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venerdì 27 giugno 2025

ATTIVISTI o INFLUENCER ?

  

La disabilità nella bolla dei social

 fra visibilità e rappresentanza

Non è semplice distinguere tra chi usa la propria visibilità per sensibilizzare e costruire un cambiamento e chi, magari inconsapevolmente, finisce per trasformare la propria disabilità in uno strumento per ottenere consenso, follower, inviti in talk show o sponsorizzazioni. 

 di Giovanni Ferrero

 Negli ultimi anni, i social network hanno aperto spazi inediti di parola per le persone con disabilità. Per la prima volta, molte di loro hanno potuto raccontarsi senza filtri, senza l’intermediazione di genitori, operatori, politici o giornalisti. Un cambiamento importante, che ha portato all’emergere di voci nuove, dirette, autentiche, capaci di creare empatia e consapevolezza. Mostrare la propria quotidianità, le sfide di ogni giorno, le piccole conquiste o le grandi frustrazioni, può avere un impatto reale su chi guarda: aiuta a comprendere meglio cosa significa vivere con una disabilità, a riconoscere ostacoli invisibili, a cambiare punto di vista. Ed è giusto che accada senza filtri, senza bisogno che ci sia sempre un soggetto “autorizzato” a parlare.

Tuttavia, in questo nuovo scenario, si apre anche una domanda scomoda, ma necessaria: quante delle voci che oggi parlano di disabilità sui social lo fanno per difendere diritti e denunciare ingiustizie, e quante invece lo fanno per visibilità, per popolarità, per coltivare un personaggio?

La linea sottile tra attivismo e personal branding

Non è semplice distinguere tra chi usa la propria visibilità per sensibilizzare e costruire un cambiamento e chi, magari inconsapevolmente, finisce per trasformare la propria disabilità in uno strumento per ottenere consenso, follower, inviti in talk show o sponsorizzazioni. Da attivisti a influencer: il passaggio può essere rapido, e non sempre evidente.

In alcuni casi, si rischia che la disabilità venga spettacolarizzata: la quotidianità diventa contenuto da consumare, la battaglia si trasforma in storytelling, il disagio in engagement. Il sistema dei social premia ciò che emoziona, sorprende, commuove. E così, anche il dolore o la denuncia rischiano di essere modellati per piacere al pubblico.

Proprio per affermare il valore dell’attivismo competente e responsabile, all’interno del Premio Giornalistico Paolo Osiride Ferrero (le candidature per partecipare al premio – con elaborati di carta stampata, video o contenuti digitali – sono aperte fino a settembre) è stato istituito un nuovo riconoscimento: quello dedicato all’Attivista dell’anno. Un modo concreto per premiare chi, attraverso la comunicazione digitale, contribuisce in modo autorevole al cambiamento culturale e sociale in tema di disabilità.

Politici e aziende a caccia di volti noti

C’è poi un altro effetto collaterale da non sottovalutare: il politico o l’azienda che rincorre l’influencer con disabilità per parlare di disabilità. Si tratta spesso di operazioni di visibilità, ben lontane da un confronto autentico sui diritti. Il rischio è che si finisca per personalizzare un tema collettivo, dando credito e centralità a chi ha più visibilità, ma non è detto che sia rappresentativo, competente o preparato.

Negli anni ’90 lo slogan internazionale era chiaro: “Niente su di noi senza di noi”. Ma quel “noi” non era riferito al singolo, per quanto carismatico, bensì alle organizzazioni delle persone con disabilità, nate per rappresentare in modo strutturato e democratico una pluralità di esperienze. Oggi, con la presenza crescente di influencer chiamati a parlare in aziende, tenere speech motivazionali, partecipare a lunch&learn o diventare consulenti di diversity, si rischia di legittimare inconsapevolmente il disability washing: un’adesione di facciata all’inclusione, svuotata di contenuti e competenze reali.

Per questo, oggi più che mai, lo slogan andrebbe aggiornato: “Niente su di noi senza di noi se professionisti”. Perché la disabilità non è un tema da spettacolarizzare, ma da affrontare con responsabilità, esperienza, formazione e senso collettivo.

 La nuova intermediazione digitale

Paradossalmente, i social che sembravano offrire libertà di parola rischiano di generare nuove forme di intermediazione: l’algoritmo, il bisogno di like, il consenso del pubblico. Chi parla finisce per adattarsi a ciò che “funziona”, lasciando da parte i contenuti più scomodi, più politici, meno virali. Si creano nuove narrazioni dominanti, in cui la persona con disabilità è spesso rappresentata come “inspirational”, resiliente, positiva. Ma le disuguaglianze sistemiche, le barriere reali, le battaglie collettive rischiano di sparire sullo sfondo.

Il ritorno necessario delle associazioni

In questo scenario confuso, in cui non si capisce più chi è influencer e chi attivista, ritorna con forza il ruolo insostituibile delle associazioni. Organismi che, per natura e missione, non cercano follower, ma risposte. Non inseguono popolarità, ma lavorano ogni giorno per i diritti, per i servizi, per l’inclusione concreta. Le associazioni non devono “funzionare” per l’algoritmo, ma per i loro associati. Non sono al servizio della visibilità personale, ma di una rappresentanza collettiva. Ed è forse proprio da qui che bisogna ripartire. Non per negare il valore delle voci individuali, ma per ricordare che la disabilità è una questione politica e sociale, e come tale ha bisogno di strumenti organizzati, credibili, capaci di agire nei territori, nelle istituzioni, nei tavoli di confronto.

La popolarità di alcune persone con disabilità sui social non è di per sé un problema. Può essere una risorsa, un canale di sensibilizzazione, uno stimolo utile. Ma non può sostituire il ruolo delle associazioni. Perché solo lì, dove si ascoltano i bisogni reali di chi non ha voce, si costruiscono risposte condivise. Solo lì si fa davvero la differenza tra rappresentare sé stessi e rappresentare una causa.

 VITA  

Immagine

lunedì 17 giugno 2024

LA MORTE DELLE IDEE E DEL DIALOGO



«Non siamo più in grado di ascoltare i nostri figli. 

L’intelligenza artificiale uccide le idee»

 

 intervista a Paolo Crepet 

a cura di Fabio Gervasio 

Siamo ancora in grado di ascoltare e supportare i nostri giovani? Ne abbiamo parlato con Paolo Crepet, psichiatra e sociologo.

Professor Crepet, Qualche anno fa Lei ha scritto il libro “Non siamo capaci di ascoltarli”, oggi ancora di più di ieri. Da cosa nasce questa incapacità all’ascolto dei nostri ragazzi? 

Da “Non siamo capaci di ascoltarli” ad oggi sono passati una decina di libri, molti anni, e adesso sta per uscire il nuovo libro per Mondadori “Mordere il cielo”, che è un libro che parla molto, con punti di vista diversi da allora, di ciò che riguarda il rapporto tra le generazioni, del mondo che stiamo costruendo per i ragazzi e così via. Credo ce le paure contenute in quel libro, ormai lontano, siano più che legittime oggi, anzi, per certi versi il libro “Mordere il cielo”, che uscirà il 25 di giugno, è un libro molto più arrabbiato, con compostezza, con gentilezza, ma arrabbiato. 

Leopardi ha scritto l’infinito appena ventenne, Einstein a 26 anni ha formulato la teoria della relatività, Zuckerberg ventenne realizza Facebook, oggi sembra più difficile che un giovane “crei” qualcosa magari dentro un garage. Cos’è cambiato? 

Non creeranno più nulla a quell’età, innanzitutto perché non ci sono più i garage, poi perché non ci sono più le idee. Le idee stanno scomparendo, perché l’intelligenza artificiale uccide le idee, nel senso che moltiplica le idee che già ci sono. È come un menù che non si rinnova ma che mette, ad esempio, l’amatriciana al posto delle penne all’arrabbiata e poi il contrario, ma è sempre quello il menù. L’intelligenza artificiale non può sorprendere ma distribuisce, in maniera intelligente, ciò che c’è, ma l’innovazione, che non c’è, non so chi la darà se non c’è. Zuckerberg ha tutte le ragioni a preoccuparsi, perché lui a vent’anni ha fatto qualcosa, se per quello Musk l’ha fatto a diciassette, e così via, questo per dire che tutto il mondo digitale è nato molto prima dei vent’anni. Altman, che è cofondatore di OpenAI, che è la più grande azienda di intelligenza artificiale al mondo, ha detto che i manager della Silicon Valley oggi hanno tutti più di trent’anni, che è una sconfitta, cioè loro hanno fatto un autogol. 

Gli adulti di oggi hanno paura e vogliono controllare costantemente i loro figli, decidono per loro in tutto, a volte condizionandoli e facendoli credere che è quello che vogliono, che è meglio per loro. Cosa stiamo sbagliando?

I genitori tendenzialmente hanno tutti tentato, in un modo o nell’atro, di condizionare i propri figli, nel senso che il contadino voleva che il proprio figlio rimanesse in stalla, o nell’officina di moto del padre, così come l’avvocato che lasciava lo studio al figlio avvocato, questo è sempre successo, da decenni, il problema è che prima molti si ribellavano, noi avevamo raggiunto una quota parte di ribellione intorno al 40/50%, che era altissima, di numero di giovani che non facevano il lavoro dei padri, non continuavano le attività di famiglia, adesso purtroppo questo numero è calato, c’è molta più insicurezza, conservazione, per cui i ragazzi e le ragazze si adattano a fare quel lavoro lì, semmai ne volessero fare uno nuovo l’unica cosa che gli viene in mente e di voler fare l’influencer. In ogni caso non c’è una visione a medio termine, questo è il grande problema. Noi stiamo incredibilmente ripercorrendo il cammino dei nostri pionieri romani, nel senso che i romani vivevano giorno per giorno, perché vivevano poco; invece, noi che campiamo novant’anni continuiamo a fare come i romani che ne campavano trenta, questo mi sembra un po’ bizzarro. 

Lei è in tour per i teatri italiani con “prendetevi la luna”, che è anche il titolo di un suo libro, ed è un messaggio di coraggio per i ragazzi ad affrontare la vita prendendo delle decisioni senza aver paura di sbagliare, perché sbagliare è una delle opportunità ed anche i fallimenti aiutano a crescere. È così? 

Direi che è evidentemente così, però poi la gente ragiona in maniera diversa. È un po’ complicato affermare che bisogna sapere che cos’è una sconfitta, che si può sbagliare, che si può prendere un quattro a scuola e non succedere niente e così via. Sarebbe ovvio se lo diciamo io e lei, però se lo diciamo ad un pubblico più allargato quest’ovvio non lo è più, perché, ad esempio, questa mattina qualcuno ha avvisato l’avvocato per fare ricorso al TAR perché forse suo figlio sarà bocciato. Sono tutte ovvietà che diventano eresie in un mondo di idioti.

 Alzogliocchiversoilcielo




 

 

giovedì 16 febbraio 2023

SCUOLA ? C'E' SANREMO ...

 “Sanremo 
l’ha sostituita da tempo 

e noi non ce ne 

siamo accorti”

- di  Gianluca Zappa

Sanremo è finito? No, continua. 

È finita la scuola: la superficialità degradata è la norma, 

i veri docenti sono gli influencer. 

Serve una risposta

Sanremo è finito? No, continua. È finito il Festival che noi adulti abbiamo dovuto digerire e soffrire, d’accordo, ma quel festival, quella festa degradata, continua tutti i giorni, non finisce mai e i nostri ragazzi vi sono immersi. Quel brodo nauseante (così l’abbiamo percepito e giudicato in tantissimi), fatto di superficialità, di niente, di sorrisi forzati e di applausi a richiamo, e di oscenità e di stupidità, questa colossale finzione spacciata per vera, questa farisaica promozione dei diritti umani accuratamente selezionati e senza un perché, fatta solo con richiami alla pancia più che alla ragione, continua tutti i giorni. I nostri ragazzi vivono di questo. Anche molti adulti vivono di questo e vi si riconoscono e non riescono nemmeno più ad esprimere un giudizio critico.

Bisogna riconoscere con un certo sgomento che quello che abbiamo visto a Sanremo è la normalità del bombardamento quotidiano che arriva per mezzo dei social, degli influencers, degli youtubers, dei tiktokers o come diavolo si chiamano. Fedez, la Ferragni non scompaiono, restano e imperano ed è da loro che i giovani, e non solo, attingono giudizi, idee, tendenze, mode. Sono questi i nuovi guru che pontificano su ciò che è bene e ciò che è male in una società solo apparentemente fluida e amorale. Le oscenità e il cattivo gusto del festival di Amadeus, Fiorello, Fedez e compagnia cantante sono solo un pallido riflesso di quanto quotidianamente si riversa sulle coscienze delle persone, soprattutto dei giovani. Ben altre oscenità si ripetono, si canticchiano, diventano il sottofondo che accompagna la vita. È un dato di fatto di cui prendere atto.

Vi sarà capitato, del resto, di scoprire che ciò che avete scoperto in realtà è qualcosa di già molto conosciuto dai ragazzi. A me capita tutti i giorni, in famiglia, a scuola, nei vari livelli di istruzione, dai bimbi delle elementari ai ragazzi del liceo. La sensazione è puntualmente quella di capire che tu vedi solo la punta dell’iceberg e l’epifania può essere dolorosa. Ricorderò sempre quella volta in cui mi presi la briga di ascoltare Fedez che interveniva sul Concordato tra Stato e Chiesa: mi fece l’impressione di uno scarso e supponente studente delle superiori che non sa di cosa sta parlando, ma ne parla lo stesso sparando giudizi su un argomento che non conosce. Un imbonitore, insomma. Ma lo sgomento doloroso fu sentire, qualche mese dopo, una mia studente (tra le più studiose e “brave” della classe) esaltare, in sede d’orale di esame di Stato, come una grande persona proprio quel Fedez per le sue battaglie (!). Lì ho capito che la pancia prevale sulla ragione e che non basta tutto lo studio e l’istruzione anche alta che si dà ai ragazzi per aiutarli a giudicare o anche solo a capire il sistema in cui sono immersi. Lo stesso si è riprodotto nel recente dibattito intorno alla Ferragni, ridotto a “cretina” o “carina poverina”, senza una valutazione seria, approfondita ,su cosa abbia voluto dire o rappresentare. Si critica di pancia, si difende di pancia. E così per tutto quello cha accade.

 La scuola, diciamolo, ormai è solo una breve parentesi nella vita di un giovane, scollata da tutto il resto. Nella breve parentesi vi sono degli adulti che neppure riescono ad immaginare cosa sia tutto il resto.

 Cosa si può fare? Prendere atto innanzitutto di questo continuo indottrinamento, rendersi conto che c’è, che è invadente. La tattica dello struzzo non ci è più permessa. Quanti adulti ho sentito dire “Io Sanremo non lo guardo”. Puoi non guardarlo, ma i giovani lo fanno. Non ti puoi esimere. Purtroppo non ti puoi chiamare fuori.

 Solo così puoi aiutare a vedere, a capire, a giudicare, non avendo paura di prendere una posizione forte e decisa rispetto a tutto quello che è falso, disumano, inaccettabile. Dando le ragioni, richiamando in modo inesausto alla ragione. I giovani ascoltano, ma soprattutto guardano e giudicano. La pancia gli farà male quando andrai controcorrente rispetto al pensiero unico sostenuto dal potere o quando butterai giù, se necessario, i loro miti. Le tue parole avranno sapore di “forte agrume”, ma forse apprezzeranno la tua onestà, soprattutto se ti stimano. E comunque dovrai far loro compagnia, dovrai ascoltarli e apprezzarli quando provano a ragionare, valorizzando il buono che riescono ad esprimere: la generazione degli adulti deve ascoltare molto, la scuola deve ascoltare, oggi più che mai.

 È sempre più evidente che i conti vanno fatti con tutto il mondo invadente che ruota intorno a noi e che ci intossica. Bisogna imparare a smascherare i media, a separare la realtà dalla finzione, il vero dal falso. Qualcuno deve farlo, se non vogliamo essere tutti trasformati nei sudditi ideali di un regime totalitario.

 In termini apocalittici, bisogna imparare a guardare dietro la maschera dell’anticristo, senza aver paura della fatica di remare controcorrente. È un compito cui non possiamo venire meno. Il nostro compito.

Il Sussidiario

sabato 11 febbraio 2023

ED E' SANREMO !


Sanremo 

specchio dell’anima

 del nostro paese


 - di Giuseppe Savagnone*

  L’abbattimento dei confini

Ormai bisogna prenderne atto: lo specchio in cui guardare per cogliere l’anima dell’Italia non è il Parlamento, non sono i convegni e le prese di posizione degli intellettuali, né i libri che si pubblicano, bensì il festival di Sanremo. A dirlo sono già i numeri: quest’anno sono stati 10 milioni 757 mila – pari al 62.4% di share –  i telespettatori che hanno seguito su Rai1 la prima serata del festival  (dalle 21.18 all’1.40!). Con un picco di ascolti di 16 milioni 470 mila spettatori.

Lo confermano ampiamente l’eco che questo evento ha avuto sulla stampa nazionale e sui social e le stesse risonanze polemiche che ha suscitato. Quella che era soltanto una rassegna canora di canzonette si è trasformata in un palcoscenico dove si alternano non solo cantanti, ma anche influencer, comici, esponenti del mondo della cultura e dello sport, che dicono la loro su tutta una serie di problemi che con la musica non c’entrano, ma sono invece di vitale importanza per la nostra interpretazione di noi stessi.

Quest’anno questa “contaminazione dei generi” ha raggiunto forse il suo apice con la presenza addirittura del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che non ha disdegnato di salire sul palco dell’Ariston e di essere immortalato in un selfie con Amadeus, Chiara Ferragni e Gianni Morandi.

Già questo contesto  – impensabile pochi anni fa – è eloquente. Esso parla del superamento di rigidi confini tra l’ambito delle “cose impegnative”, come la morale o la politica, e quello definito tradizionalmente “divertimento”. Tutto diventa spettacolo e in questo “apparire” confluiscono, senza più distinzioni, le sceneggiate di Blanco, i monologhi delle influencer, la difesa della nostra Carta costituzionale.

 Profondità e superficialità

Superficialità? Direi che siamo davanti a un segno dei tempi. Qualcuno ha scritto una volta che «ciò che è profondo sta alla superficie». E, prima, un filosofo inglese del Settecento, Berkeley, aveva sostenuto che «esse est percipi», esiste ciò che viene percepito. Il contenuto coincide con l’immagine. La nostra società si fonda su questa filosofia e il festival di Sanremo non fa che esprimerla in modo particolarmente eloquente.

 Nel constatare questo dato di fatto è inevitabile che il pensiero vada ad una frase di Antoine De Saint-Exupéry ne «Il piccolo principe», un libro forse più ammirato che compreso: «L’essenziale è invisibile agli occhi». Un’affermazione secondo cui sarebbe fondamentale, per comprendere qualcosa, andare al di là delle apparenze – e quindi delle pulsioni che esse suscitano – , attivando le risorse profonde dell’anima, il pensiero, l’affettività. La cultura dell’immagine si fonda invece sulle reazioni immediate, irriflesse, altrettanto superficiali degli stimoli che le suscitano. Non per nulla il nostro è il tempo della post-verità, che si pone al di là del tradizionale dualismo tra vero e falso, perché non riconosce più la differenza tra l’apparenza e la realtà.

 Non si tratta di astratte considerazioni teoriche. Tutto ciò ha una precisa ricaduta sul nostro modo di vivere e risulta determinante nella formazione delle persone più giovani, educandole fin alla più tenera età, attraverso l’accesso alla televisione e l’uso di cellulari e di tablet, a rispondere automaticamente agli stimoli visivi e auditivi, senza passare attraverso uno sforzo di comprensione che aiuti a capire il senso di questi stimoli.

 L’elogio della Costituzione

Ma quale è stato il messaggio veicolato da questo festival? Una grande eco, anche polemica, ha avuto quello che Roberto Benigni ha detto sulla Costituzione: «Non bisogna solo leggerla, bisogna viverla. Bisogna amarla». Il brillante comico, fra una battuta e l’altra, ha citato l’articolo 11: «Nella nostra Costituzione c’è un articolo che dice l’Italia ripudia la guerra. Noi l’abbiamo scritto nella Costituzione. Se l’avessero adottato tutti non potrebbe più accadere che un Paese ne invade un altro». Benigni non l’ha detto, ma sono in molti a sostenere che anche l’Italia, che sulla carta il ripudio della guerra ce l’ha, in realtà sta partecipando a una guerra «come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», ciò che appunto l’art. 11 esclude.

 Poi Benigni si è soffermato sull’art. 21 che tutela la libertà d’espressione: «L’art. 21 ci ha liberati dall’obbligo di aver paura», dice. «Durante il Fascismo non si sarebbe potuto fare nemmeno Sanremo. Si cantava sempre la stessa canzone sul partito, sui soldati, sulla guerra».

 Sarà stato il riferimento polemico – peraltro assolutamente corretto – al significato antifascista della nostra Carta costituzionale, sarà stato che il governo attuale si propone esplicitamente di stravolgerla in un punto essenziale, introducendo il presidenzialismo, sta di fatto che questo intervento non è piaciuto affatto a Matteo Salvini. «Non penso che la Costituzione abbia bisogno di essere difesa sul palco dell’Ariston», ha detto il ministro.

 E gli hanno fatto eco tutti i giornali governativi, secondo cui il festival è stato manipolato dalla Sinistra. Un autogol, se si riflette sul significato delle cose. Perché questo malessere nei confronti della Costituzione evidenzia le origini post-fasciste di una Destra che ha messo a presiedere il Senato un suo rappresentante storico come La Russa, che tiene a casa il busto di Mussolini. Come è un autogol l’attacco di Salvini e Calderoli alla Egonu per avere denunciato il razzismo che cova nel nostro paese e di cui i rappresentanti della Lega negano l’esistenza. Perché mai si sono sentiti chiamati in causa?

 Una concezione della libertà

In realtà, però, è difficile parlare di Destra e di Sinistra in una manifestazione che ha avuto come filo conduttore, se mai, il “politically correct”, con tutto ciò che di valido esso comporta – la rivendicazione del diritto della donna a non aver paura di essere se stessa, nel monologo della Ferragni, o quella della umana dignità dei carcerati e del mancato apporto della scuola, in quello della Fagnani – , ma anche sposando una idea di libertà che, ancora una volta, esprime una filosofia oggi dominante, e che potrebbe riassumersi nella formula usata da Amadeus nella  conferenza stampa del giorno di apertura del Festival: diritto di ognuno «di vivere la propria vita come meglio crede. E di vivere pubblicamente come meglio crede».

 Il conduttore e direttore artistico del festival ha voluto tornare sulle polemiche che, prima dell’apertura della manifestazione, hanno riguardato gli artisti in gara e le persone gender fluid: «Io non amo le etichette, non amo parlare di generi, ma di essere umani», ha detto. «Ognuno è libero di vivere la propria vita come meglio crede. E di vivere pubblicamente come meglio crede. Ho sempre un po’ paura del moralismo. Ai bambini va spiegato che esiste una persona diversa da un’altra, un uomo che ama un uomo o una donna che ama una donna. L’amore non deve essere etichettato. Questo va portato dovunque, anche in televisione. Io educo i miei figli così e non li ho mai visti sconvolti».

 Al di là dell’esempio particolare dell’omosessualità, ciò che il principio enunciato da Amadeus dice potrebbe sembrare ovvio. È ciò che non dice a essere preoccupante. Manca, in questo concetto di libertà, un qualsiasi riferimento agli altri e alla responsabilità che ognuno di noi ha verso di loro. È la base teorica dell’individualismo selvaggio che oggi regna sovrano nella nostra società, tanto più radicato come ideologia in quanto finge di non esserlo e di costituire il sano residuo della “morte delle ideologie”.

 È così che sono entrate in profonda crisi tutte le forme di vita comunitaria, dalla famiglia alla società politica. Perché, se si dice che «ognuno è libero di vivere la propria vita come meglio crede», si dimentica che la vita degli altri dipende in buona parte dalle nostre scelte e dai nostri comportamenti.

 Che è profondamente diverso dal riconoscere che «la libertà di ognuno finisce dove comincia quella dell’altro» – come Amadeus sicuramente sarebbe d’accordo nel precisare – , perché, al contrario, implica che la nostra libertà non è mai assoluta, neppure quando si esercita nei confronti della nostra vita privata, ma è caratterizzata fin dalla sua prima origine dal riferimento all’altro. Cosicchè non è vero che l’alterità di chi ci sta di fronte ne sia il limite, perché, al contrario, ne è la condizione. Fin dall’inizio gli altri sono dentro di noi.

 La fluidità del genere

Applicato al problema del gender, questo significa che la fluidità di cui sul palco dell’Ariston si è avuta ampia testimonianza, con i fatti e con le parole, è certamente un diritto personale, ma se diventa un potente messaggio culturale – come lo è nel caso del festival di Sanremo – assume un significato educativo che non può non influenzare la vita di milioni di persone, specialmente giovani. Coloro che studiano i problemi legati all’omosessualità e all’identità di genere concordano nel concludere che in entrambe ha sicuramente un peso anche la dimensione sociale e culturale. La battaglia contro il paradigma binario tradizionale maschio-femmina non avrebbe, del resto alcun senso se non si riconoscesse questo ruolo della cultura.

 Il rischio, però, è di sostituire questo paradigma con un altro, non meno influente, secondo cui l’orientamento sessuale e la identità di genere vanno inventati da ognuno giorno per giorno, indipendentemente dalla propria caratterizzazione sessuale. Con la conseguenza di rendere sempre più problematico quel delicato processo di identificazione sessuale che, da sempre, porta un ragazzo o una ragazza a coincidere pienamente col proprio corpo.

 Peraltro, anche in questo caso, il festival di Sanremo è solo lo specchio di una società in cui ormai film, messaggi pubblicitari, mode, vanno in questa direzione. Qualcuno dirà che uno specchio non è responsabile dell’immagine che riflette. Ma forse bisognerebbe essere almeno un po’ più consapevoli che, nel tempo dell’«esse est percipi», esso contribuisce alla formazione dell’identità di coloro che vi si specchiano.

 *Responsabile del sito della Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo, Scrittore ed Editorialista.

www.tuttavia.eu

 

venerdì 29 gennaio 2021

IL DECLINO DEI MAESTRI .....


 ....E L'ASCESA DEGLI INFLUENCER


-         Giuseppe Savagnone*

Il lato oscuro di un fenomeno

La denuncia per “istigazione al suicidio” dell’influencer di Siracusa che, su TikTok, ha lanciato una serie di “sfide estreme” – l’ultima, coprendosi il viso con un nastro adesivo trasparente, col rischio di soffocamento –, arriva dopo la tragica morte di due bambini, una di dieci anni, uno di nove, vittime di analoghi “giochi”, e porta alla luce ciò che di ambiguo è presente nel fenomeno di questi “persuasori” che, con il potente mezzo della rete, condizionano sempre più il nostro modo di pensare, di sentire e di vivere. Riscuotendo un seguito impressionante: la potenziale “istigatrice al suicidio” aveva 731.000 followers! E, soprattutto, un’adesione cieca. Un messaggio rinvenuto sul suo profilo diceva: «Ciao, se mi saluti giuro mi lancio dalla finestra».

Luci ed ombre

Per fortuna non tutti gli influencer sono così. Molti in realtà esercitano la propria influenza in forme assolutamente lecite, dando consigli riguardanti l’abbigliamento, proponendo ricette di cucina, offrendo una conversazione piacevole e spiritosa… Occasionalmente, promuovono anche iniziative filantropiche: Chiara Ferragni, per esempio, ha usato il suo fascino mediatico per raccogliere soldi in favore di ospedali e per l’emergenza Covid. Ce ne sono anche alcuni che lanciano messaggi più profondi e costruttivi, ricchi di spunti culturali e esistenziali, trovando anche a questo livello una risposta significativa (pur se, in termini numerici, meno vasta).

Un successo senza eguali

Al di là degli esiti, siamo comunque davanti a una figura nuova, che merita la nostra attenzione per il ruolo che ormai ha assunto nella nostra società. Come scrive Monica Monnis sulla rivista «Elle» del 21 dicembre 2020, «sono famosi, hanno milioni di seguaci che pendono dalle loro labbra, ogni loro singola parola vale oro (…), con un semplice post sono in grado di indirizzare l’opinione pubblica, fare scalpore e/o polemica, conquistare titoli di giornali ed eclissare notizie almeno sulla carta più importanti (una pandemia, così per dirne una)».

Forse il ritratto qui tracciato pecca di eccessiva enfasi. Ma qualcosa di vero esso sicuramente contiene. Lo dicono le proporzioni del seguito che questi influencer ottengono. La già citata Chiara Ferragni, ha 22 milioni e duecentomila followers e 55 milioni e mezzo di interazioni, cioè di like, commenti e condivisioni su Facebook, Instagram, Twitter e YouTube! Ed è solo la prima di una lista di uomini e donne che, sia pure in misura minore, riscuotono un’attenzione che nessun rappresentante del mondo della cultura “ufficiale” – docenti, giornalisti, scienziati – può sognarsi.

Un’adesione senza riserve critiche

A preoccupare, però, è lo stile del rapporto che lega la maggior parte degli influencer ai loro followers. C’è qualcosa che accomuna il frequentatore di TikTok che si diceva disposto a lanciarsi dalla finestra, per un saluto da parte dell’influencer siracusana, e i milioni di persone – molti sono giovani – che «pendono dalle labbra» dei suoi più noti e per fortuna assai più innocui colleghi. Siamo davanti a una ammirazione e a un’adesione che spesso tendono a non passare attraverso una reale verifica critica, anche perché rafforzate dalla logica delle mode della società neocapitalista di massa, che già di suo favorisce i meccanismi di passiva imitazione e di omologazione.

Il pericolo del vuoto

È vero, qui, non c’è il rischio della violenza che in altri casi una simile adesione può suscitare, come nel caso dei fondamentalismi religiosi plasmi la mente i cuori con verità unilaterali e aggressive. Perché questi “nuovi maestri”, alla cui scuola crescono i nostri ragazzi, non vogliono trasmettere nessuna verità, anzi, nella maggior parte dei casi, le relativizzano tutte in nome dei gusti e delle preferenze. E tuttavia, bisogna chiedersi se non siano pericolosi in qualche misura anche loro, nella misura in cui risultano funzionali al mantenimento di un vuoto intellettuale e spirituale che essi non creano, ma almeno alimentano, soprattutto nei più giovani, e i cui effetti sono riscontrabili in tutte le manifestazioni della nostra vita privata e pubblica. In questo vuoto si possono verificare episodi estremi e devastanti – come quelli dei suicidi infantili che hanno impressionato l’opinione pubblica –, oppure, più semplicemente, la quotidiana celebrazione dei riti consumistici, sullo sfondo di una rinunzia a prendere sul serio i “grandi problemi” che dovrebbero determinare il senso della vita.

Le dimissioni dei “maestri”

Quel che è certo è che il crescente influsso degli influencer corrisponde – al tempo stesso come effetto e come causa – al tramonto dei “maestri”, di quelli veri, che insegnavano a porseli, questi problemi, e ad affrontarli con spirito critico, senza «pendere dalle labbra» di nessuno, proponendo non consigli sull’abbigliamento o sulle ricette di cucina, ma le domande di fondo decisive per le scelte pubbliche e private. E non si parla qui solo dei grandi intellettuali che un tempo orientavano la cultura della nostra società. Il processo che ha portato gli adulti a dare le dimissioni dal loro compito, di educatori ha colpito, prima di tutto, genitori e insegnanti. Sia nelle famiglie – sempre meno in grado di trasmettere ai loro figli un patrimonio convincente di valori –, sia nella scuola, sempre più concentrata (quando va bene) sulla mera “trasmissione dei saperi” – la capacità dei “maestri” di proporre ai giovani messaggi significativi è oggi immensamente inferiore a quella di qualunque influencer.

Il dialogo assente…

Proprio la pandemia ci sta mettendo di fronte alle conseguenze di questa crisi educativa, esasperando le tensioni di rapporti in cui il grande assente era, già da tempo, il dialogo, condizione imprescindibile per educare. Impossibile in un rapporto frettoloso di convivenza, come quello che spesso caratterizzava la vita familiare prima del Covid; superfluo a scuola per un mera trasmissione di conoscenze, il dialogo, in questa emergenza, si è rivelato indispensabile proprio nell’esasperazione della sua assenza.

Senza dialogo, il rapporto genitori-figli si liofilizza in un repertorio di frasi fatte e i ragazzi, sequestrati in casa e lasciati soli, cercano sullo smartphone o nel computer i possibili interlocutori, col rischio di trovarvi quelli sbagliati. Così come, senza dialogo, diventa problematico un rapporto scolastico puramente virtuale, che dovrebbe avere la sua linfa in una comunicazione umana e che invece continua a fondarsi su lezioni frontali ispirate al vecchio schema unidirezionale.

…E l’occasione per riscoprirlo, prima di tutto nell’ascolto

Eppure, proprio questo emergere con maggior evidenza di un disagio covato già da tempo, può costringere genitori e insegnanti a ripensare il loro ruolo educativo e a rendersi conto, una buona volta, che proprio loro – non gli influencer! – devono essere i “maestri” dei loro figli e dei loro alunni, instaurando con essi una comunicazione degna di questo nome. Compito impegnativo, perché il dialogo richiede l’ascolto e l’ascolto, a sua volta, disponibilità di tempo e di attenzione. Se vogliamo che le nuove generazioni non siano allevate dagli influencer nella “fiera delle vanità” della società massificata, bisogna che noi adulti riscopriamo il volto dei singoli e impariamo di nuovo ad ascoltare i loro problemi, le loro angosce, i loro desideri. Che usciamo dalla logica perversa del negoziato sui “sì” e sui “no”, a cui spesso si è ridotto il rapporto in famiglia, o dei programmi e delle interrogazioni, a scuola, e ritroviamo il gusto di parlare davvero.

Il clima concentrazionario creatosi in certe case, o l’aridità estenuante della Dat in certe classi, potrebbero essere sconfitti da genitori e insegnanti che si sforzino di capire di più i problemi dei loro figli e dei loro alunni, le loro angosce, i loro desideri e imparino, attraverso questo ascolto, ad essere più creativi e attrattivi degli influencer.

Un nuovo rapporto con i mezzi tecnici

Ciò comporterebbe un nuovo rapporto con gli strumenti di comunicazione. Invece di “posteggiare” il figlio, fin da piccolo, davanti al tablet, per “farlo stare buono”, i genitori dovrebbero giocare con lui. Invece di regalargli lo smartphone quando ha undici anni (o forse meno), dovrebbero dedicargli del tempo per ascoltarlo. E poi dovrebbero stargli accanto e seguirlo, non con un controllo fiscale, ma puntando su una partecipazione alle sue esperienze che suppone la condivisione dei suoi interessi. Aiutandolo a decodificare e a selezionare i messaggi che da ogni parte ormai ci inondano sulla rete. Così anche la scuola non può illudersi che la digitalizzazione risolva da sé i problemi. È l’uso che le persone fanno di questi mezzi a renderli umani oppure no. E i mezzi più perfezionati possono favorire, non sostituire il clima di ascolto reciproco che permette alla relazione educativa di instaurarsi e di svilupparsi.

Per cambiare le strutture, cominciamo dalle persone

Probabilmente la pandemia, purtroppo, avrà ancora tempi lunghi. Sufficienti a raccogliere la sua sfida, se si vorrà farlo. O a generare altre catastrofi, se non lo si vorrà. Certo, il cambiamento della società non può dipendere solo dall’impegno dei singoli. C’è un quadro politico, sociale, economico, in cui l’attuale crisi educativa si inserisce e in cui va collocato anche il fenomeno degli influencer. Ma, alla fine, anche le condizioni strutturali possono essere cambiate solo se le persone saranno diverse. Perciò vale la pena di cominciare da loro.

 *Pastorale Cultura Diocesi Palermo

 

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