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-di Maurizio Ambrosini
È suonata la campanella nelle scuole di tutta Italia, e gli alunni di ogni età sono tornati sui banchi. Tra loro, fra l’altro, oltre 900.000 privi della cittadinanza italiana.
Ma un altro sistema educativo ha riaperto
le porte: i corsi d’italiano per stranieri. Una parte è organizzata dal sistema
pubblico, mediante i Centri Provinciali per l’Istruzione degli adulti (Cpia),
con oltre 200.000 iscritti nel 2023/2024. Un’altra cospicua parte invece è
mandata avanti da una galassia d’iniziative associative ed ecclesiali,
distribuite in tutto il Paese, con l’apporto di migliaia di volontari.
A Roma e nel Lazio la rete Scuolemigranti
raccoglie un centinaio di associazioni e più di 10.000 iscritti ai corsi ogni
anno. A Milano e dintorni, esiste da dieci anni una rete che coordina una
quarantina di scuole, giovandosi di 250 insegnanti volontari e accogliendo
circa 3.000 studenti. Si è data un nome emblematico: “Scuole senza permesso”.
Caratteristica delle scuole mandate avanti da
soggetti della società civile è infatti la flessibilità organizzativa, la
moltiplicazione delle soluzioni praticate in termini di orari e modalità
d’insegnamento, nonché la capacità d’intercettare anche persone che per diversi
motivi non riescono a rientrare negli schemi dell’offerta educativa pubblica.
Troviamo infatti scuole che offrono corsi
al mattino per le mamme che hanno qualche ora disponibile dopo aver
accompagnato i figli a scuola, oppure servizi di baby-sitting per accudire i
più piccoli mentre le madri partecipano alle lezioni, oppure ancora corsi per
sole donne e con insegnanti donne per riuscire a coinvolgere studenti che per
vincoli culturali e religiosi non parteciperebbero a corsi misti. Intorno ai
corsi poi spesso si sviluppano attività socializzanti e di tempo libero. Molti
insegnanti non solo danno prova di creatività, inventando moduli didattici e
modalità d’insegnamento non convenzionali, agganciate alla vita quotidiana e
alle sue necessità, ma diventano punti di riferimento e consulenti anche per
molte esigenze extrascolastiche: ricerca di lavoro, casa, orientamento nei
meandri della burocrazia. Qui prendono forma le basi dell’integrazione e della
convivenza auspicabile.
Il possesso della lingua è un fattore
basilare dell’integrazione degli immigrati, una risorsa essenziale per trovare
e migliorare il lavoro, interagire con i servizi pubblici (pensiamo alla
sanità), seguire i figli nell’apprendimento, costruire relazioni con la
popolazione locale. Ma la lingua è nello stesso tempo anche un fattore di
emancipazione, come insegnava don Milani: il mezzo per potersi esprimere in
pubblico, partecipare alla vita sociale, diventare attori a pieno titolo della
società italiana.
Per provare a uscire dall’integrazione
subalterna che il mercato del lavoro e tanta parte della società italiana
sembra richiedere agli immigrati. Le scuole d’italiano sono anche scuole di
cittadinanza, nel duplice risvolto del termine: scuole in cui insieme alla
lingua, s’imparano le regole della vita in comune in un nuovo paese, e in cui
la lingua è il veicolo della presa di parola e della partecipazione
democratica.
Dal punto di vista degli interessi
nazionali, invece di lamentare la mancata integrazione, l’incapacità di
comunicare, la formazione di società parallele e separate, sarebbe fondamentale
estendere l’esperienza delle scuole d’italiano là dove ancora non esistono o
non sono sufficienti, dotarle di sedi e attrezzature più adeguate quando ne
sono carenti, aumentare il numero di volontari coinvolti per rendere più
efficace e personalizzato l’insegnamento.
Più scuole d’italiano, più immigrati
accolti e formati, più esperienze di successo educativo, significano meno
spaesamento, meno emarginazione, meno derive devianti, meno rischi di banlieues nelle
nostre città.
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