sabato 20 settembre 2025

FEDELE NEL POCO E NEL MOLTO

 


XXV domenica 

del tempo ordinario

Am 8,4-7; Sal 112 (113); 1Tm 2,1-8; Lc 16,1-13

 

Commento di Ester Abbattista

 Il Vangelo di questa domenica è uno dei passi più studiati e più controversi, una vera e propria vexata quaestio per gli esegeti. Per chi volesse avere un’idea delle problematiche interne al testo con un background sulla tradizione ebraica può leggere un mio recente contributo pubblicato su Biblica 105(2024) 4, 574-583 (https://doi.org/10.2143/BIB.105.4.3294177).

Per quanto riguarda la riflessione di oggi, vorrei fermarmi su un’unica frase del testo evangelico: «Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?».

La prima parte del discorso esprime una regola fondamentale dell’ermeneutica ebraica, definita con l’espressione ḳal wa-ḥomer, ripresa anche nel mondo giuridico di matrice latina con l’espressione a minori ad maius, dal minore al maggiore, o meglio dal particolare all’universale. Nel nostro caso la questione riguarda la fedeltà: se una persona è abitualmente fedele, se l’essere fedele è una sua caratteristica costante, un suo habitus (per usare un termine caro a san Tommaso), questa persona sarà sempre fedele, sia nelle piccole cose, in cose che contano poco, che nelle grandi cose, che contano di più.

La stessa cosa però avviene, come mette in guardia il Vangelo, anche al contrario, cioè anche la disonestà può rappresentare un’attitudine costante, in un certo senso uno stile di vita che caratterizza l’agire della persona sia nelle piccole cose che nelle grandi. Ovviamente tutto ciò non ha un carattere deterministico e c’è sempre la possibilità dell’eccezione o di un cambiamento. Ma qui l’accento è posto sulla «costanza», sulla «fedeltà» sia in senso positivo che negativo: si può essere costanti sia nell’onestà che nella disonestà, ed è proprio questa costanza/fedeltà che viene messa in gioco. La costanza/fedeltà è un valore che, dice il testo, può essere diretto verso qualcosa di giusto, di onesto, o verso qualcosa di ingiusto, di disonesto. Il punto allora è: si può salvare questa costanza/fedeltà e allo stesso tempo cambiare la direzione verso cui è rivolta?

Secondo la frase evangelica che abbiamo preso in esame sì: «Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera?», cioè quella stessa fedeltà verso la «ricchezza disonesta» può diventare garanzia di fedeltà verso la ricchezza vera. Ciò che avviene nel racconto evangelico nel modo di agire dell’amministratore o del fattore (a seconda di come si voglia tradurre il termine greco oikonomos), è proprio questo cambiamento di «direzione» del proprio essere «fedele».

Se prima la sua «fedeltà» era rivolta verso se stesso – molto probabilmente arricchendosi nel caricare il debito che i debitori avevano verso il suo padrone con un sovrappiù di interesse che entrava nelle sue tasche –, una volta scoperto il suo gioco, agisce radicalmente all’opposto, questa volta dimostrando una fedele costanza nella diminuzione del debito. Diminuzione che può avere due risvolti positivi per «la ricchezza altrui», dato che ridurre il debito è non solo eliminare l’eventuale interesse che forse egli stesso aveva aggiunto per sé, ma è permettere che quello stesso debito, una volta ridimensionato, possa essere davvero restituito. E la restituzione del debito è una condizione importante per la salvaguardia e il mantenimento del capitale (ricchezza) del padrone.

Tale cambiamento di «verso» è di fatto motivo di lode del padrone: «Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza». E la scaltrezza – sarebbe meglio tradurre con «saggezza» – consiste proprio nell’aver cambiato il «verso» della sua fedeltà.

Da tutto questo possiamo però trarre anche un’altra riflessione che è anche racchiusa nella frase finale del passo evangelico: «Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza». La fedeltà, come abbiamo detto all’inizio, è una qualità che per sua natura esprime costanza, ma anche radicalità, esclusività: non si possono fare gli interessi di un altro e nello stesso tempo arricchirsi proprio attraverso quegli stessi interessi. Così non si possono abbracciare due vie, due modi di vivere, due logiche diverse in contemporanea.

Se al centro del mio agire, del mio interesse ci sono «io» e il mio benessere (la mia ricchezza) non c’è possibilità che nello stesso centro ci sia l’«altro» e il suo benessere, e questo vale dal particolare all’universale, cioè da chiunque sia questo «altro», dall’altro inteso come un’«altra» persona, all’«Altro» in senso assoluto, Dio stesso.

 Il Regno


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