Mentre
prima, infatti, “il tempio dei bambini era all’aria aperta, nei cortili come
sui campetti, ma anche in una piazza davanti a una chiesa o sotto un portico se
pioveva”, adesso, invece, si prediligono videogiochi che permettono ai bambini
di divertirsi da soli di fronte ad uno schermo con una definizione delle
immagini realistica a 4k.
Si
tratta di un’invenzione che sembra aver dissolto le ansie dei genitori: quest’ultimi,
infatti, completamente rassicurati, preferiscono che i loro figli rimangano
chiusi in casa piuttosto che lasciarli giocare all’aria aperta, dove potrebbero
esserci più pericoli e dove sarebbe molto più difficile poterli controllare adeguatamente.
Ignari
delle conseguenze delle loro scelte, gli adulti non hanno mai pensato a quanto
e a cosa hanno sottratto ai loro figli.
“Un
diritto fondamentale dell’infanzia è giocare, che significa ritrovarsi tra pari
e correre, nascondersi, urlare, piangere, ridere. Il gioco è insegnamento di
relazioni, ma soprattutto è il modo migliore per capire che cosa significa
vincere e perdere, perché non è possibile giocare senza la consapevolezza che
si può anche essere battuti. Un’esperienza che risulterà strategica nell’età
adulta in quanto, una volta cresciuti, la frustrazione e l’inciampo non
porteranno più allo sgomento dei «neofiti emotivi». Tutto può trasformarsi in
gioco, se si usa un po’ di creatività”, così come ci spiega molto
significativamente Paolo Crepet.
Il
gioco è di fondamentale importanza per ogni bambino: la sua valenza affettiva e
relazionale è insostituibile, a patto che sia collettivo. Dunque, permettere ad
un bambino di rimanere chiuso nella sua cameretta in assoluta solitudine
davanti a una consolle non significa altro che decretare la morte del gioco
collettivo e le conseguenze che ne derivano sono sicuramente molto
preoccupanti.
“La
mancanza di autonomia non può che portare a far crescere in quei bambini un
sentimento di dipendenza dall’adulto, insegnante o genitore. Non sapendo e non
potendo fare nulla per se stessi, vedranno in qualsiasi adulto la figura di
riferimento, come se non esistessero dentro di loro la capacità e il talento
per sopravvivere nel mondo, ma avessero bisogno di essere assistiti e riveriti”,
queste le importantissime parole dello psichiatra attraverso le quali si vuole
evidenziare come un’infanzia, vissuta senza l’esperienza del gioco, sia
un’infanzia depotenziata in cui si sarà sempre alla ricerca di conferme.
Dunque, un bambino che sin da piccolo non ha imparato la frustrazione di
perdere, temerà sempre di cadere e sarà più fragile: si pensi, ad esempio, agli
adolescenti di oggi che reagiscono male perfino di fronte ad un brutto voto
preso a scuola. Perdere da soli, inoltre, non è la stessa cosa di perdere in
gruppo: in presenza di altri coetanei sarà necessario imparare a giustificarsi,
a chiedere scusa, facendo fronte alle avversità che la vita ci pone dinanzi.
Solo
in tal modo si potrà sviluppare il c.d. coping mechanism, ovvero il «meccanismo
di far fronte», così che l’individuo possa reagire a ciò che è inaspettato e
non programmato. Si tratta di un meccanismo che non nasce da solo ed il gioco è
lo strumento perfetto per evocarlo.
“Se non si permette ai bambini di giocare liberamente, non soltanto non
potranno imparare a conoscere l’importanza di una relazione affettiva, ma
tendenzialmente cresceranno adattandosi a quella solitudine che più avanti
coltiveranno con l’aiuto della tecnologia digitale. L’intimità ha un suo
proprio perimetro, quello delle nostre braccia aperte: quel cerchio magico è il
limite che lasciamo oltrepassare soltanto ad alcune persone scelte”, in tal
modo continua la sua profonda riflessione Paolo Crepet.
Dunque
se la prima fase della propria vita viene vissuta in solitudine, allora
l’impatto con la socialità può diventare più difficile, con il rischio di
chiudersi in se stessi.
L’assenza
dell’esperienza del gioco produrrà anche un altro effetto deleterio: il bambino
non imparerà a fidarsi del prossimo.
Inoltre,
se il gioco scompare, anche il pensiero si semplifica e diventa inconsistente.
“Esso, come le relazioni affettive, non cresce dal nulla, ma dal confronto
dialettico fra più persone, dalle discussioni, dall’articolazione delle proprie
idee e dalla capacità di difenderle o di cambiarle”.
Il
gioco, pertanto, “è una straordinaria palestra per crescere, per allenare il
proprio talento, per capire che perdere non è catastrofico, anzi è necessario,
perché dagli inciampi s’impara a camminare e anche a correre”, in tal modo
Paolo Crepet termina la sua ragguardevole disamina.
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