dei corpi perfetti cancella l’umano
Ogni intervento crea una nuova insoddisfazione. Ogni tentativo di perfezionamento genera un nuovo difetto. E il rimodellamento non serve a favorire le relazioni affettive con gli altri ma a costruire corazze narcisistiche.
L’apparizione
di corpi in forma, sempre giovani e belli, modellati dalla chirurgia estetica,
costituisce da diversi anni una presenza sempre più costante nel paesaggio
ipermoderno. L’azione del bisturi e dell’ago sagoma forme perfette che non
rispondono però solo a un ideale estetico ma intendono scongiurare innanzitutto
la presenza fatale della morte. Il corpo che non mostra i segni del proprio
invecchiamento si configura come uno scongiuro, un talismano che rigetta il
tempo inesorabile della nostra fine. Tuttavia il ricorso alla chirurgia
estetica non riguarda solo la vita nel suo momento fisiologico di declino, ma
anche, se non soprattutto, le nuove generazioni. “Mi voglio rifare tutta!” è
l’esclamazione di una giovane paziente insoddisfatta delle forme del suo corpo.
L’azione del bisturi, come quella dei tatuaggi che si estendono a tutta o quasi
la superficie del corpo, porta con sé l’illusione dell’autogenerazione.
“Rifarsi tutta” significa, infatti, scegliere quale forma dare al proprio corpo
perseguendo un ideale di autofondazione e di assoluta padronanza: non solo
rivendico il corpo come mio, ma lo faccio essere come voglio. Tentativo di
contrapporsi all’eteronomia strutturale del corpo che, in realtà, nessuno di
noi ha potuto, in origine, né scegliere né rendere eterno.
Se poi si osserva il
corpo di giovani donne rimodellate dal bisturi non può non colpire la loro
drastica uniformazione. Mentre la bellezza di un corpo, come ricordano Flaubert
e Warburg, si rivela concentrandosi nei suoi “divini dettagli”, ovvero nei suoi
tratti irregolari che rendono quel corpo unico e singolare, quella offerta
dalla chirurgia estetica risponde invece a un criterio standard, uguale per
tutti, conformista: stesso naso, stesse labbra, stessi seni, stessi glutei. Ma
perché? La risposta pare imporsi con evidenza. I corpi di queste donne tendono
a corrispondere all’idiozia del fantasma maschile che eleva proprio quegli
oggetti — in particolare labbra, seni e glutei — alla natura feticistica del
proprio fantasma. In termini più semplici, il corpo delle donne tende a
corrispondere perfettamente all’immaginario sessuale maschile facendosi simile
a quello di vere e proprie bambole artificiali del sesso. In un’epoca dove il
femminismo ha giustamente imposto una cultura dei diritti che ha interrotto l’egemonia
maschilista, questi corpi di gomma sembra mostrino l’altra faccia della
medaglia, ovvero l’inossidabilità del fantasma feticistico maschile e la
difficoltà della donna a liberarsi dalla sua presa.
Ma saranno poi queste
donne felici? In alcuni casi il ricorso alla chirurgia estetica non ha nulla di
patologico. Penso a una mia paziente che dopo duegravidanze decide di rifarsi
il seno, messo a dura prova da prolungati allattamenti, per ritrovare la propria
femminilità. Un’altra decide di sottoporsi allo stesso intervento a causa delle
lesioni provocate da un’operazione oncologica. Infine un’adolescente il cui
volto è ingombrato da un naso prominente decide di liberarsi da questa presenza
ricorrendo al bisturi.
Patologico è invece il
ricorso compulsivo, l’insoddisfazione che accompagna ogni intervento e che
sospinge ad altri nuovi interventi sino talvolta a provocare evidenti effetti
di deformazione aberrante del proprio corpo. Si tratta a volte di un vero e proprio
calvario che trasforma il corpo in una sorta di cantiere permanentemente
aperto. In questi casi il paradosso è che ogni intervento crea una nuova
insoddisfazione, ogni tentativo di perfezionamento genera un nuovo difetto. Ma
quando una ragazza esige di avere labbra carnose, seni giganti e un sedere
scolpito sta davvero esprimendo un desiderio soggettivo o manifesta il suo
adattamento conformista a un ideale estetico imposto dal fantasma maschile?
Nondimeno “rifarsi tutta” non è così semplice perché non è semplice correggere
l’immagine inconscia del proprio corpo.
Non dovremmo infatti mai
dimenticarci che “bello” o “brutto” non corrispondono all’oggettività delle
proprie forme estetiche. È un fatto di esperienza comune: uomini e donne brutti
possono vivere con totale serenità la propria disarmonia e, al contrario,
uomini e donne oggettivamente belli possono vivere con tormento l’immagine del
proprio corpo vissuta sempre come inadeguata e imperfetta. Perché?
Quando guardiamo il
nostro corpo allo specchio interviene una memoria inconscia che ha reso la
nostra immagine qualcosa di amabile o qualcosa di perennemente insufficiente. È
quello che Françoise Dolto aveva, appunto, definito come “immagine inconscia del
corpo” che come tale non corrisponde alla sua immagine reale. La sensazione di
essere bello o brutto scaturisce dai nostri primi incontri con lo sguardo e le
parole delle figure affettive più significative. Sono stato guardato come
sufficientemente amabile? Sono stato amato per quello che sono? Il bisturi
prova a correggere le risposte negative a queste antiche domande senza però
poterne venire a capo. In questo senso il culto del corpo muscoloso e
palestrato è l’equivalente maschile della sindrome del perfezionamento estetico
che affligge i corpi femminili. Il bicipite gonfio, la mascella squadrata, le
dentature perfette, i toraci e gli addomi scolpiti sottraggono il corpo alla
relazione con l’altro per esaltarne una sorta di autosufficienza onnipotente. È
questo un altro paradosso: il rimodellamento del corpo non serve a favorire le
relazioni affettive con gli altri ma a costruire corazze narcisistiche che
allontanano dalla relazione. Il terrore della morte si confonde qui con il
terrore dell’amore.
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