giovedì 5 novembre 2020

DIALOGO E INCONTRO: UN DENOMINATORE COMUNE

    La fraternità nella nuova enciclica 

di Papa Francesco

                                                      - di Rino Fisichella

 Un insegnamento comporta sempre una consegna che viene fatta perché altri possano partecipare della propria esperienza. L’enciclica appartiene all’insegnamento ordinario del magistero e con Fratelli tutti Papa Francesco intende consegnare un messaggio alla luce della fraternità e amicizia sociale. Addentrarsi in questo insegnamento richiede l’esigenza di non trasferire le proprie precomprensioni all’interno dell’enciclica, ma porsi nell’atteggiamento dell’accoglienza per verificare anzitutto l’intenzione dell’autore. Una regola fondamentale per una corretta ermeneutica infatti consiste nel lasciarsi provocare dal testo, prima di fargli dire quanto si vorrebbe secondo le proprie intenzioni. In questo senso, la lettura coerente di qualsiasi testo impone di rispettare la globalità prima di fermarsi al particolare, e l’accortezza di non togliere mai un’espressione dal contesto in cui vive e assume significato pieno.

Fratellifraternitàfratellanza sono termini che ricorrono frequentemente nell’enciclica, utilizzati spesso come sinonimi anche se la semantica evidenzia alcune sfumature che ne caratterizzano il senso. Prendere tra le mani il testo del Papa partendo da questi concetti può essere utile per entrare maggiormente nel suo insegnamento. La categoria di fraternità sembra essere assunta da Francesco per tentare di trovare nell’epoca della globalizzazione un denominatore comune che possa permettere il dialogo e il confronto sincero tra le persone che abitano il nostro piccolo mondo. Il tentativo è lodevole. In altre epoche della storia i cristiani non si sono sottratti a questa impresa. Forti del comando all’evangelizzazione, hanno sempre intrapreso la strada per comprendere quale via migliore si dovesse seguire. Ai primordi della nostra storia, ad esempio, colpisce non poco l’esperienza di Giustino che nel suo Dialogo con Trifone non fa altro che perseguire la strada dell’incontro con il suo interlocutore pagano per annunciare la novità della fede cristiana. Alla stessa stregua, Tommaso d’Aquino scrive la sua Summa contra Gentiles con l’obiettivo di dialogare con ebrei e mussulmani. Non potendolo fare alla luce della Bibbia, ritrovò nella categoria della “ragione” lo spazio necessario per un dialogo universale. Ai nostri giorni, giunge questa enciclica di Francesco con la categoria di “fratellanza” per esprimere la preoccupazione di trovare un interfaccia comune per il dialogo tra i popoli e le religioni. L’intento è chiaro: «Pur avendola scritta a partire dalle mie convinzioni cristiane, che mi animano e mi nutrono, ho cercato di farlo in modo che la riflessione si apra al dialogo con tutte le persone di buona volontà» (n. 6).

I termini usati da Papa Francesco, comunque, si muovono nel solco di almeno tre contesti peculiari che è bene non dimenticare. Il primo è l’orizzonte della spiritualità francescana. Il Papa lo esplicita fin dall’inizio dell’enciclica quando ricorda che l’appellativo utilizzato dal santo di Assisi era rivolto in forza dell’amore evangelico a tutti, vicini e lontani non solo nel senso spaziale, per proporre «una forma di vita dal sapore di Vangelo» (n. 1). Per san Francesco, che chiamava “sorella” perfino la morte, l’essenziale consisteva nel riconoscere ogni singola persona, senza distinzione alcuna per il colore della pelle, lo stato sociale, la religione e la sessualità, come un fratello e una sorella da amare. Chiamarli fratelli e sorelle era lo strumento, la mediazione per far emergere il vero contenuto della fede: l’amore di Gesù Cristo. Se si dovesse togliere questa componente, si distruggerebbe l’originalità stessa della fede e con essa l’esigenza dell’evangelizzazione come testimonianza dell’incontro con il Risorto che invia quanti credono in lui a partecipare alla trasformazione del mondo con un nuovo stile di vita.

Il secondo contesto a cui far riferimento è il rimando alla parabola del buon samaritano «un’icona illuminante, capace di mettere in evidenza l’opzione di fondo che abbiamo bisogno di compiere per ricostruire questo mondo» (n. 67). Non è un caso che Papa Francesco dopo aver commentato la parabola ponga come titolo alla sua attualizzazione il verbo “Ricominciare”. È proprio così. Si tratta di ripartire ancora una volta dal Vangelo, perché per un credente non c’è alternativa alcuna. «La storia del buon samaritano si ripete: risulta sempre più evidente che l’incuranza sociale e politica fa di molti luoghi del mondo delle strade desolate» (n. 71), che richiedono la nostra presenza fattiva, senza volgere lo sguardo altrove per paura, disinteresse o indifferenza. Quando c’è qualcuno che ha bisogno di aiuto, lì si è chiamati ad agire con misericordia perché si riconosce la presenza di un fratello e una sorella che soffrono. Tra le povertà più emergenti oggi è innegabile che quella dell’emigrazione e dell’ingiustizia sociale abbiano il sopravvento per le cause storiche che si conoscono. Chiedere almeno la solidarietà in nome della fratellanza, è il comando evangelico a essere misericordiosi come il Padre. La misericordia costituisce il retroterra per riconoscere un fratello nel bisogno e non passare oltre. Il terzo contesto è il richiamo a Charles de Foucauld, un santo dei nostri anni che ha saputo dare testimonianza feconda in forza della sua fede in Cristo, diventando ultimo con gli ultimi del deserto africano fino a essere identificato come “fratello universale” (nn. 286-287).

Quando un cristiano va alla ricerca di un denominatore comune non lo fa prescindendo dalla propria fede. A volte, è come se la mettesse tra parentesi per allargare lo sguardo e trovare uno spazio in cui poter far confluire la maggior parte delle convinzioni in modo tale da esprimere al meglio la sua ricerca. È questa alla fine la vera dimensione della fede: una ricerca che non smette mai di interrogare non solo i contenuti della fede, ma la realtà stessa a cui bisogna dare una risposta. Una fede avulsa dalla realtà, che si concretizza nelle diverse culture e nelle persone che le abitano, sarebbe una teoria, non la risposta alla domanda di senso. In questo orizzonte è necessario porre la dinamica stessa della fede che non si isola dal mondo creando bastioni insormontabili per sentirsi sicura. La sicurezza le è già data dalla Parola di Dio che la obbliga a seguire sotto l’azione permanente dello Spirito Santo nuove strade. Tra queste c’è quella dell’incontro che la porta non solo a guardare come la cultura di oggi impone, ma soprattutto ad ascoltare ogni uomo e donna che incontra nel proprio cammino, per trovare una via condivisa. Come annunciare il Vangelo oggi se le categorie sono talmente differenti e ognuno sembra rinchiudersi sempre più in se stesso senza voler entrare in relazione? Ricordare a viva voce che esiste una fraternità vera, reale e originale che appartiene alla fede cristiana e comunque trova riscontro in altre religioni e filosofie è un tentativo che i cristiani non possono lasciarsi sfuggire. Ne va della credibilità della loro presenza nel mondo globalizzato che mentre impone modelli spesso in contrasto con le tradizioni dei popoli, richiede tuttavia la presenza di uomini e donne che testimoniano ancora l’efficacia dell’amore per ogni singolo volto che incontrano.

 

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