterà all’ “esaltazione” definitiva della vita eterna, poiché
nostro Signore Gesù Cristo è Risorto e noi risorgeremo con lui.
Da : CERCO
IL TUO VOLTO
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