“Qual’è” con l’apostrofo e “a me mi”
fanno parte della scrittura digitale.
La studiosa Gheno: «Meglio essere tolleranti
che grammarnazi»
Basta con l’inglese, anche
maccheronico, come “next opening”
di GIACOMO GAMBASSI
Davanti al manifesto che annuncia lo spettacolo di
magia a teatro, un gruppo di bambini delle elementari storce il naso per il
cartello affisso sopra la locandina. C’è scritto Sold
out. E alle mamme i ragazzini chiedono: «Ma che cosa significa? ». Siamo
un po’ provinciali quando infarciamo di mission (“missione”),
forecast (“previsione”), fashion (“moda”) o sold out
(“esauriti”) i nostri discorsi o i nostri scritti. Parole inglesi di fatto
inutili che hanno il solo scopo di far apparire più cool
(“di tendenza”) ciò che diciamo e soprattutto di sembrare più colti di quanto
siamo.
L’anglomania, andazzo italico che unisce le
generazioni, rischia di diventare un’antilingua, direbbe Italo Calvino, che
complica la situazione invece di renderla più comprensibile. E può sfociare
persino nel ridicolo quando coniamo espressioni di fronte alle quali un suddito
britannico di Sua Maestà scoppierebbe a ridere. Perché sono palesi scempiaggini
della sua lingua. Un esempio? Capita spesso che, per essere di classe, il
richiamo “prossima apertura” sulle vetrine di un negozio in ristrutturazione o
in allestimento sia tradotto con next opening.
Che letteralmente vuol dire “apertura seguente o successiva”, come se
l’apertura seguisse a ruota un’altra, oppure “prossima occasione in cui il
negozio sarà aperto”, quasi che le saracinesche del punto vendita si alzassero
sporadicamente. In realtà la traduzione corretta è opening
soon che non aggiunge alcunché all’analogo italiano. Vale lo stesso per work in progress, banalmente “lavori in corso”, che
spesso si trasforma nell’improbabile working progress,
come si leggeva in un cartello all’aeroporto romano di Fiumicino. «I falsi
anglismi sono figli della nostra scarsa conoscenza delle lingue straniere –
spiega la sociolinguista Vera Gheno –. Nella Penisola abbiamo la tendenza a
improvvisarci anglofoni con l’intento di darci un tono. Come si combatte tutto
ciò? Innanzitutto, quando si sta per usare un termine inglese, è bene chiedersi
se si conosce l’esatto significato. Poi è opportuno saper scrivere e
pronunciare correttamente il vocabolo: sentir dire manàggment è goffo. Infine è
necessario domandarsi se non ci sia una parola italiana perfettamente
equivalente e quindi si sta ricorrendo all’inglese per snobismo. Certo, come
italiani non dobbiamo tanto “difendere” la nostra lingua dall’inglese, quanto
imparare a usare meglio entrambe».
La docente a contratto dell’Università di Firenze,
che ha collaborato per vent’anni con l’Accademia della Crusca (di cui ha
gestito l’account Twitter) e che adesso lavora con Zanichelli, propone nel suo
ultimo libro Potere alle parole (Einaudi, pagine
176, euro 13) un vademecum per muoversi meglio fra l’italiano come
strada per diventare più “potenti”.
Alcuni richiami rimandano ai banchi di scuola: qual
è continua a essere preferibile nella grafia senza l’apostrofo; a me mi va
evitato in un contesto alto benché Alessandro Manzoni faccia dire a Renzo nei
Promessi sposi: «A me mi par di sì»; ed e ad si usano quando la parola che
segue inizia con la stessa vocale: ed ecco va bene, ed ancora no. «A ben
guardare è molto difficile dare regole ferree – mette le mani avanti Gheno –.
In classe si tende a insegnare ciò che si può o non si può fare. Più complesso
è cimentarsi con le sfumature della lingua. In contesti informali molte licenze
sono accettabili. Quando parlo con gli amici, posso ribattere: Se lo sapevo,
non venivo. In un tema o durante un’interrogazione serve ricorrere al corretto
Se lo avessi saputo, non sarei venuto ».
Oggi una delle grandi malattie dell’italiano è il
pressappochismo generalizzato che considera irrilevanti gli sbagli. «Poiché gli
errori danno comunque fastidio e distraggono dal contenuto – afferma la
studiosa – è meglio evitarli. Se è pur vero che in una chat o sulle reti
sociali possiamo concederci una certa rilassatezza, stiamo attenti a non essere
troppo rilassati. Altrimenti potremmo contribuire a quella generale sciatteria
comunicativa che è visibile un po’ ovunque». Allora è opportuno scrivere la presidente
e non la presidentessa (sicuramente non la presidenta, che in italiano non
esiste e che è frutto di una bufala giornalistica). E il detto giusto è serrare
le file (non le fila) perché “file” è il plurale di “fila” mentre “fila” è il
plurale meno consueto di “filo”.
«Un errore
che non ha alcuna giustificazione è quello sulla direzione degli accenti –
sostiene Gheno –. Penso a perché scritto
con l’accento grave invece che con quello acuto oppure a é, terza persona singolare del verbo essere, con l’accento acuto al
posto di quello grave. E purtroppo sono abbagli che compaiono nelle pubblicità,
in tv e nei giornali ». Anche famigliare (con la “gl”) e obbiettivo (con due
“b”) sono permessi.
Un capitolo a parte merita l’inglese che penetra
nella nostra lingua. Fisima del Belpaese è quella di accorciare le parole
composte d’Oltremanica: così night club diventa night e social network si
trasforma in social. Poi è superfluo ricorrere al plurale anglosassone quando
un vocabolo inglese ha acquisito il passaporto italiano: pertanto meglio optare
per i fan e non i fans oppure per gli influencer e
non gli influencers. «Con la fissa di “fare i plurali” si rischia anche di
imbattersi in mostri come i Lands tedeschi, mentre il plurale è “Länder”, o di
esclamare “Ma che bel murales” dimenticandosi che si tratta di un
plurale mentre il singolare spagnolo è “mural” anche se molti usano la versione
italianizzata “murale”». Persino quando incontriamo i “prestiti di necessità”,
ossia forestierismi che si fa fatica ad adattare in italiano, non sarebbe male
provare a tradurli. Vera Gheno propone fotoschermo per screenshot.
E, qualche decennio fa, il “neopurista” Arrigo Castellani aveva già lanciato
fubbia per smog visto che “smog” è parola macedonia composta da smoke “fumo” e fog
“nebbia”, quindi fu+bbia. «Oggi non vanno più di moda i calchi linguistici –
chiarisce l’esperta –. Ma è grazie a questi giochi se abbiamo bistecca creata
da beef steak o grattacielo da skyscraper ».
I lemmi importati si inseriscono sulla scia dei neologismi.
Come petaloso, aggettivo che nel 2016 ha attirato l’attenzione della Crusca e
che tanti giudicano sgraziato. «Ma non esistono parole belle o brutte. Davanti
a un nuovo vocabolo la discriminante è la percezione di utilità. Prendiamo
dronista, cioè guidatore di droni: è stato inserito nei vocabolari perché le
persone lo utilizzano. Invece petaloso non è tuttora nei vocabolari, benché
molti siano convinti del contrario, perché nessuno lo usa».
Da evitare, in ogni circostanza, l’arroganza del
“grammarnazi”. «È colui che si fossilizza su una posizione di durezza e di
disprezzo nei confronti di chi non usa bene la lingua. Ed esprime tutto ciò in
maniera odiosa – conclude Gheno –. Non c’è nulla di male ad avere gusti
linguistici personali, ma non possiamo scivolare nell’intolleranza. Meglio
essere più attenti al proprio italiano. Se tutti seguissimo questo
suggerimento, si innescherebbe un circolo virtuoso che sarebbe ben più efficace
dell’inutile intransigenza reciproca».
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