del tempo ordinario
Am
8,4-7; Sal 112 (113); 1Tm 2,1-8; Lc 16,1-13
Commento
di Ester Abbattista
Per
quanto riguarda la riflessione di oggi, vorrei fermarmi su un’unica frase del
testo evangelico: «Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose
importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose
importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi
affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi
vi darà la vostra?».
La
prima parte del discorso esprime una regola fondamentale dell’ermeneutica
ebraica, definita con l’espressione ḳal wa-ḥomer, ripresa
anche nel mondo giuridico di matrice latina con l’espressione a minori
ad maius, dal minore al maggiore, o meglio dal particolare all’universale.
Nel nostro caso la questione riguarda la fedeltà: se una persona è abitualmente
fedele, se l’essere fedele è una sua caratteristica costante, un suo habitus (per
usare un termine caro a san Tommaso), questa persona sarà sempre fedele, sia
nelle piccole cose, in cose che contano poco, che nelle grandi cose, che
contano di più.
La
stessa cosa però avviene, come mette in guardia il Vangelo, anche al contrario,
cioè anche la disonestà può rappresentare un’attitudine costante, in un certo
senso uno stile di vita che caratterizza l’agire della persona sia nelle
piccole cose che nelle grandi. Ovviamente tutto ciò non ha un carattere
deterministico e c’è sempre la possibilità dell’eccezione o di un cambiamento.
Ma qui l’accento è posto sulla «costanza», sulla «fedeltà» sia in senso
positivo che negativo: si può essere costanti sia nell’onestà
che nella disonestà, ed è proprio questa costanza/fedeltà che
viene messa in gioco. La costanza/fedeltà è un valore che,
dice il testo, può essere diretto verso qualcosa di giusto, di onesto, o verso
qualcosa di ingiusto, di disonesto. Il punto allora è: si può salvare questa
costanza/fedeltà e allo stesso tempo cambiare la direzione verso cui è rivolta?
Secondo
la frase evangelica che abbiamo preso in esame sì: «Se dunque non siete stati
fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera?», cioè quella
stessa fedeltà verso la «ricchezza disonesta» può diventare garanzia di fedeltà
verso la ricchezza vera. Ciò che avviene nel racconto evangelico nel modo di
agire dell’amministratore o del fattore (a seconda di come si voglia tradurre
il termine greco oikonomos), è proprio questo cambiamento di
«direzione» del proprio essere «fedele».
Se
prima la sua «fedeltà» era rivolta verso se stesso – molto probabilmente
arricchendosi nel caricare il debito che i debitori avevano verso il suo
padrone con un sovrappiù di interesse che entrava nelle sue tasche –, una volta
scoperto il suo gioco, agisce radicalmente all’opposto, questa
volta dimostrando una fedele costanza nella diminuzione del
debito. Diminuzione che può avere due risvolti positivi per «la ricchezza
altrui», dato che ridurre il debito è non solo eliminare l’eventuale interesse
che forse egli stesso aveva aggiunto per sé, ma è permettere che quello stesso
debito, una volta ridimensionato, possa essere davvero restituito. E la
restituzione del debito è una condizione importante per la salvaguardia e il
mantenimento del capitale (ricchezza) del padrone.
Tale
cambiamento di «verso» è di fatto motivo di lode del padrone: «Il padrone lodò
quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza». E la
scaltrezza – sarebbe meglio tradurre con «saggezza» – consiste
proprio nell’aver cambiato il «verso» della sua fedeltà.
Da
tutto questo possiamo però trarre anche un’altra riflessione che è anche
racchiusa nella frase finale del passo evangelico: «Nessun servitore può
servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si
affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la
ricchezza». La fedeltà, come abbiamo detto all’inizio, è una
qualità che per sua natura esprime costanza, ma anche radicalità, esclusività:
non si possono fare gli interessi di un altro e nello stesso tempo arricchirsi
proprio attraverso quegli stessi interessi. Così non si possono abbracciare due
vie, due modi di vivere, due logiche diverse in contemporanea.
Se
al centro del mio agire, del mio interesse ci sono «io» e il mio benessere (la
mia ricchezza) non c’è possibilità che nello stesso centro ci sia l’«altro» e
il suo benessere, e questo vale dal particolare all’universale, cioè da
chiunque sia questo «altro», dall’altro inteso come un’«altra» persona,
all’«Altro» in senso assoluto, Dio stesso.
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