sabato 14 novembre 2020

OMOFOBIA. LA VERA DIFFICOLTA' DEL DISEGNO DI LEGGE ZAN


Una battaglia di civiltà?

  Giuseppe Savagnone

 Può sorprendere che il testo di legge  Zan «contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia», approvato alla Camera lo scorso 4 novembre – che, nel suo titolo, mira soltanto a «contrastare i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze motivati dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere» – continui ad essere oggetto di aspre polemiche. Chi si potrebbe opporre a un testo che sembra non far altro che sancire l’obbligo dell’elementare rispetto delle persone?  Così, appare comprensibile l’indignazione dei suoi più accesi sostenitori, che accusano gli oppositori di cieco conservatorismo, ricordando che la legislazione europea è da tempo su questa linea.

Siamo dunque davanti a una battaglia di civiltà? A far nascere dei dubbi su questa diffusa lettura dovrebbe indurre, invero, la sua semplicità un po’ manichea: il bene da una parte, il male dall’altra.

Al di là del manicheismo

In realtà, lo stesso manicheismo semplificatore – bene vs male – si può rilevare nelle argomentazioni di una buona parte degli avversari del disegno di legge, che vedono in esso solo un gravissimo attentato alla libertà di pensiero e di espressione.

Personalmente sono restio a dare credito alle posizioni che si demonizzano a vicenda. Mi sembra più realistico cercare di comprendere e di valorizzare l’“anima di verità” che si nasconde anche in quelle che appaiono meno accettabili e che io stesso magari non condivido.

Le motivazioni condivisibili del disegno di legge

Partirei dalle motivazioni che stanno dietro la proposta dell’on. Zan. È difficile negare che nella nostra storia ci siano stati, nei confronti di gay, lesbiche, transessuali, «pregiudizi, discriminazioni, violenze». Le persone omosessuali sono state derise, umiliate, emarginate, spesso anche perseguitate. Le si è costrette a nascondersi, a mascherare la loro vera identità e a darle libera espressione solo nell’oscurità di ambienti ambigui e violenti, privati del diritto di avere una vita affettiva – non solo sessuale! – come tutti gli altri. E ancora oggi suscita scandalo in tanti la presa di posizione di papa Francesco, quando afferma che «gli omosessuali sono figli di Dio», esattamente come gli etero, portatori come loro dell’immagine di Dio impressa nei loro volti.  Si capisce allora che alla base del disegno di legge ci sia la volontà di combattere, assumendoli come reati formali, comportamenti spregevoli ancora tristemente riscontrabili nella cultura diffusa.

Una minaccia ridimensionata

Esso però non si limita a questo. E francamente devo riconoscere che, al di là dei toni, le critiche nei suoi confronti a mio avviso sono fondate. Non tanto per la presunta minaccia alla libertà di pensiero e di espressione, a mio avviso molto ridimensionata dall’emendamento inserito nell’art. 4, che fa salve «la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti».

La visione ispiratrice di fondo: sesso e genere

La vera difficoltà che questo disegno di legge presente è di natura simbolica ed educativa e nasce dall’art. 6, dove si istituisce la Giornata nazionale contro l’omofobia – che sarà celebrata il 17 maggio – in cui saranno sono organizzate «cerimonie, incontri e ogni altra iniziativa utile, anche da parte delle amministrazioni pubbliche e nelle scuole».

Quale messaggio sarà proposto in questa occasione? Mi piacerebbe prevedere che sia solo il rispetto di chi è diverso. Ma non posso chiudere gli occhi sul fatto che la giusta battaglia per il rispetto della dignità umana degli omosessuali è stata spesso identificata, da chi la conduce, con una critica alla visione tradizionale dell’identità sessuale delle persone, che la fondava sulla loro costituzione biologica. Da qui la tendenza a relativizzare drasticamente il dato fisico della mascolinità e della femminilità e a sottolineare, piuttosto, l’importanza dei fattori psicologici e sociali che determinano il “genere”.

Il misconoscimento della dimensione biologica

Ne è derivata la negazione del valore tendenzialmente normativo della sessualità biologica nello sviluppo dell’identità sessuale complessiva di un soggetto. Dalla giusta considerazione che uomini e donne non si nasce ma si diventa, si è passati alla scissione fra questo stato finale e il dato biologico originario – quello che risale alla nascita – dell’essere maschi e femmine.

In questo modo la definizione del proprio genere è stato visto come un risultato tutt’altro che scontato. Se la propria struttura morfologica e biologica non è più decisiva per la propria identità e il proprio orientamento sessuale – come la società tradizionalmente ha creduto e fatto credere – tutta l’educazione va radicalmente ripensata e ristrutturata, fin dalla più tenera età. Essa non può e non deve partire dalla presunzione che un maschietto debba avere una identità di genere di uomo e una femminuccia una identità di genere di donna.

L’equivoca campagna dell’UNAR contro il bullismo

È questa presunzione, secondo i sostenitori di questa linea, a rendere incapaci di capire e intolleranti verso coloro – transessuali e omosessuali – nei questa corrispondenza non si verifica. Bisogna perciò smantellarla. Ha già cercato di farlo un ufficio ministeriale, l’UNAR, nel 2013, senza passare da una legge, bensì diffondendo nelle scuole italiane di ogni ordine e grado delle nuove direttive ai docenti e facendole passare per una prevenzione del bullismo.

Partendo dalla premessa che «dietro gli episodi di bullismo omofobico e transfobico, vi sono altri problemi, quali quelli legati a una cultura che prevede soltanto una visione eteronormativa» – quindi al binomio uomo-donna fondato sulla diversità tra maschio e femmina – l’UNAR ha varato la diffusione di un opuscolo compilato dall’Istituto di psicologia Beck in cui si raccomandava di «non usare analogie che facciano riferimento a una prospettiva eteronormativa (cioè che assuma che l’eterosessualità sia l’orientamento “normale”, invece che uno dei possibili orientamenti sessuali)». E si insisteva moltissimo sul fatto che si faccia presente ai bambini/ragazzi/adolescenti che «i rapporti sessuali omosessuali sono naturali», equiparandoli sistematicamente a quelli etero: «Quindi potremmo ribaltare la domanda chiedendoci: “i rapporti sessuali eterosessuali sono naturali?”».

Collegata a questa linea era la proposta di una metodologia che «aiuta gli studenti a comprendere più a fondo la definizione di famiglia e a capire che vi è una diversa varietà di strutture familiari». Perciò gli insegnanti dovranno, «nell’elaborazione di compiti, inventare situazioni che facciano riferimento a una varietà di strutture familiari ed espressioni di genere. Per esempio: “Rosa e i suoi papà hanno comprato tre lattine di tè freddo al bar. Se ogni lattina costa 2 euro, quanto hanno speso?”».

Un evidente salto logico

È evidente il salto logico tra la giusta esigenza di educare fin da piccoli al rispetto delle persone omosessuali e una campagna sistematica per “decostruire” l’identità sessuale di bambini, ragazzi e adolescenti, rimettendo in discussione il loro rapporto con la propria corporeità proprio in un momento della loro crescita in cui è più importante per loro consolidarlo. La prima vale per tutte le diversità, ma non implica l’accettazione delle visioni antropologiche ed etiche sottostanti, la seconda invece punta non solo sul rispetto, ma sulla affermazione della propria idea di sessualità. Come se, per combattere l’islamofobia e insegnare a rispettare i musulmani, si insegnasse nelle scuole italiane che la nostra idea di parità tra uomo e donna non è affatto scontata e deve essere messa sullo stesso piano di quella dell’Islam.

Un passo simbolico verso l’educazione pro-gender e l’esclusione dei genitori

Acquista un significato inquietante, alla luce di questi dati, il fatto che nel dibattito alla Camera sia stato espressamente previsto che le iniziative della Giornata contro l’omofobia coinvolgano le scuole elementari e che, viceversa, sia stato respinto l’emendamento che chiedeva che la partecipazione degli alunni – compresi i più piccoli – richiedesse l’autorizzazione dei genitori. Se è vero che le leggi hanno un valore simbolico e additano una direzione, il problema va ben al di là della singola “Giornata” e implica uno stile educativo che purtroppo è quello di cui abbiamo parlato.

Un’ esperienza inglese

Quanto ciò possa rappresentare un pericolo lo appendiamo proprio in queste settimane dall’esperienza di un Paese all’avanguardia in questo campo, come il Regno Unito. Alla fine di settembre il Dipartimento inglese per l’Educazione ha bandito dalle scuole statali ogni formazione sulla cosiddetta identità di genere. Una svolta che testimonia la diffusa preoccupazione per il dilagare, tra i minori, di transizioni da un’identità di genere a un’altra, che sono passate dalle 40 per le ragazze e 57 per i ragazzi del biennio 2009-2010, alle 1.806 per le femmine e 713 per i maschi nel biennio 2017-2018.

Non credo, francamente, che mettere in luce questi pericoli costituisca un messaggio persecutorio nei confronti degli omosessuali. Al contrario, sono convinto di aver messo in luce dei problemi su cui confrontarsi francamente, nella fiducia che la ragione umana e l’onestà intellettuale possono unirci al di là di tutte le diversità.

 *Responsabile del sito della Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo, www.tuttavia.eu. - Scrittore ed Editorialista.

 

 

 

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