Secondo il Vangelo di Luca
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di Giuseppe De
Rosa
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L'annuncio
della nascita di Gesù
Negli
stessi anni in cui Matteo redigeva il suo Vangelo (80-90 d.C.), Luca scriveva
il suo, senza che i due evangelisti conoscessero l’uno l’opera dell’altro. Il
fatto curioso è che i due Vangeli iniziano col raccontare, nei rispettivi primi
due capitoli, i fatti riguardanti l’infanzia di Gesù. Ma lo fanno in maniera
assai diversa, tanto che non è possibile ricavarne un racconto unitario.
Nei
primi quattro versetti (Lc 1,1-4) Luca esprime la propria
intenzione nello scrivere il suo Vangelo. Egli si rende conto che la comunità
cristiana del suo tempo sta attraversando un periodo molto difficile: dopo la
morte degli Apostoli c’è un’incertezza dottrinale nella Chiesa a causa della
presenza di tradizioni diverse — quella giudaico-cristiana palestinese e quella
ellenistico-paolina — e c’è il pericolo che si infiltrino all’interno della
comunità le tendenze sincretistiche dell’ellenismo. Il rimedio a tale
situazione per Luca è riproporre la «tradizione apostolica» (paradosis)
nella sua integrità e in tal modo attenuare la tensione e la contrapposizione
tra i diversi gruppi.
La
«tradizione apostolica» era nei primi tempi anzitutto orale; presto però si
sentì il bisogno di fissarla per iscritto. Infatti, Luca ricorda che sono stati
«molti» (polloi) quelli che hanno scritto resoconti attendibili di
quanto Gesù aveva fatto e insegnato fino alla sua ascensione al cielo e di
quanto avevano testimoniato gli Apostoli, divenuti «ministri della Parola» (Lc 1,2)
dopo la risurrezione e l’ascensione di Gesù. Ora egli vuole raccogliere tutto
quello che i «molti» hanno scritto e tutte le tradizioni orali che non sono
state messe per iscritto, ma che appartengono alla «tradizione apostolica».
Perciò, dopo aver verificato attentamente e accuratamente (akribôs) ogni
cosa, cioè la totalità degli eventi (pasin), fin dall’inizio (anôthen),
ha deciso di scrivere un resoconto «ordinato (kathexès) di tutta la
«tradizione apostolica», come egli ha potuto conoscerla sia attraverso le opere
dei «molti» che lo hanno preceduto, sia attraverso la propria ricerca personale
di tradizioni orali che gli sono parse attendibili dopo un’accurata verifica.
Luca
perciò si comporta non da «storico», che scrive per persone dubbiose, le quali
attendono prove storiche di quanto egli afferma, ma da «tradente» della paradosis apostolica.
Il suo scopo nel redigere la sua opera è anzitutto quello di fissare la
«tradizione apostolica» nella sua integrità e nella sua verità, in modo che sia
assicurata l’unità della fede e non si diffondano tra i fedeli dottrine
esoteriche contrarie alla «tradizione apostolica». Lo scopo particolare che lo
ha indotto a intraprendere un lavoro complesso e faticoso è quello di mostrare
all’«illustre Teofilo»[1] la
fondatezza e la solidità (asphaleia) degli insegnamenti nei quali è
stato istruito nella catechesi battesimale e post-battesimale, fondata
precisamente sulla retta trasmissione della «tradizione apostolica». Perciò
Luca «si presenta come raccoglitore e trasmettitore normativo della paradosis apostolica»,
riuscendo «a comporre insieme le più antiche tradizioni raggiungibili sulle
parole e sui racconti di Gesù provenienti dalle comunità sia giudeo-cristiane
sia etnico-cristiane e a presentarle alla Chiesa come un tutto canonicamente
vincolante»[2].
«Preludio»
al kerygma apostolico
Luca
è consapevole che l’annuncio (kerygma) del «vangelo» di Gesù ha inizio
con la sua apparizione da adulto, sulla riva del Giordano per farsi battezzare
da Giovanni e con la prima predicazione del regno di Dio. La «tradizione
apostolica», cioè, considera come suo inizio la predicazione di Gesù nella
Galilea, di cui gli Apostoli possono testimoniare in quanto sono stati
spettatori fin dall’inizio del suo ministero. Perciò l’infanzia e l’adolescenza
di Gesù non fanno parte della «tradizione apostolica», non avendo avuto gli
Apostoli come testimoni oculari.
Luca
però ha trovato tradizioni attendibili, riguardanti la prima «venuta» di Gesù
dal Padre nel mondo come suo «inviato», che aiutavano a comprendere meglio il
mistero di Gesù adulto, partendo dalla sua «origine». Perciò ha pensato di
raccogliere queste tradizioni e premetterle come «preludio» al kerygma apostolico.
Così i capitoli primo e secondo del Vangelo di Luca, che trattano dell’infanzia
di Gesù, non sono un’aggiunta posticcia a questo Vangelo, ma ne sono parte
integrante. In realtà, questi due primi capitoli esprimono la fede cristiana
primitiva e fanno comprendere «chi è» (il Figlio di Dio) e «donde viene» (dal
Padre) colui che, a poco più di 30 anni, si presenta, annunciando, come è detto
in Mc 1,15: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino;
convertitevi e credete al Vangelo».
Perciò
anch’essi fanno parte della testimonianza della Chiesa apostolica, seppure in
forma propria, che non è quella del resto del Vangelo di Luca. Infatti, «la
testimonianza di Lc 1-2 nella sua totalità ha più
dell’omologesi [confessione di fede] che del kerygma (per
quanto pure il kerygma della venuta di Gesù sia in essa
“adombrato” e “riflesso”); essa è, in modo particolare, “confessione” di Cristo
da parte del fedele, non soltanto annuncio di Cristo (anche se le due realtà
non possono essere separate). […] Più che nei brani narrativi, l’evento di
Cristo s’illumina nelle voci profetiche e negli inni inframezzati. In questa
confessione sembra che Luca voglia sottolineare in maniera particolare la
figliolanza divina di Gesù, che sta alla base sia del suo “essere Signore”
(cfr Lc 2,11) in quanto Figlio di Davide, sia anche della sua
funzione di sôtèr,salvatore (Lc 2,11).
Propriamente intesa, l’omologesi diventa tale soltanto quando di essa viene
fatta memoria festosa nella celebrazione liturgica»[3].
Ci
si può chiedere se nei primi due capitoli del suo Vangelo, Luca abbia avuto un
interesse biografico. In realtà, tale interesse non manca, ma è secondario. Il
suo interesse essenziale è teologico. Egli è interessato alle notizie
biografiche soltanto in quanto aiutano ad accertare e garantire come tradizione
attendibile l’annuncio protocristiano che riguarda l’infanzia di Gesù. Quello
che è importante sottolineare è la necessità di distinguere attentamente il
messaggio che i due primi capitoli di Luca vogliono trasmettere dal suo
rivestimento letterario. Soltanto così è possibile discernere le tradizioni
storiche che sono alla base del racconto dell’infanzia di Gesù, quale si trova
nei primi due capitoli del Vangelo di Luca.
Qual
è l’origine di questi due capitoli?
È
assai probabile che Luca abbia aggiunto i primi due capitoli al suo Vangelo già
composto. È anche probabile che li abbia trovati nella loro attuale ampiezza
già tradotti in lingua greca e che non sia stato lui a comporre sia le pericopi
sia gli inni, non essendo un buon conoscitore delle lingue semitiche. Il testo,
giunto a Luca in lingua greca, in quale lingua era scritto originariamente: in
aramaico o in ebraico? La maggioranza degli esegeti si orienta verso l’ebraico.
Ad ogni modo proviene da un ambiente palestinese. Esso sarebbe stato composto
in una comunità giudeo-cristiana negli anni Sessanta.
Passando
ora a parlare della nascita di Gesù come è presentata nel Vangelo di Luca,
rileviamo che al centro del racconto ci sono la nascita di Gesù a Betlemme,
l’adorazione dei pastori, la sua presentazione al Tempio di Gerusalemme, il suo
ritorno a Nazaret e infine la sua visita al Tempio all’età di 12 anni. Questo
centro del racconto è contenuto tutto nel secondo capitolo di Luca. Ma il tema
della nascita di Gesù è preparato — sarebbe meglio dire «precorso» — dalla
nascita di Giovanni, narrata nel capitolo primo.
Nella
vita adulta, Giovanni il Battista sarebbe stato il «precursore» di Gesù. Il
Vangelo di Luca mostra che egli lo è fin dall’infanzia. Così il concepimento di
Giovanni da parte di Elisabetta è dato dall’angelo Gabriele a Maria come
«segno» del concepimento di Gesù: «Vedi: anche Elisabetta, tua parente, nella
sua vecchiaia ha concepito un figlio» (Lc 1,36). Infatti, fin da
quando è nel seno di sua madre, Giovanni fa riferimento a Gesù, «esultando di
gioia» alla venuta di Gesù nella sua casa, portato da Maria. Infine, nel suo
cantico di lode a Dio, suo padre Zaccaria lo presenta come colui che «andrà
davanti al Signore a preparargli le strade» (Lc 1,76).
Giovanni
è dunque in funzione di Gesù, e questi appare sempre più grande di lui. Le
storie di Giovanni sono ogni volta una preparazione e una promessa di quelle di
Gesù. Giovanni è la promessa; Gesù è il compimento. Infatti, ad ogni racconto
che riguarda Giovanni segue — ma su un piano molto più elevato — un racconto
che riguarda Gesù.
L’annuncio
della nascita di Giovanni e l’inizio del suo compimento
Giovanni
è di stirpe sacerdotale. Suo padre Zaccaria era un sacerdote della classe di
Abia, e sua madre era una discendente di Aronne. Essi, molto pii, non avevano
figli ed essendo avanzati in età non speravano più di averne. Zaccaria
apparteneva all’ottava delle 24 classi sacerdotali che officiavano nel Tempio
di Gerusalemme a turno, cosicché ad ogni classe toccavano due settimane
all’anno di servizio liturgico. In una di queste settimane toccò a Zaccaria
l’incarico di offrire l’incenso. Nel frattempo il popolo si radunava
nell’atrio, dove accompagnava con la preghiera l’oblazione dell’incenso e
attendeva la benedizione sacerdotale. Zaccaria, oltrepassata la cortina
esterna, stava versando gli aromi sui carboni accesi dell’altare dell’incenso
quando ebbe una visione: gli apparve al lato destro dell’altare dell’incenso un
angelo del Signore. Egli ne fu impaurito, ma l’angelo gli disse: «Non temere,
Zaccaria, la tua preghiera è stata esaudita, e tua moglie Elisabetta ti darà un
figlio che chiamerai Giovanni» (Lc 1,13). Zaccaria, cioè, in quanto
padre, dovrà dare il nome al bambino che nascerà, ma è Dio che indica quale
nome gli dovrà dare: segno che il bambino appartiene a Dio in modo speciale.
La
nascita di Giovanni sarà motivo di grande gioia non soltanto per lui, Zaccaria,
ma per «molti», non soltanto parenti e amici, ma anche per tutti coloro che per
mezzo della predicazione di Giovanni riceveranno il dono della salvezza. Questa
gioia è fondata sul fatto che Giovanni sarà «grande» dinanzi a Dio, sarà
ripieno di Spirito Santo fin dal seno di sua madre e sarà profeta, anzi più che
profeta, perché dovrà preparare tutto il popolo a colui che deve venire, il
«Signore», che per Luca è Gesù. Zaccaria non ritiene possibile quanto gli ha
detto l’Angelo e chiede un segno, anche se non ha nessuna ragione di dubitare,
perché è Gabriele — l’angelo che «sta dinanzi a Dio» — a portargli il messaggio
celeste. Egli perciò avrà un segno, ma tale segno sarà anche una punizione:
Zaccaria, infatti, diventerà muto fino a quando si compirà quanto l’Angelo gli
ha preannunciato, perché non ha «creduto». In realtà non si tratta soltanto di
un segno «punitivo». Il suo mutismo dovrà anche significare che l’uomo deve
attendere il dono di Dio nel silenzio adorante.
Intanto
il popolo, nell’atrio, attende che Zaccaria esca per impartire la benedizione.
Poiché l’attesa si prolunga, il popolo si meraviglia; quando poi si accorge che
Zaccaria non riesce a dire le parole della benedizione, pensa che abbia avuto
una visione. Terminata la sua settimana di servizio, Zaccaria lascia
Gerusalemme per tornare a casa sua. L’annuncio dell’angelo si compie subito:
Elisabetta concepisce un bambino, ma per la vergogna, tiene nascosta la sua
gravidanza per cinque mesi. Alla fine riconosce che la sua gravidanza è opera
di Dio e lo loda perché le ha tolto il disonore di essere senza figli.
L’annuncio
della nascita di Gesù
All’annuncio
della nascita di Giovanni segue immediatamente quello della nascita di Gesù (Lc 1,26-38).
L’azione prende l’avvio con un dato cronologico: nel sesto mese della
gravidanza di Elisabetta, l’angelo Gabriele è inviato in una cittadina della
Galilea, Nazaret, a una vergine, fidanzata a un uomo di nome Giuseppe, della
casa di Davide; il nome della vergine era Maria. Si notino le condizioni di
umiltà in cui è fatto l’annuncio della nascita di Gesù, rispetto a quella di
Giovanni: l’angelo non è inviato nella Giudea, ma nella Galilea «delle genti»[1];
non a un sacerdote, ma a una giovane di 15-17 anni[1];
non nel Tempio di Gerusalemme, ma a Nazaret, una borgata sconosciuta, di cui
non si parla mai nella Sacra Scrittura e che al tempo di Gesù non godeva buona
fama: da essa, infatti, non poteva uscire nulla di buono, come dice Natanaele (Gv 1,46).
Tuttavia, si tratterebbe del compimento di una profezia: il fatto che si
accenni due volte alla verginità di Maria potrebbe indicare l’intenzione di
Luca di rinviare a Is 7,14: «Ecco la vergine concepirà un
figlio e lo chiameranno Emmanuele».
Maria
è «fidanzata» a Giuseppe della casa di Davide: questa osservazione è
importante, perché sarà Giuseppe, in quanto padre legale di Gesù, a inserirlo
nella discendenza davidica. L’apparizione dell’angelo ha un tono familiare:
egli «entra» nella casa di Maria e la «saluta». Il saluto (chaire) è il
saluto greco abituale, che da solo non ha un significato particolare; ma, per
il fatto di essere seguito da due espressioni di grande significato quali sono
«piena di grazia» e «il Signore è con te», assume il valore di un «saluto
salvifico», cioè di un saluto che annuncia la salvezza. Giustamente, perciò,
alcuni esegeti sono favorevoli a tradurre chaire con
«Rallegrati»[6],
per il fatto che l’angelo porta a Maria un messaggio di gioia chiamandola
«piena di grazia» e dicendole che «ha trovato grazia presso Dio», perché sarà
la madre del Messia. Infatti, l’essere chiamata kecharitômenè (piena
di grazia) la prepara ad essere la Madre del messia e le anticipa la grazia
della maternità divina, della quale la sorgente è il fatto che «il Signore è
con lei»[7].
Questo
saluto, così straordinario ed enigmatico, sconcerta Maria, la quale si chiede
che senso abbia. A questo punto avviene un colloquio tra Maria e l’angelo.
Questi dapprima rassicura Maria, dicendole di non temere, perché il Signore è
già con lei, è al suo fianco con la sua grazia e la sua protezione, e sarà così
anche nel futuro; poi, le annuncia che concepirà e partorirà un figlio, che
chiamerà Gesù. C’è in queste parole un’allusione alla profezia di Is 7,14;
ma i verbi al futuro non consentono di pensare che il concepimento avvenga nel
momento stesso in cui l’angelo pronuncia le sue parole. Esso avverrà dopo il
«sì» di Maria. D’altra parte non è spiegato, come in Mt 1,21,
il significato del nome che Maria dovrà dare a suo figlio. Infine, il fatto che
sarà lei, Maria, e non Giuseppe a dare il nome a Gesù potrebbe essere
un’allusione al concepimento verginale.
Ma
«chi» sarà questo figlio? L’angelo dice «Egli sarà grande e sarà chiamato
figlio dell’Altissimo»: cioè, sarà «grande» proprio perché «figlio di Dio,
l’Altissimo». In forza della sua figliolanza divina, egli riceverà il trono di
Davide, suo padre, e il suo regno non avrà fine: sarà dunque il Messia
davidico, il cui regno avrà una durata eterna, secondo la profezia di Nathan a
Davide (2 Sam 7,16). A queste parole dell’angelo, a differenza di
Zaccaria, Maria crede, ma non comprende come possa verificarsi quanto egli ha
detto, perché essa dice: «Non conosco uomo». Con queste parole — il verbo
«conoscere» indica il rapporto sessuale — Maria vuol dire: «Come posso avere un
figlio, se non sono stata ancora introdotta nella casa di mio marito e non ho
avuto alcun rapporto sessuale»[8].
Alla
perplessità di Maria l’angelo risponde: «Lo Spirito Santo scenderà su di te, su
te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà
dunque santo e chiamato Figlio di Dio» (Lc 1,35). Con queste parole
l’angelo annuncia a Maria che essa concepirà non per opera di un uomo, ma per
l’azione creatrice di Dio, Spirito Santo e Potenza onnipotente a cui nulla è
impossibile: non si parla cioè di procreazione divina, ma di creazione operata
dall’onnipotenza di Dio. È la Potenza di Dio che creerà nel seno di Maria il
bambino, operando in lei il miracolo del concepimento verginale. Le immagini
dell’«adombramento» e della «discesa» di Spirito Santo e Potenza (si noti che
nel testo greco i due nomi sono senza articolo) non hanno carattere sessuale,
come alcuni ritengono[9],
ma esprimono figurativamente l’azione creatrice di Dio. Perciò l’origine del
bambino sarà totalmente e soltanto opera di Dio — del suo Spirito Santo e della
sua Potenza — per cui il figlio che nascerà da Maria sarà totalmente «Santo»:
creato dallo Spirito Santo nel seno di Maria, egli è «santo», non nel senso che
è reso santo per grazia, come Giovanni Battista, ma nel senso che è Santo per
natura. Oltre che «Santo» il «nato» da Maria sarà chiamato «Figlio di Dio». La
figliolanza divina di Gesù, cioè, non sarà opera dello Spirito Santo al momento
del battesimo o al momento della risurrezione, ma lo è già al momento del suo
concepimento: l’uomo Gesù è Figlio di Dio dal primo momento della sua esistenza
umana. Il battesimo e la risurrezione «manifesteranno» la sua natura di Figlio
di Dio.
Maria
ha chiesto soltanto una spiegazione, non un segno, come invece ha fatto
Zaccaria; e tuttavia a lei — e a coloro che ascolteranno la sua parola nel
corso dei secoli — è dato un segno che mostra la potenza miracolosa di Dio:
Elisabetta, «parente» di Maria e moglie del sacerdote Zaccaria, ritenuta
sterile, per un intervento miracoloso di Dio, è già al sesto mese di
gravidanza, poiché niente — quindi neppure il concepimento verginale di Gesù —
è impossibile a Dio. La risposta di Maria non si fa attendere: «Eccomi, sono la
serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto» (Lc 1,38).
Con queste parole, Maria anzitutto si dichiara «la schiava (hè doulè)
del Signore», a lui totalmente dedicata e pronta a compiere tutto ciò che Egli
vuole da lei; poi dà il suo pieno assenso a quello che Dio vuole compiere in
lei con la sua onnipotenza creatrice: il concepimento umano del Figlio di Dio.
Dopo questo «sì» di Maria, l’angelo silenziosamente «parte da lei», così come
silenziosamente era venuto. D’ora in poi, tutto è affidato all’azione creatrice
di Dio a cui «nulla è impossibile». Il «sì» di Maria le ha aperto le porte[10].
La
visita di Maria e Elisabetta
Appena
è venuta a conoscenza della situazione di Elisabetta, Maria si reca «in fretta»
a visitarla: essa si trova in una città della Giudea — forse l’attuale Ain
Karim — che Maria raggiunge dopo tre-quattro giorni di cammino, passando
attraverso la Samaria e il territorio collinoso che si trova tra la zona
costiera e la valle del Giordano. Luca non è interessato ai particolari del
viaggio: quello che a lui preme è narrare quello che avviene quando si
incontrano le due madri — Elisabetta e Maria — e i due figli che esse portano
in seno: Giovanni e Gesù.
Varcando
la porta di casa di Elisabetta, Maria la saluta alla maniera orientale, con
molte parole. Il primo a rispondere al saluto di Maria è Giovanni, che fa un
«balzo di gioia» nel seno di Elisabetta per la presenza di Gesù e, in tal modo,
fa conoscere a sua madre che Maria porta in grembo il Messia. Giovanni ha da
Dio la missione di essere il primo ad annunciare Gesù, ed egli compie questa
missione fin dal grembo materno, sotto l’azione dello Spirito Santo di cui è
ripieno. Così, appena ha ascoltato il saluto di Maria, Elisabetta sotto
l’azione dello Spirito Santo, che è Spirito profetico, esclama a gran voce,
rivolta a Maria: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo
grembo!» (Lc 1,42). Elisabetta cioè dice a Maria quello che
Giovanni non può dirle: che essa, in quanto è la madre del Messia, è «la più
benedetta» fra le donne[11].
Si dice poi grandemente onorata della visita della madre del suo «Signore»
[Gesù] e del suo saluto, perché questo ha provocato il balzo di gioia di
Giovanni nel suo seno e l’ha riempita di Spirito Santo. La gioia provata da
Giovanni non è soltanto il saluto che egli dà a Gesù; è la gioia che porta con
sé l’irrompere del tempo messianico che si compie con la venuta di Gesù.
Elisabetta, sotto l’azione dello Spirito, riconosce che alla base di tutto c’è
la «fede» di Maria, che, a differenza di Zaccaria, «ha creduto» che si
sarebbero compiute le cose che le erano stata dette dal Signore. Dichiara
perciò «beata» Maria, perché «ha creduto», divenendo in tal modo la «Madre
della fede», la «prima credente» dell’ordine nuovo inaugurato dall’incarnazione
del Figlio di Dio. Infatti, il suo «sì» all’angelo è stato il primo atto di
fede del tempo escatologico, che ha avuto inizio con Gesù.
Il
«Magnificat», inno di lode di Maria
Nei
racconti dell’infanzia di Lc 1-2, gli inni — il Magnificat,
il Benedictus, il Gloria in excelsis e il Nunc
dimittis — hanno la funzione di illustrare i fatti narrati,
spiegandone il senso «spirituale» profondo. Sono inni di lode a Dio per le
grandi opere (megala) da lui compiute. Infatti il Magnificat[12] non
è la risposta di Maria a quanto Elisabetta ha detto di lei, ma è un’esaltazione
del Signore, che si esprime non in una lode di lui, ma in uno stato di giubilo
e in un sentimento di gioia che pervade in misura incontenibile la sua anima e
il suo spirito. Il motivo di tale giubilo è Dio, il Salvatore», il «suo»
Salvatore. L’opera salvifica che Dio ha compiuto in lei — e che la riempie di
gioia — è l’avveramento di quanto l’angelo le ha detto. Dio infatti ha guardato
con uno sguardo di amore alla piccolezza della sua serva e l’ha resa «Madre del
Santo, del Figlio di Dio».
Un
privilegio, questo, tanto grande e straordinario per la sua «umiltà» — la sua
piccolezza di «serva del Signore» — che tutte le generazioni d’ora in avanti la
chiameranno «beata». La prima a chiamarla così è stata Elisabetta — «Beata
colei che ha creduto» (Lc 1,45); la chiamerà madre beata un donna
della folla durante la vita pubblica di Gesù (cfr Lc 11,27);
poi la diranno beata tutte le generazioni future. Il motivo per cui tutti la
diranno beata è che Dio onnipotente e santo ha fatto cose grandi per lei. Maria
chiama Dio il Potente (ho dunatós) e il Santo (ho hagiôs) per
metterne in rilievo la bontà e la misericordia (eleos) verso coloro che
lo temono e che sentono di essere «umili» e piccoli dinanzi a lui: essa è tra
questi, e la sua lode di Dio Santo e Potente è un invito a comportarsi «con
timore e tremore» nei riguardi del «santo suo nome» e con fiducia nella sua
«misericordia» verso coloro che lo temono».
A
questo punto, inizia la seconda parte del Magnificat (Lc 1,51-55),
che si apre su una prospettiva non più personale, ma universale. Finora Maria
ha lodato Dio come «suo» salvatore, perché ha fatto «per lei» cose grandi; ora
lo loda perché «con la potenza del suo braccio» disperde i superbi, abbatte i
potenti dai loro troni e rimanda i ricchi a mani vuote, mentre innalza gli
umili e riempie di beni coloro che hanno fame. Maria canta in tal modo il
rinnovamento messianico che crea ordine e giustizia in un mondo disordinato e
ingiusto. I verbi al passato — «ha deposto» i potenti dai troni e «ha esaltato»
gli umili — esprimono la certezza che Dio ribalterà con la venuta del suo Regno
l’attuale situazione ingiusta. Questa azione salvifica di Dio riguarderà in
particolare Israele povero e umiliato: Dio, ricordandosi della sua
misericordia, accoglierà Israele «suo servo», cioè l’Israele formato dai
«timorati di Dio» (phoboumenoi), dai piccoli (tapeinoi) e dagli
«affamati» (peinôntes), che pongono in Dio la loro fiducia. Compirà cioè
la sua promessa fatta ad Abramo e alla sua discendenza. Garante del compimento
delle promesse di Dio è il Santo, Figlio di Dio, che Maria porta in seno.
Il
racconto della visita di Maria a Elisabetta si chiude con una semplice
annotazione di natura temporale: «Maria rimase con lei circa tre mesi», quindi
fino a che ella non ebbe dato alla luce Giovanni); «poi tornò a casa sua» (Lc 1,56),
cioè dai suoi genitori, segno che non era ancora stata introdotta in casa
di Giuseppe.
Dopo
questi due «annunci» di Giovanni e di Gesù, fatti alle loro madri, Elisabetta e
Maria, l’evangelista Luca può parlare delle loro «nascite». Tanto gli «annunci»
quanto le «nascite» devono essere trattati «insieme» perché sono l’uno la
«profezia» dell’altro.
[1] Non
si sa se Teofilo sia stato una persona reale, a cui Luca dedica i suoi due
libri — il Vangelo e gli Atti degli Apostoli — oppure sia simbolo del credente,
il quale è «Teofilo» in quanto è «amato da Dio» e «ama Dio». È più probabile
che si tratti di un personaggio influente e ricco a cui, secondo l’uso del
tempo, Luca dedica i suoi due volumi, affinché, in segno di riconoscimento, se
ne assuma le spese della riproduzione e della diffusione.
[2] H.
SCHÜRMANN, Il Vangelo di Luca. Parte prima, Brescia, Paideia, 1983,
81e 96.
[3] Ivi,
100 s. Si nota, in proposito, che è sorprendente il fatto che la Chiesa abbia
avuto bisogno di oltre 300 anni prima di cominciare a celebrare la festa del
Natale, come è proposta in Lc 1-2.
[4] La
Galilea era detta «Galilea delle genti» con intenzione dispregiativa, per il
fatto di essere abitata da una popolazione mista, composta sia di giudei, sia
di pagani, in particolare egiziani, arabi, fenici e greci, come afferma
Giuseppe Flavio nella sua Vita (67).
[5] Nel
mondo ebraico, l’età in cui una donna si sposava era di 15-17 anni. Il
matrimonio comportava che, prima che i due sposi andassero a vivere insieme,
dovesse passare un anno di «fidanzamento», durante il quale abitavano nella
casa dei genitori, pur essendo giuridicamente coniugi, tanto che ogni rapporto
che essi avessero con altre persone era considerato e punito come adulterio.
[6] Così
traduce il nuovo testo Cei.
[7] Il
saluto dell’angelo comprende — oltre al saluto vero e proprio («Ti saluto» o
«Rallegrati») — due affermazioni riguardanti Maria: essa è detta kecharitômenè
(participio perfetto passivo di charitoô, che ha a che fare con charis, grazia,
favore, benevolenza e che significa «fare grazia»). Trattandosi di un
participio perfetto passivo, cioè di un «passivo divino», si deve tradurre: Dio
ti ha «colmata di grazia», affinché tu possa compiere la missione che Egli ora
ti affida. L’angelo aggiunge: «Il Signore (è, non sia) con te». Questa
espressione ricorre nei racconti in cui Dio affida un incarico a una persona:
il Signore vuole incoraggiarla ad avere fiducia nella sua «presenza» e nella
sua «grazia».
[8] Alcuni
esegeti cattolici, al seguito di alcuni Padri della Chiesa (i primi furono san
Gregorio di Nissa [PG 46, 1.140 s] e sant’Agostino [PL 38, 1.315 e passim]
hanno parlato di un «voto di verginità» fatto da Maria. Oggi sta crescendo
sempre di più il numero di esegeti che tentano una spiegazione delle parole di
Maria «non conosco uomo», senza far riferimento alla teoria del voto (H.
SCHÜRMANN, Il Vangelo di Luca, cit., 142-145).
[9] Non
si parla di «procreazione divina», come avveniva nelle teogamie greco-romane,
nelle quali un dio — in molti casi Iuppiter — sotto forme animali si univa
sessualmente con una donna, dando origine a semidei. In Luca si tratta di un
atto «creatore» da parte di Dio-Spirito Santo. L’onnipotenza di Dio «creerà» un
bambino nel grembo di Maria. Non si può perciò far derivare la fede nel
concepimento verginale di Gesù dalle numerose concezioni mitiche di «semidei»,
di «uomini divini» che certi dèi hanno generato sessualmente da donne umane.
[10] Certamente
l’annuncio della nascita di Gesù può essersi ispirato all’annuncio della
nascita di Isacco, di Sansone, di Samuele, ma in nessuno di essi si parla di
«concepimento verginale». D’altra parte, nelle comunità protocristiane, la
consapevolezza dell’origine verginale di Gesù era più antica della redazione
dei Vangeli di Matteo e di Luca, poiché questi ne parlano senza che si
conoscessero. Data poi la delicatezza della materia, si sarà avuta notizia del
fatto soltanto da Maria e da Giuseppe con molta discrezione in ambito
familiare, e da questo è stato tramandato all’interno di piccoli gruppi di
cristiani. È stato dunque necessario un tempo piuttosto lungo prima che il
concepimento verginale di Gesù divenisse oggetto di tradizione nei grandi
centri ecclesiastici.
[11] Il
termine «benedetta» equivale al superlativo «la più benedetta». È, cioè, un
semitismo, frequente nella Bibbia.
[12] Alcuni
esegeti attribuiscono a Elisabetta il Magnificat, ma gli argomenti a favore di
questa ipotesi sono poco convincenti. Per esempio, non si capirebbe come
Elisabetta avrebbe potuto dire di se stessa: «D’ora in poi tutte le generazioni
mi diranno beata» (Lc 1, 48b), mentre si comprende che quelle parole le abbia
dette Maria, in quanto «Madre del Messia, Santo e Figlio di Dio».
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