sabato 1 febbraio 2025

LA REDENZIONE DI GERUSALEMME

Presentazione del Signore

Ml 3,1-4; Sal 23 (24); Eb 2,14-18; Lc 2,22-40

 

Commento di Ester Abbatista

In questa domenica si celebra la festa della presentazione di Gesù al Tempio. Luca è molto attento a descrivere gli atti importanti che seguono la nascita di un figlio nella fede ebraica.

Dopo otto giorni, la circoncisione (berit milà): «Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù» (Lc 2,21). E, successivamente, dopo il tempo della purificazione, la presentazione del primo figlio maschio al Tempio per il riscatto (pidion haben), secondo la Torah: «Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, Maria e Giuseppe portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella Torah del Signore: “Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore” – e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la Torah del Signore».

Il tutto avviene quindi in osservanza della Torah, e più precisamente secondo quanto è scritto nel Levitico: «L’ottavo giorno si circonciderà il prepuzio del bambino. Poi ella [la madre] resterà ancora trentatré giorni a purificarsi dal suo sangue; non toccherà alcuna cosa santa e non entrerà nel santuario, finché non siano compiuti i giorni della sua purificazione» (Lv 12,3-4).

Inoltre è proprio il testo del Levitico che ci informa sul fatto che l’offerta di una coppia di tortore o colombi è segno che la coppia non era ricca: «Quando i giorni della sua purificazione per un figlio o per una figlia saranno compiuti, porterà al sacerdote all’ingresso della tenda del convegno un agnello di un anno come olocausto e un colombo o una tortora in sacrificio per il peccato. (…) Se non ha mezzi per offrire un agnello, prenderà due tortore o due colombi: uno per l’olocausto e l’altro per il sacrificio per il peccato. Il sacerdote compirà il rito espiatorio per lei ed ella sarà pura» (Lv 12,6-8).

All’interno di questa descrizione, che fa vedere come i genitori di Gesù agiscano in tutto e per tutto secondo la fede ebraica, Luca pone due figure di anziani che si trovano allo stesso tempo nel Tempio: Simeone e Anna. In comune, oltre all’età avanzata, i due hanno il fatto che sono in attesa, che sperano in qualcosa.

Il primo, Simeone – dice il testo – «aspettava la consolazione d’Israele»; la seconda, Anna, aspettava «la redenzione di Gerusalemme». Ambedue vedono in questo bambino la realizzazione delle loro attese e speranze. Simeone, mosso dallo Spirito, si reca al Tempio e, preso in braccio il bambino, realizza che la sua speranza si sta compiendo. Anna, invece, che praticamente vive nel Tempio, è una profetessa e, alla vista del bambino, lo indica come la realizzazione di quello che sarà la liberazione di Gerusalemme e, conseguentemente, di tutto il popolo.

Due anziane persone, ormai prossime alla fine, risultano fondamentali nel riconoscimento di Gesù come Messia e liberatore di Israele. Che cosa permette loro tutto questo? Certo la presenza dello Spirito, per l’uno, e il dono della profezia, per l’altra; ma aggiungerei proprio la loro età, l’esperienza dei loro numerosi anni, la memoria di una storia tramandata, accolta e vissuta in prima persona: tutto questo è futuro. È ciò che permette loro di intra-vedere il futuro, di riconoscerne i segni, di annunciarne la venuta.

È forse questo uno dei tanti messaggi che questo bellissimo testo può offrirci: la memoria, la storia, come esperienza vissuta e tramandata, non è qualcosa che appartiene al passato, ma è la porta di accesso al nostro futuro, la lente attraverso cui possiamo intra-vederlo, riconoscerlo, accoglierlo. Senza storia, senza memoria, non solo non c’è futuro, ma non c’è neanche attesa, non c’è neanche speranza e, soprattutto, non c’è novità.

E andrebbe sottolineato il fatto che sia Simeone che Anna, nel rappresentare la memoria e la storia, non sono personaggi attaccati «al passato», incapaci di cambiamento, quasi morbosamente cristallizzati in un’epoca o in una comprensione dei testi e della realtà ancorata al passato; i loro occhi sono capaci di vedere il «nuovo» proprio a partire dall’«antico», cioè a leggere e interpretare le Scritture cogliendone la «novità» di Dio.

Non è forse questo quello che, anni dopo, lo stesso Gesù farà con i discepoli sulla strada verso Emmaus? Anche questi speravano e attendevano «che fosse lui a liberare Israele» e cercavano consolazione nella memoria storica racchiusa proprio ad Emmaus, ma ciò che mancava loro era la capacità di intra-vedere, a partire proprio dalla storia, dalla memoria delle Scritture, quel «nuovo» di Dio di cui senza saperlo erano stati testimoni.

Alla fine, anche i loro occhi si sono aperti e il futuro è apparso loro, ma questo è stato possibile solo quando hanno saputo guardare alla memoria vera, a quella storia che Dio aveva costruito con il suo popolo, alle Scritture: «E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (Lc 24,27).

Il Regno

 


MEMORIA. PASSATO e FUTURO


La memoria 
del passato 
che nasconde
gli orrori del presente





- di Giuseppe Savagnone *


La memoria e l’alleanza della CDU con i neo-nazisti

Il giorno della memoria – celebrato in tutto il mondo il 27 gennaio, giorno della liberazione di Auschwitz  – è stato istituito nel 2005 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite per non dimenticare le vittime dell’Olocausto e per ammonire l’umanità sul pericolo sempre presente che quegli orrori possano ripetersi.

«Mai più!» è lo slogan che da allora risuona in questa ricorrenza. Oggi, a vent’anni di distanza, dobbiamo constatare che, mentre la prima di queste due finalità si è realizzata anche quest’anno, la seconda no. 

Tristemente emblematico, a conferma di ciò, il fatto che in Germania, il 29 gennaio – solo due giorni dopo la solenne commemorazione delle atrocità commesse durante il regime nazista -, Friedrich Merz, il leader della CDU, il maggiore partito tedesco (e probabile prossimo cancelliere), non ha esitato ad allearsi con Alternative für Deutchland (AfD), la forza politica che più direttamente ha raccolto l’eredità di quel regime.

È la prima volta nella storia e la scelta di Merz rompe un tabù che i partiti democratici tedeschi avevano sempre rispettato, sdoganando così AfD, da sempre accusata di essere neo-nazista. A determinare la convergenza è stato il comune intento di far passare un provvedimento che restringe drasticamente il diritto di asilo ai migranti.

Ma l’estrema destra non è più antisemita, anzi è filo-israeliana

Perché ormai da tempo l’estrema destra tedesca, concentrandosi sull’islamofobia, ha accantonato il tradizionale antisemitismo, anzi ha addirittura dato il suo appoggio allo Stato d’Israele nel suo scontro col mondo islamico per la questione palestinese.

Al punto che nel 2020 Yair Netanyahu, figlio maggiore dell’attuale primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, è diventato letteralmente il “ragazzo immagine” di AfD per aver attaccato la «cattiva» Unione europea, che, a suo giudizio, con la sua politica verso i palestinesi e gli arabi in genere era nemica di Israele e di «tutti i paesi cristiani europei».

Il sostegno dell’estrema destra a Israele, in nome dell’islamofobia, non è un’esclusiva tedesca, ma si sta sviluppando in tutta Europa. Accanto ad Alice Weidel dell’AfD, leader di estrema destra come Geert Wilders nei Paesi Bassi, Marine Le Pen in Francia, Nigel Farage nel Regno Unito e Viktor Orbán in Ungheria sono apertamente schierati con lo Stato ebraico.

Il sostegno esplicito ed entusiasta al sionismo è diventato un principio ideologico per la maggior parte di questi partiti, scenario impensabile dalla prospettiva di cinquanta o addirittura trent’anni fa.

Su questa linea è anche la destra italiana, la prima, dopo quella ungherese, ad arrivare al governo, che nella guerra di Gaza ha fornito a Israele il proprio pieno appoggio politico e militare. Lasciandosi dietro le spalle le leggi razziali del fascismo, questo nuovo razzismo ha di mira non gli ebrei, ma gli immigrati provenienti dall’Africa e dall’Asia, automaticamente catalogati come islamici (senza tener conto che un buon numero di essi sono in realtà cristiani).

Quando, in seguito all’invasione russa, migliaia e migliaia di ucraini vennero in Italia, il più acceso sostenitore della “difesa dei confini”, il vice-premier Matteo Salvini, non ha più parlato di “invasione”, anzi in una particolare circostanza, si diceva «felice di sapere che entro sera altri 50 fra bimbi e famiglie scappati dall’Ucraina partiranno in pullman per venire in Italia».

A chi gli faceva notare l’incoerenza con le sue accanite battaglie contro i migranti, ha risposto: «Mentre spesso si parla di guerre finte, questi profughi sono veri e scappano da guerre vere».

Una spiegazione che prescinde totalmente dalle reali situazioni che generano l’emigrazione e lascia chiaramente capire che si è benvenuti in Italia solo se  si è bianchi e cristiani.

America ed Europa unite nelle deportazioni dei migranti e nel sostegno a Netanyahu

Il ciclone Trump, ha confermato questo collegamento tra la lotta contro i migranti  (anche se in un contesto diverso: i suoi non sono bianchi, ma cristiani sì) e l’appoggio ad Israele. Della prima è eloquente sintesi la fotografia postata dalla Casa Bianca, e che ha fatto il giro del mondo, degli uomini in fila, in catene, come criminali o bestie.

Trump ha parlato della «più grande deportazione» della storia americana e si propone addirittura di allestire un campo di detenzione per loro a Guantanamo, il famigerato penitenziario americani dove vengono richiusi e – per comune ammissione – torturati i sospetti terroristi.

Del sostegno incondizionato ad Israele si è avuta subito una prova quando il nuovo presidente ha chiarito qual è la sua idea del futuro della Palestina. Niente due Stati, come prevedeva la risoluzione dell’ONU del 1947 e come finora la diplomazia mondiale aveva auspicato, bensì deportazione – ritorna questo concetto! – degli abitanti di Gaza (circa due milioni e mezzo) nei paesi arabi vicini (che naturalmente hanno subito rifiutato).

Una proposta che ha suscitato l’entusiasmo dei due leader dell’estrema destra israeliana, il ministro dell’economia Bezalel Smotrich e l’ex ministro della sicurezza Itamar Ben Gvir, che da tempo pressano per approfittare di questa guerra per cacciare i palestinesi e aprire Gaza ai coloni israeliani.

A proposito di coloni israeliani, Trump ha anche annullato le sanzioni stabilite dal suo predecessore contro quelli della Cisgiordania che avevano occupato illegalmente, con la violenza, le terre dei palestinesi, spianando così la strada a ulteriori aggressioni che è veramente difficile far passare sotto l’etichetta del “diritto di Israele a difendersi”.

In realtà la duplice tendenza ad alzare muri contro i migranti e ad appoggiare Israele si può riscontrare oggi nella maggior parte dei governi occidentali (con la sola eccezione della Spagna e dell’Irlanda).

Alle accuse rivoltegli per il provvedimento anti-migranti fatto passare con l’appoggio di AfD, Merz ha replicato: «Io chiedo cosa facciano di diverso da quello che io propongo la Danimarca, la Svezia, la Finlandia, l’Italia, i Paesi Bassi, tanti Paesi europei che sono nella nostra stessa Unione europea». L’Europa si sta barricando.

 Contemporaneamente, appoggia Israele. Non, si badi bene, il popolo ebreo, ma specificamente Netanyahu e il suo governo, scavalcando le posizioni di dissenso che all’interno dello Stato ebraico da tempo si levano contro la gestione della guerra.

Sono molto significative a questo proposito, le risposte della maggior parte dei governi europei alla recente decisione della Corte penale internazionale di emettere un mandato di arresto per il primo ministro israeliano e per il ministro della guerra Ioav Galland «per crimini di guerra e crimini contro l’umanità» 

A colpire non è tanto quella di un paese dell’Est come l’Ungheria, dove già il diritto è ampiamente sopraffatto dalla politica e il cui premier ha subito chiarito che la sentenza della Corte penale «non avrà alcun effetto», invitando addirittura il premier israeliano a Budapest.

Più impressionanti  sono le reazioni di quelle democrazie occidentali, che negli ultimi due anni e mezzo si sono hanno fatto delle difesa dei diritti umani una bandiera nel loro strenuo impegno a sostegno del popolo ucraino contro l’aggressione russa. 

A cominciare dalle dichiarazioni della nostra presidente del Consiglio: «Approfondirò in questi giorni le motivazioni che hanno portato alla sentenza. Motivazioni che dovrebbero essere sempre oggettive e non di natura politica». Dove è chiara l’insinuazione che la sentenza dell’Aja sia motivata da ragioni politiche, come quelle dei giudici italiani sui migranti.

In ogni caso – ha assicurato la nostra premier – «un punto resta fermo per questo governo: non ci può essere una equivalenza tra le responsabilità dello Stato di Israele e l’organizzazione terroristica Hamas».

Ma non è stata solo l’Italia a mostrarsi molto restia a rispettare la sentenza della Corte. Una dichiarazione congiunta dei ministri degli Esteri di Germania, Francia e Regno Unito affermava che non vi è alcuna giustificazione per cui la Corte penale internazionale debba adottare misure contro i leader israeliani e si esprime preoccupazione per le implicazioni della sentenza sulla stabilità regionale. Come se la cancellazione deliberata e sistematica di una popolazione  non fosse avvenuta sotto i nostri occhi.

Ma, cosa ancora più grave, dal punto di vista giuridico, come se il valore delle sentenze della Corte, a cui tutti questi Stati aderiscono e creata per avere un punto di riferimento super partes nelle questioni internazionali, dipendesse dalle loro valutazioni di parte.

Quale antisemitismo?

Alla luce di questi innegabili dati, acquista un significato ambiguo la denuncia del diffondersi dell’antisemitismo. Ce n’è uno inaccettabile, contro cui bisogna continuare a non abbassare la guardia.

Ma ce n’è un altro, attribuito a chiunque critichi il governo israeliano. E proprio l’estrema destra, inclusi i neo-nazisti, con la pretesa di combattere questo antisemitismo, giustifica il massacro dei palestinesi e la pulizia etnica di Gaza, nonché la  progressiva “purificazione” degli Stati Uniti e dell’Europa da tutti coloro – prima di tutto gli islamici – che con la loro presenza “inquinano” la purezza della civiltà occidentale e danno il loro appoggio alla causa palestinese .

Ogni fenomeno storico è diverso dai precedenti. Ma è certo che il quadro che si profila, e che già si realizza, ha alcune cose in comune con l’Olocausto: altri lager, come in Libia, altri massacri sistematici di uomini, donne e bambini, come a Gaza, altre deportazioni, come negli Stati Uniti e presto, sempre più, anche in Europa.

E questa volta dalla parte degli aguzzini ci siamo noi, i paesi “democratici”, e gli stessi ebrei – quelli che stanno compiendo queste atrocità o, dentro e fuori lo Stato ebraico, le giustificano, e che però, per fortuna, sono possono fare dimenticare tanti altri ebrei che, dentro e fuori lo Stato ebraico, si oppongono a questa logica disumana.

Questo non impedisce agli aguzzini di oggi di continuare a mettersi nei panni delle vittime di ieri. Vedendo il filmato che rappresentava la giovane israeliana liberata da Hamas strattonata e schiacciata dall’immensa folla che stava attorno (restando peraltro illesa), Netanyahu – dopo quindici mesi in cui per suo ordine 47mila persone innocenti, di cui la maggior parte donne e bambini, sono state uccise, e due milioni e mezzo di abitanti sono stati privati del cibo, dell’acqua, e delle medicine, hanno visto distrutte le loro case e morire i loro cari che sono ancora sotto le macerie – , è rimasto indignato e ha parlato di «inimmaginabile crudeltà».

Il ricordo di ieri non deve essere perduto, ma non può farci chiudere gli occhi su quello che accade oggi. C’è un antisemitismo autentico che dobbiamo continuare a combattere con tutte le nostre forze, ma ce n’è uno, che altro non è se non un alibi per nascondere le colpe di oggi e che dev’essere denunciato, per non ritrovarci, il giorno della memoria del prossimo anno, a gridare «Mai più!» , insieme ai neonazisti

 *Editorialista e scrittore

 www.tuttavia.eu

 

 

L'INFANZIA DI GESU'




 Secondo il Vangelo di Luca

 

-         di Giuseppe De Rosa

-           

L'annuncio della nascita di Gesù

Negli stessi anni in cui Matteo redigeva il suo Vangelo (80-90 d.C.), Luca scriveva il suo, senza che i due evangelisti conoscessero l’uno l’opera dell’altro. Il fatto curioso è che i due Vangeli iniziano col raccontare, nei rispettivi primi due capitoli, i fatti riguardanti l’infanzia di Gesù. Ma lo fanno in maniera assai diversa, tanto che non è possibile ricavarne un racconto unitario.

Nei primi quattro versetti (Lc 1,1-4) Luca esprime la propria intenzione nello scrivere il suo Vangelo. Egli si rende conto che la comunità cristiana del suo tempo sta attraversando un periodo molto difficile: dopo la morte degli Apostoli c’è un’incertezza dottrinale nella Chiesa a causa della presenza di tradizioni diverse — quella giudaico-cristiana palestinese e quella ellenistico-paolina — e c’è il pericolo che si infiltrino all’interno della comunità le tendenze sincretistiche dell’ellenismo. Il rimedio a tale situazione per Luca è riproporre la «tradizione apostolica» (paradosis) nella sua integrità e in tal modo attenuare la tensione e la contrapposizione tra i diversi gruppi.

La «tradizione apostolica» era nei primi tempi anzitutto orale; presto però si sentì il bisogno di fissarla per iscritto. Infatti, Luca ricorda che sono stati «molti» (polloi) quelli che hanno scritto resoconti attendibili di quanto Gesù aveva fatto e insegnato fino alla sua ascensione al cielo e di quanto avevano testimoniato gli Apostoli, divenuti «ministri della Parola» (Lc 1,2) dopo la risurrezione e l’ascensione di Gesù. Ora egli vuole raccogliere tutto quello che i «molti» hanno scritto e tutte le tradizioni orali che non sono state messe per iscritto, ma che appartengono alla «tradizione apostolica». Perciò, dopo aver verificato attentamente e accuratamente (akribôs) ogni cosa, cioè la totalità degli eventi (pasin), fin dall’inizio (anôthen), ha deciso di scrivere un resoconto «ordinato (kathexès) di tutta la «tradizione apostolica», come egli ha potuto conoscerla sia attraverso le opere dei «molti» che lo hanno preceduto, sia attraverso la propria ricerca personale di tradizioni orali che gli sono parse attendibili dopo un’accurata verifica.

Luca perciò si comporta non da «storico», che scrive per persone dubbiose, le quali attendono prove storiche di quanto egli afferma, ma da «tradente» della paradosis apostolica. Il suo scopo nel redigere la sua opera è anzitutto quello di fissare la «tradizione apostolica» nella sua integrità e nella sua verità, in modo che sia assicurata l’unità della fede e non si diffondano tra i fedeli dottrine esoteriche contrarie alla «tradizione apostolica». Lo scopo particolare che lo ha indotto a intraprendere un lavoro complesso e faticoso è quello di mostrare all’«illustre Teofilo»[1] la fondatezza e la solidità (asphaleia) degli insegnamenti nei quali è stato istruito nella catechesi battesimale e post-battesimale, fondata precisamente sulla retta trasmissione della «tradizione apostolica». Perciò Luca «si presenta come raccoglitore e trasmettitore normativo della paradosis apostolica», riuscendo «a comporre insieme le più antiche tradizioni raggiungibili sulle parole e sui racconti di Gesù provenienti dalle comunità sia giudeo-cristiane sia etnico-cristiane e a presentarle alla Chiesa come un tutto canonicamente vincolante»[2].

«Preludio» al kerygma apostolico

Luca è consapevole che l’annuncio (kerygma) del «vangelo» di Gesù ha inizio con la sua apparizione da adulto, sulla riva del Giordano per farsi battezzare da Giovanni e con la prima predicazione del regno di Dio. La «tradizione apostolica», cioè, considera come suo inizio la predicazione di Gesù nella Galilea, di cui gli Apostoli possono testimoniare in quanto sono stati spettatori fin dall’inizio del suo ministero. Perciò l’infanzia e l’adolescenza di Gesù non fanno parte della «tradizione apostolica», non avendo avuto gli Apostoli come testimoni oculari.

Luca però ha trovato tradizioni attendibili, riguardanti la prima «venuta» di Gesù dal Padre nel mondo come suo «inviato», che aiutavano a comprendere meglio il mistero di Gesù adulto, partendo dalla sua «origine». Perciò ha pensato di raccogliere queste tradizioni e premetterle come «preludio» al kerygma apostolico. Così i capitoli primo e secondo del Vangelo di Luca, che trattano dell’infanzia di Gesù, non sono un’aggiunta posticcia a questo Vangelo, ma ne sono parte integrante. In realtà, questi due primi capitoli esprimono la fede cristiana primitiva e fanno comprendere «chi è» (il Figlio di Dio) e «donde viene» (dal Padre) colui che, a poco più di 30 anni, si presenta, annunciando, come è detto in Mc 1,15: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo».

Perciò anch’essi fanno parte della testimonianza della Chiesa apostolica, seppure in forma propria, che non è quella del resto del Vangelo di Luca. Infatti, «la testimonianza di Lc 1-2 nella sua totalità ha più dell’omologesi [confessione di fede] che del kerygma (per quanto pure il kerygma della venuta di Gesù sia in essa “adombrato” e “riflesso”); essa è, in modo particolare, “confessione” di Cristo da parte del fedele, non soltanto annuncio di Cristo (anche se le due realtà non possono essere separate). […] Più che nei brani narrativi, l’evento di Cristo s’illumina nelle voci profetiche e negli inni inframezzati. In questa confessione sembra che Luca voglia sottolineare in maniera particolare la figliolanza divina di Gesù, che sta alla base sia del suo “essere Signore” (cfr Lc 2,11) in quanto Figlio di Davide, sia anche della sua funzione di sôtèr,salvatore (Lc 2,11). Propriamente intesa, l’omologesi diventa tale soltanto quando di essa viene fatta memoria festosa nella celebrazione liturgica»[3].

Ci si può chiedere se nei primi due capitoli del suo Vangelo, Luca abbia avuto un interesse biografico. In realtà, tale interesse non manca, ma è secondario. Il suo interesse essenziale è teologico. Egli è interessato alle notizie biografiche soltanto in quanto aiutano ad accertare e garantire come tradizione attendibile l’annuncio protocristiano che riguarda l’infanzia di Gesù. Quello che è importante sottolineare è la necessità di distinguere attentamente il messaggio che i due primi capitoli di Luca vogliono trasmettere dal suo rivestimento letterario. Soltanto così è possibile discernere le tradizioni storiche che sono alla base del racconto dell’infanzia di Gesù, quale si trova nei primi due capitoli del Vangelo di Luca.

Qual è l’origine di questi due capitoli?

È assai probabile che Luca abbia aggiunto i primi due capitoli al suo Vangelo già composto. È anche probabile che li abbia trovati nella loro attuale ampiezza già tradotti in lingua greca e che non sia stato lui a comporre sia le pericopi sia gli inni, non essendo un buon conoscitore delle lingue semitiche. Il testo, giunto a Luca in lingua greca, in quale lingua era scritto originariamente: in aramaico o in ebraico? La maggioranza degli esegeti si orienta verso l’ebraico. Ad ogni modo proviene da un ambiente palestinese. Esso sarebbe stato composto in una comunità giudeo-cristiana negli anni Sessanta.

Passando ora a parlare della nascita di Gesù come è presentata nel Vangelo di Luca, rileviamo che al centro del racconto ci sono la nascita di Gesù a Betlemme, l’adorazione dei pastori, la sua presentazione al Tempio di Gerusalemme, il suo ritorno a Nazaret e infine la sua visita al Tempio all’età di 12 anni. Questo centro del racconto è contenuto tutto nel secondo capitolo di Luca. Ma il tema della nascita di Gesù è preparato — sarebbe meglio dire «precorso» — dalla nascita di Giovanni, narrata nel capitolo primo.

Nella vita adulta, Giovanni il Battista sarebbe stato il «precursore» di Gesù. Il Vangelo di Luca mostra che egli lo è fin dall’infanzia. Così il concepimento di Giovanni da parte di Elisabetta è dato dall’angelo Gabriele a Maria come «segno» del concepimento di Gesù: «Vedi: anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito un figlio» (Lc 1,36). Infatti, fin da quando è nel seno di sua madre, Giovanni fa riferimento a Gesù, «esultando di gioia» alla venuta di Gesù nella sua casa, portato da Maria. Infine, nel suo cantico di lode a Dio, suo padre Zaccaria lo presenta come colui che «andrà davanti al Signore a preparargli le strade» (Lc 1,76).

Giovanni è dunque in funzione di Gesù, e questi appare sempre più grande di lui. Le storie di Giovanni sono ogni volta una preparazione e una promessa di quelle di Gesù. Giovanni è la promessa; Gesù è il compimento. Infatti, ad ogni racconto che riguarda Giovanni segue — ma su un piano molto più elevato — un racconto che riguarda Gesù.

L’annuncio della nascita di Giovanni e l’inizio del suo compimento

Giovanni è di stirpe sacerdotale. Suo padre Zaccaria era un sacerdote della classe di Abia, e sua madre era una discendente di Aronne. Essi, molto pii, non avevano figli ed essendo avanzati in età non speravano più di averne. Zaccaria apparteneva all’ottava delle 24 classi sacerdotali che officiavano nel Tempio di Gerusalemme a turno, cosicché ad ogni classe toccavano due settimane all’anno di servizio liturgico. In una di queste settimane toccò a Zaccaria l’incarico di offrire l’incenso. Nel frattempo il popolo si radunava nell’atrio, dove accompagnava con la preghiera l’oblazione dell’incenso e attendeva la benedizione sacerdotale. Zaccaria, oltrepassata la cortina esterna, stava versando gli aromi sui carboni accesi dell’altare dell’incenso quando ebbe una visione: gli apparve al lato destro dell’altare dell’incenso un angelo del Signore. Egli ne fu impaurito, ma l’angelo gli disse: «Non temere, Zaccaria, la tua preghiera è stata esaudita, e tua moglie Elisabetta ti darà un figlio che chiamerai Giovanni» (Lc 1,13). Zaccaria, cioè, in quanto padre, dovrà dare il nome al bambino che nascerà, ma è Dio che indica quale nome gli dovrà dare: segno che il bambino appartiene a Dio in modo speciale.

La nascita di Giovanni sarà motivo di grande gioia non soltanto per lui, Zaccaria, ma per «molti», non soltanto parenti e amici, ma anche per tutti coloro che per mezzo della predicazione di Giovanni riceveranno il dono della salvezza. Questa gioia è fondata sul fatto che Giovanni sarà «grande» dinanzi a Dio, sarà ripieno di Spirito Santo fin dal seno di sua madre e sarà profeta, anzi più che profeta, perché dovrà preparare tutto il popolo a colui che deve venire, il «Signore», che per Luca è Gesù. Zaccaria non ritiene possibile quanto gli ha detto l’Angelo e chiede un segno, anche se non ha nessuna ragione di dubitare, perché è Gabriele — l’angelo che «sta dinanzi a Dio» — a portargli il messaggio celeste. Egli perciò avrà un segno, ma tale segno sarà anche una punizione: Zaccaria, infatti, diventerà muto fino a quando si compirà quanto l’Angelo gli ha preannunciato, perché non ha «creduto». In realtà non si tratta soltanto di un segno «punitivo». Il suo mutismo dovrà anche significare che l’uomo deve attendere il dono di Dio nel silenzio adorante.

Intanto il popolo, nell’atrio, attende che Zaccaria esca per impartire la benedizione. Poiché l’attesa si prolunga, il popolo si meraviglia; quando poi si accorge che Zaccaria non riesce a dire le parole della benedizione, pensa che abbia avuto una visione. Terminata la sua settimana di servizio, Zaccaria lascia Gerusalemme per tornare a casa sua. L’annuncio dell’angelo si compie subito: Elisabetta concepisce un bambino, ma per la vergogna, tiene nascosta la sua gravidanza per cinque mesi. Alla fine riconosce che la sua gravidanza è opera di Dio e lo loda perché le ha tolto il disonore di essere senza figli.

L’annuncio della nascita di Gesù

All’annuncio della nascita di Giovanni segue immediatamente quello della nascita di Gesù (Lc 1,26-38). L’azione prende l’avvio con un dato cronologico: nel sesto mese della gravidanza di Elisabetta, l’angelo Gabriele è inviato in una cittadina della Galilea, Nazaret, a una vergine, fidanzata a un uomo di nome Giuseppe, della casa di Davide; il nome della vergine era Maria. Si notino le condizioni di umiltà in cui è fatto l’annuncio della nascita di Gesù, rispetto a quella di Giovanni: l’angelo non è inviato nella Giudea, ma nella Galilea «delle genti»[1]; non a un sacerdote, ma a una giovane di 15-17 anni[1]; non nel Tempio di Gerusalemme, ma a Nazaret, una borgata sconosciuta, di cui non si parla mai nella Sacra Scrittura e che al tempo di Gesù non godeva buona fama: da essa, infatti, non poteva uscire nulla di buono, come dice Natanaele (Gv 1,46). Tuttavia, si tratterebbe del compimento di una profezia: il fatto che si accenni due volte alla verginità di Maria potrebbe indicare l’intenzione di Luca di rinviare a Is 7,14: «Ecco la vergine concepirà un figlio e lo chiameranno Emmanuele».

Maria è «fidanzata» a Giuseppe della casa di Davide: questa osservazione è importante, perché sarà Giuseppe, in quanto padre legale di Gesù, a inserirlo nella discendenza davidica. L’apparizione dell’angelo ha un tono familiare: egli «entra» nella casa di Maria e la «saluta». Il saluto (chaire) è il saluto greco abituale, che da solo non ha un significato particolare; ma, per il fatto di essere seguito da due espressioni di grande significato quali sono «piena di grazia» e «il Signore è con te», assume il valore di un «saluto salvifico», cioè di un saluto che annuncia la salvezza. Giustamente, perciò, alcuni esegeti sono favorevoli a tradurre chaire con «Rallegrati»[6], per il fatto che l’angelo porta a Maria un messaggio di gioia chiamandola «piena di grazia» e dicendole che «ha trovato grazia presso Dio», perché sarà la madre del Messia. Infatti, l’essere chiamata kecharitômenè (piena di grazia) la prepara ad essere la Madre del messia e le anticipa la grazia della maternità divina, della quale la sorgente è il fatto che «il Signore è con lei»[7].

Questo saluto, così straordinario ed enigmatico, sconcerta Maria, la quale si chiede che senso abbia. A questo punto avviene un colloquio tra Maria e l’angelo. Questi dapprima rassicura Maria, dicendole di non temere, perché il Signore è già con lei, è al suo fianco con la sua grazia e la sua protezione, e sarà così anche nel futuro; poi, le annuncia che concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Gesù. C’è in queste parole un’allusione alla profezia di Is 7,14; ma i verbi al futuro non consentono di pensare che il concepimento avvenga nel momento stesso in cui l’angelo pronuncia le sue parole. Esso avverrà dopo il «sì» di Maria. D’altra parte non è spiegato, come in Mt 1,21, il significato del nome che Maria dovrà dare a suo figlio. Infine, il fatto che sarà lei, Maria, e non Giuseppe a dare il nome a Gesù potrebbe essere un’allusione al concepimento verginale.

Ma «chi» sarà questo figlio? L’angelo dice «Egli sarà grande e sarà chiamato figlio dell’Altissimo»: cioè, sarà «grande» proprio perché «figlio di Dio, l’Altissimo». In forza della sua figliolanza divina, egli riceverà il trono di Davide, suo padre, e il suo regno non avrà fine: sarà dunque il Messia davidico, il cui regno avrà una durata eterna, secondo la profezia di Nathan a Davide (2 Sam 7,16). A queste parole dell’angelo, a differenza di Zaccaria, Maria crede, ma non comprende come possa verificarsi quanto egli ha detto, perché essa dice: «Non conosco uomo». Con queste parole — il verbo «conoscere» indica il rapporto sessuale — Maria vuol dire: «Come posso avere un figlio, se non sono stata ancora introdotta nella casa di mio marito e non ho avuto alcun rapporto sessuale»[8].

Alla perplessità di Maria l’angelo risponde: «Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio» (Lc 1,35). Con queste parole l’angelo annuncia a Maria che essa concepirà non per opera di un uomo, ma per l’azione creatrice di Dio, Spirito Santo e Potenza onnipotente a cui nulla è impossibile: non si parla cioè di procreazione divina, ma di creazione operata dall’onnipotenza di Dio. È la Potenza di Dio che creerà nel seno di Maria il bambino, operando in lei il miracolo del concepimento verginale. Le immagini dell’«adombramento» e della «discesa» di Spirito Santo e Potenza (si noti che nel testo greco i due nomi sono senza articolo) non hanno carattere sessuale, come alcuni ritengono[9], ma esprimono figurativamente l’azione creatrice di Dio. Perciò l’origine del bambino sarà totalmente e soltanto opera di Dio — del suo Spirito Santo e della sua Potenza — per cui il figlio che nascerà da Maria sarà totalmente «Santo»: creato dallo Spirito Santo nel seno di Maria, egli è «santo», non nel senso che è reso santo per grazia, come Giovanni Battista, ma nel senso che è Santo per natura. Oltre che «Santo» il «nato» da Maria sarà chiamato «Figlio di Dio». La figliolanza divina di Gesù, cioè, non sarà opera dello Spirito Santo al momento del battesimo o al momento della risurrezione, ma lo è già al momento del suo concepimento: l’uomo Gesù è Figlio di Dio dal primo momento della sua esistenza umana. Il battesimo e la risurrezione «manifesteranno» la sua natura di Figlio di Dio.

Maria ha chiesto soltanto una spiegazione, non un segno, come invece ha fatto Zaccaria; e tuttavia a lei — e a coloro che ascolteranno la sua parola nel corso dei secoli — è dato un segno che mostra la potenza miracolosa di Dio: Elisabetta, «parente» di Maria e moglie del sacerdote Zaccaria, ritenuta sterile, per un intervento miracoloso di Dio, è già al sesto mese di gravidanza, poiché niente — quindi neppure il concepimento verginale di Gesù — è impossibile a Dio. La risposta di Maria non si fa attendere: «Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto» (Lc 1,38). Con queste parole, Maria anzitutto si dichiara «la schiava (hè doulè) del Signore», a lui totalmente dedicata e pronta a compiere tutto ciò che Egli vuole da lei; poi dà il suo pieno assenso a quello che Dio vuole compiere in lei con la sua onnipotenza creatrice: il concepimento umano del Figlio di Dio. Dopo questo «sì» di Maria, l’angelo silenziosamente «parte da lei», così come silenziosamente era venuto. D’ora in poi, tutto è affidato all’azione creatrice di Dio a cui «nulla è impossibile». Il «sì» di Maria le ha aperto le porte[10].

La visita di Maria e Elisabetta

Appena è venuta a conoscenza della situazione di Elisabetta, Maria si reca «in fretta» a visitarla: essa si trova in una città della Giudea — forse l’attuale Ain Karim — che Maria raggiunge dopo tre-quattro giorni di cammino, passando attraverso la Samaria e il territorio collinoso che si trova tra la zona costiera e la valle del Giordano. Luca non è interessato ai particolari del viaggio: quello che a lui preme è narrare quello che avviene quando si incontrano le due madri — Elisabetta e Maria — e i due figli che esse portano in seno: Giovanni e Gesù.

Varcando la porta di casa di Elisabetta, Maria la saluta alla maniera orientale, con molte parole. Il primo a rispondere al saluto di Maria è Giovanni, che fa un «balzo di gioia» nel seno di Elisabetta per la presenza di Gesù e, in tal modo, fa conoscere a sua madre che Maria porta in grembo il Messia. Giovanni ha da Dio la missione di essere il primo ad annunciare Gesù, ed egli compie questa missione fin dal grembo materno, sotto l’azione dello Spirito Santo di cui è ripieno. Così, appena ha ascoltato il saluto di Maria, Elisabetta sotto l’azione dello Spirito Santo, che è Spirito profetico, esclama a gran voce, rivolta a Maria: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo!» (Lc 1,42). Elisabetta cioè dice a Maria quello che Giovanni non può dirle: che essa, in quanto è la madre del Messia, è «la più benedetta» fra le donne[11]. Si dice poi grandemente onorata della visita della madre del suo «Signore» [Gesù] e del suo saluto, perché questo ha provocato il balzo di gioia di Giovanni nel suo seno e l’ha riempita di Spirito Santo. La gioia provata da Giovanni non è soltanto il saluto che egli dà a Gesù; è la gioia che porta con sé l’irrompere del tempo messianico che si compie con la venuta di Gesù. Elisabetta, sotto l’azione dello Spirito, riconosce che alla base di tutto c’è la «fede» di Maria, che, a differenza di Zaccaria, «ha creduto» che si sarebbero compiute le cose che le erano stata dette dal Signore. Dichiara perciò «beata» Maria, perché «ha creduto», divenendo in tal modo la «Madre della fede», la «prima credente» dell’ordine nuovo inaugurato dall’incarnazione del Figlio di Dio. Infatti, il suo «sì» all’angelo è stato il primo atto di fede del tempo escatologico, che ha avuto inizio con Gesù.

Il «Magnificat», inno di lode di Maria

Nei racconti dell’infanzia di Lc 1-2, gli inni — il Magnificat, il Benedictus, il Gloria in excelsis e il Nunc dimittis — hanno la funzione di illustrare i fatti narrati, spiegandone il senso «spirituale» profondo. Sono inni di lode a Dio per le grandi opere (megala) da lui compiute. Infatti il Magnificat[12] non è la risposta di Maria a quanto Elisabetta ha detto di lei, ma è un’esaltazione del Signore, che si esprime non in una lode di lui, ma in uno stato di giubilo e in un sentimento di gioia che pervade in misura incontenibile la sua anima e il suo spirito. Il motivo di tale giubilo è Dio, il Salvatore», il «suo» Salvatore. L’opera salvifica che Dio ha compiuto in lei — e che la riempie di gioia — è l’avveramento di quanto l’angelo le ha detto. Dio infatti ha guardato con uno sguardo di amore alla piccolezza della sua serva e l’ha resa «Madre del Santo, del Figlio di Dio».

Un privilegio, questo, tanto grande e straordinario per la sua «umiltà» — la sua piccolezza di «serva del Signore» — che tutte le generazioni d’ora in avanti la chiameranno «beata». La prima a chiamarla così è stata Elisabetta — «Beata colei che ha creduto» (Lc 1,45); la chiamerà madre beata un donna della folla durante la vita pubblica di Gesù (cfr Lc 11,27); poi la diranno beata tutte le generazioni future. Il motivo per cui tutti la diranno beata è che Dio onnipotente e santo ha fatto cose grandi per lei. Maria chiama Dio il Potente (ho dunatós) e il Santo (ho hagiôs) per metterne in rilievo la bontà e la misericordia (eleos) verso coloro che lo temono e che sentono di essere «umili» e piccoli dinanzi a lui: essa è tra questi, e la sua lode di Dio Santo e Potente è un invito a comportarsi «con timore e tremore» nei riguardi del «santo suo nome» e con fiducia nella sua «misericordia» verso coloro che lo temono».

A questo punto, inizia la seconda parte del Magnificat (Lc 1,51-55), che si apre su una prospettiva non più personale, ma universale. Finora Maria ha lodato Dio come «suo» salvatore, perché ha fatto «per lei» cose grandi; ora lo loda perché «con la potenza del suo braccio» disperde i superbi, abbatte i potenti dai loro troni e rimanda i ricchi a mani vuote, mentre innalza gli umili e riempie di beni coloro che hanno fame. Maria canta in tal modo il rinnovamento messianico che crea ordine e giustizia in un mondo disordinato e ingiusto. I verbi al passato — «ha deposto» i potenti dai troni e «ha esaltato» gli umili — esprimono la certezza che Dio ribalterà con la venuta del suo Regno l’attuale situazione ingiusta. Questa azione salvifica di Dio riguarderà in particolare Israele povero e umiliato: Dio, ricordandosi della sua misericordia, accoglierà Israele «suo servo», cioè l’Israele formato dai «timorati di Dio» (phoboumenoi), dai piccoli (tapeinoi) e dagli «affamati» (peinôntes), che pongono in Dio la loro fiducia. Compirà cioè la sua promessa fatta ad Abramo e alla sua discendenza. Garante del compimento delle promesse di Dio è il Santo, Figlio di Dio, che Maria porta in seno.

Il racconto della visita di Maria a Elisabetta si chiude con una semplice annotazione di natura temporale: «Maria rimase con lei circa tre mesi», quindi fino a che ella non ebbe dato alla luce Giovanni); «poi tornò a casa sua» (Lc 1,56), cioè dai suoi genitori, segno che non era ancora stata introdotta in casa di Giuseppe.

Dopo questi due «annunci» di Giovanni e di Gesù, fatti alle loro madri, Elisabetta e Maria, l’evangelista Luca può parlare delle loro «nascite». Tanto gli «annunci» quanto le «nascite» devono essere trattati «insieme» perché sono l’uno la «profezia» dell’altro.


[1] Non si sa se Teofilo sia stato una persona reale, a cui Luca dedica i suoi due libri — il Vangelo e gli Atti degli Apostoli — oppure sia simbolo del credente, il quale è «Teofilo» in quanto è «amato da Dio» e «ama Dio». È più probabile che si tratti di un personaggio influente e ricco a cui, secondo l’uso del tempo, Luca dedica i suoi due volumi, affinché, in segno di riconoscimento, se ne assuma le spese della riproduzione e della diffusione.

[2] H. SCHÜRMANN, Il Vangelo di Luca. Parte prima, Brescia, Paideia, 1983, 81e 96.

[3] Ivi, 100 s. Si nota, in proposito, che è sorprendente il fatto che la Chiesa abbia avuto bisogno di oltre 300 anni prima di cominciare a celebrare la festa del Natale, come è proposta in Lc 1-2.

[4] La Galilea era detta «Galilea delle genti» con intenzione dispregiativa, per il fatto di essere abitata da una popolazione mista, composta sia di giudei, sia di pagani, in particolare egiziani, arabi, fenici e greci, come afferma Giuseppe Flavio nella sua Vita (67).

[5] Nel mondo ebraico, l’età in cui una donna si sposava era di 15-17 anni. Il matrimonio comportava che, prima che i due sposi andassero a vivere insieme, dovesse passare un anno di «fidanzamento», durante il quale abitavano nella casa dei genitori, pur essendo giuridicamente coniugi, tanto che ogni rapporto che essi avessero con altre persone era considerato e punito come adulterio.

[6] Così traduce il nuovo testo Cei.

[7] Il saluto dell’angelo comprende — oltre al saluto vero e proprio («Ti saluto» o «Rallegrati») — due affermazioni riguardanti Maria: essa è detta kecharitômenè (participio perfetto passivo di charitoô, che ha a che fare con charis, grazia, favore, benevolenza e che significa «fare grazia»). Trattandosi di un participio perfetto passivo, cioè di un «passivo divino», si deve tradurre: Dio ti ha «colmata di grazia», affinché tu possa compiere la missione che Egli ora ti affida. L’angelo aggiunge: «Il Signore (è, non sia) con te». Questa espressione ricorre nei racconti in cui Dio affida un incarico a una persona: il Signore vuole incoraggiarla ad avere fiducia nella sua «presenza» e nella sua «grazia».

[8] Alcuni esegeti cattolici, al seguito di alcuni Padri della Chiesa (i primi furono san Gregorio di Nissa [PG 46, 1.140 s] e sant’Agostino [PL 38, 1.315 e passim] hanno parlato di un «voto di verginità» fatto da Maria. Oggi sta crescendo sempre di più il numero di esegeti che tentano una spiegazione delle parole di Maria «non conosco uomo», senza far riferimento alla teoria del voto (H. SCHÜRMANN, Il Vangelo di Luca, cit., 142-145).

[9] Non si parla di «procreazione divina», come avveniva nelle teogamie greco-romane, nelle quali un dio — in molti casi Iuppiter — sotto forme animali si univa sessualmente con una donna, dando origine a semidei. In Luca si tratta di un atto «creatore» da parte di Dio-Spirito Santo. L’onnipotenza di Dio «creerà» un bambino nel grembo di Maria. Non si può perciò far derivare la fede nel concepimento verginale di Gesù dalle numerose concezioni mitiche di «semidei», di «uomini divini» che certi dèi hanno generato sessualmente da donne umane.

[10] Certamente l’annuncio della nascita di Gesù può essersi ispirato all’annuncio della nascita di Isacco, di Sansone, di Samuele, ma in nessuno di essi si parla di «concepimento verginale». D’altra parte, nelle comunità protocristiane, la consapevolezza dell’origine verginale di Gesù era più antica della redazione dei Vangeli di Matteo e di Luca, poiché questi ne parlano senza che si conoscessero. Data poi la delicatezza della materia, si sarà avuta notizia del fatto soltanto da Maria e da Giuseppe con molta discrezione in ambito familiare, e da questo è stato tramandato all’interno di piccoli gruppi di cristiani. È stato dunque necessario un tempo piuttosto lungo prima che il concepimento verginale di Gesù divenisse oggetto di tradizione nei grandi centri ecclesiastici.

[11] Il termine «benedetta» equivale al superlativo «la più benedetta». È, cioè, un semitismo, frequente nella Bibbia.

[12] Alcuni esegeti attribuiscono a Elisabetta il Magnificat, ma gli argomenti a favore di questa ipotesi sono poco convincenti. Per esempio, non si capirebbe come Elisabetta avrebbe potuto dire di se stessa: «D’ora in poi tutte le generazioni mi diranno beata» (Lc 1, 48b), mentre si comprende che quelle parole le abbia dette Maria, in quanto «Madre del Messia, Santo e Figlio di Dio».

 

Civiltà Cattolica

DELLA GENTILEZZA E DEL CORAGGIO


 Breviario di politica e altre cose

  

La qualità della vita democratica scaturisce innanzitutto dalla capacità di porre e di porsi buone domande, dalla capacità di dubitare. E questo vale tanto per chi il potere ce l’ha quanto, forse soprattutto, per chi apparentemente non ce l’ha. Cioè noi. Perché i cittadini hanno un potere nascosto, che li distingue dai sudditi e che deriva proprio dall’esercizio della critica e dunque della sorveglianza.

In queste pagine Gianrico Carofiglio, con la sua scrittura affilata e la sua arte di narratore, ci accompagna in un viaggio nel tempo e nello spazio e costruisce un sommario di regole – o meglio suggerimenti – per una nuova pratica della convivenza civile. Una pratica che nasce dall’accettazione attiva dell’incertezza e della complessità del mondo ed elabora gli strumenti di un agire collettivo laico, tollerante ed efficace.

Partendo dagli insegnamenti dei maestri del lontano Oriente e passando per i moderni pensatori della politica, scopriamo un nuovo senso per parole antiche e fondamentali, prima fra tutte la parola gentilezza. Non c’entra nulla con le buone maniere, né con l’essere miti, ma disegna un nuovo modello di uomo civile, che accetta il conflitto e lo pratica secondo regole, in una dimensione audace e non distruttiva. Per questo la gentilezza, insieme al coraggio, diventa una dote dell’intelligenza, una virtù necessaria a trasformare il mondo. E contrastare tutte le forme di esercizio opaco del potere diventa un’attività sovversiva, che dovrà definire l’oggetto della nostra azione, della nostra ribellione.

“Gentilezza insieme a coraggio significa prendersi la responsabilità delle proprie azioni e del proprio essere nel mondo, accettare la responsabilità di essere umani.”

Un inedito, avvincente manuale di istruzioni per l’uso delle parole, del dubbio, del potere.
Un grande romanziere racconta la passione civile, l’amore per le idee, le imprevedibili possibilità della politica. Un breviario denso, lieve e necessario.

 

  • Gianrico Carofiglio, Della gentilezza e del coraggio, Edizioni: Giangiacomo Feltrinelli
  • Collana: Varia
  • Pagine: 128
  • Prezzo: 13,30 €
  • ISBN: 9788807492815
  • Genere: Varia

 

 

GIOVANI IN SERVIZIO

 Giovani precari ma impegnati

 Aiutare gli altri è una passione


ILRAPPORTO

Nello studio “Giovani in Caritas: tra sogno e realtà” 

632 ragazzi descrivono il proprio presente,

 elencano le difficoltà ed immaginano il loro futuro,

 fuori e dentro l’organismo pastorale Cei


- di ILARIA BERETTA

In un Paese che invecchia e basato sul lavoro precario, i giovani impegnati nelle associazioni di volontariato sono merce preziosa che pure, però, corre il rischio di essere considerata solo come manodopera, vincolata a ruoli operativi e quasi mai coinvolta nei processi decisionali. Senza paura di fare autocritica, Caritas Italiana ha da tempo deciso di ribaltare questa prospettiva, mettendo al centro del proprio piano strategico e, prima ancora, dell’analisi del suo Centro studi proprio le nuove generazioni. Lo dimostra il rapporto, presentato ieri, “Giovani in Caritas: tra sogno e realtà” che segue due precedenti studi di analisi sull’identità e il lavoro dei ragazzi e completa la fotografia dell’impegno dei giovani in Caritas aggiungendo le loro prospettive: per sé e per il futuro dell’organizzazione.

L’indagine – promossa dal Servizio Giovani e Volontariato e dal Servizio Studi di Caritas Italiana – ha interpellato 632 giovani, di età compresa tra 16 e 35 anni, distribuiti equamente nelle diverse regioni , che a vario titolo – volontari, servizio civilisti, dipendenti, tirocinanti... – hanno incrociato la strada dell’organismo pastorale Cei. Si tratta in gran parte di ragazze (68,4%), di cittadinanza italiana (97,2%), con un’età media di 24 anni e mezzo a cui è stato chiesto di presentarsi e descrivere il proprio presente, raccontare dove e come si immaginano di vivere, fuori e dentro Caritas, e quali sono gli ostacoli che avvertono sul proprio cammino.

Più di sette su dieci (precisamente il 71,7%) dichiarano che la loro passione principale è “aiutare gli altri”. Tra le passioni che spiccano in senso negativo invece c’è il fare politica, una sfera di azione che interessa solo l’8,9% dei giovani. A servizio del prossimo i giovani si mettono soprattutto nei centri d’ascolto, nelle Caritas parrocchiali e nelle attività per giovani. La loro presenza nell’organizzazione crolla invece nelle iniziative dedicate alla formazione, nell’osservatorio su risorse e povertà e nelle attività internazionali: tutti settori in cui la competenza dei giovani potrebbe invece essere valorizzata. «Questo dato – commenta Walter Nanni, sociologo ed autore del rapporto – deve porci una domanda: gli adulti in Caritas sono disposti a dare fiducia ai giovani, ad affidare loro anche ruoli di leadership e responsabilità?» La risposta alla questione è tutt’altro che una faccenda interna. Dal rapporto, infatti, emerge che – nonostante le difficoltà economiche e il timore di non trovare un lavoro abbastanza redditizio (in cima alle preoccupazioni dei giovani interpellati) – per molti l’esperienza in Caritas non è negoziabile. Un

buon 29% fa i salti mortali per non rinunciare all’impegno di servizio, affiancando alla collaborazione con Caritas sia lo studio sia il lavoro. L’attività caritativa è per giovani che la praticano una vera e propria scuola di vita, da cui dipende l’attuale soddisfazione ma anche lo stile della strada che si sceglierà di intraprendere in futuro. «Questi dati – riflette il direttore di Caritas Italiana, don Marco Pagniello – ci dicono che il desiderio di solidarietà e di impegno per il bene comune è vivo e profondamente radicato. Un’attenzione che, più volte, abbiamo riscontrato in particolari situazioni di emergenza, quando la chiamata a tendere una mano per aiutare persone in difficoltà, ha raggiunto e motivato l’impegno di moltissimi giovani – anche quelli che consideriamo “lontani” da certi mondi ed esperienze – pronti ad offrire il proprio contributo».

Se però il volontariato non è una parentesi della vita, gli enti solidali hanno una grande responsabilità: far crescere i giovani e far superare loro anche la scarsa fiducia in se stessi che risulta al terzo posto degli ostacoli che i ragazzi vedono davanti a sé. Un’idea potrebbe essere proprio provare a coinvolgere i giovani nelle fasi di progettazione e decisione: cosa che – emerge dallo studio – non è accaduta al 44,6% degli intervistati che pure idee da condividere ne avrebbe. Il 78% di loro, per esempio, dovendo ripensare Caritas, punterebbe molto di più sulla comunicazione delle attività dell’organizzazione verso l’esterno mentre il 74% ne immagina una gestione più efficace. «Da questo studio – commenta Walter Nanni – concludiamo che forse il ruolo di Caritas è formare i ragazzi, trattandoli da adulti, e poi restituirli alla società dove potranno impegnarsi con ruoli di cittadinanza attiva».

«Trovo interessante – plaude all’iniziativa Diego Mesa, docente di Sociologia della famiglia dell’Università Cattolica di Brescia – che Caritas non abbia dato per scontato di conoscere i giovani che collaborano e abbia dedicato tempo e spazio per ascoltarli. È l’unico modo per non ingabbiare a priori i ragazzi in etichette e a trattarli come soggetti in formazione ma il cui parere va preso sul serio».

 

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