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giovedì 2 marzo 2023

GOVERNATI DAL DUBBIO


 Le nostre vite governate dal dubbio

- di Massimo Recalcati

Un padre di famiglia mite e profondamente legato al proprio figlio, marito devoto e responsabile, animato da interessi intellettuali ampi, compresa una attività come volontario in una associazione umanitaria, chiede di essere ascoltato per alcuni suoi comportanti nei confronti del figlio adolescente che gli risultano inspiegabili. A fare traboccare il vaso un episodio recente: mentre la famiglia era riunita a tavola, il figlio rovescia involontariamente dell’acqua sul padre che reagisce d’impulso colpendolo con violenza. Si tratta di una reazione che sorprende per primo il padre stesso che non ha mai fatto ricorso alla violenza fisica nell’educare il proprio figlio. Quando mi racconta il fatto appare visibilmente angosciato nel descrivere la rabbia che lo ha spinto contro la propria volontà a infierire sul ragazzo. A quel punto, ancora più angosciato, si chiede se forse quello che lui ha sempre creduto di essere – un padre amorevole e un marito irreprensibile – sia soltanto una maschera, una facciata, una semplice impostura. È un dubbio che lo scuote lasciandolo quasi senza fiato.

«Ma chi sono io veramente?» si chiede alla fine della seduta. Questa scena mostra inequivocabilmente come quello che noi crediamo di essere non necessariamente coincide con quello che siamo veramente. Si tratta del capovolgimento del celebre cogito ergo sum di Cartesio col quale si inaugura l’età moderna. Diversamente da quello che pensava il grande filosofo francese, per il mio paziente non esiste alcuna roccia stabile sotto la sabbia corrosiva del dubbio. Conosciamo invece la roccia di Cartesio: se l’esistenza di ogni cosa può essere sottoposta al rigore devastante del dubbio, l’atto del pensiero non può invece che confermare la certezza che chi pensa esiste al di fuori di ogni ragionevole dubbio: cogito ergo sum. Ma questa identità viene scossa alle sue fondamenta dalla psicoanalisi. È l’obiezione che il mio paziente rivolgerebbe a Cartesio: non è vero che io sono quello che penso di essere! Tutto il contrario! Io non credo di essere quello che penso di essere.

Questo è il problema!

 Freud ricorda le tre grandi umiliazioni inferte al narcisismo umano. La prima risalirebbe a Copernico e sarebbe una “umiliazione cosmologica”: la Terra non può pretendere di essere il centro dell’universo perché è solo un pianeta tra gli altri che ruota attorno al Sole. La seconda a Darwin e sarebbe una “umiliazione biologica”: l’essere umano non proviene da essenze sovrasensibili, ma dai primati lungo la catena dell’evoluzione. Infine la terza umiliazione, quella “psicologica”, sarebbe quella inferta dalla psicoanalisi. Mentre prima di Freud si riteneva che il cogito fosse una proprietà della coscienza e che la sua certezza fondasse indubitabilmente l’esistenza del soggetto, con Freud il cogito viene scalzato dalla sua posizione di comando: «L’io non è padrone nemmeno in casa propria». Quali sono le enormi implicazioni di questa terza umiliazione narcisistica? La ragione filosofica tradizionale riteneva di aver trovato con Cartesio la roccia sotto la sabbia del dubbio e del suo potere corrosivo. Possiamo dubitare di tutto ma non del fatto che è il nostro pensiero che sta dubitando. Freud mostra invece che non è affatto detto che siamo davvero quello che pensiamo di essere. Egli apre uno squarcio tra l’essere e il pensiero rompendo la loro coincidenza. La nostra esperienza, non solo clinica ma anche quotidiana, conferma ampiamente l’esistenza di questa sfasatura. Nella scena del padre che colpisce il proprio amato figlio l’essere e il pensiero si dividono. Il dubbio non è ciò che chiude la divisione ma ciò che la apre: «Sono davvero quello che penso di essere?». È questa l’umiliazione che Freud infligge al narcisismo umano: l’io non è affatto la roccia che persiste sotto la sabbia del dubbio, ma diventa, a sua volta, una realtà enigmatica. Chi sono io? Io sono davvero quello che credo di essere?

Questa frattura tra l’essere e il pensiero rende l’animale umano strutturalmente agitato dal dubbio. È la tragedia dell’Edipo di Sofocle che crede di essere il re di Tebe, il marito di sua moglie, il padre dei suoi figli e invece scopre di essere un regicida–parricida, il figlio di sua moglie e il fratello dei suoi figli. Ma è anche la tragedia dell’Amleto di Shakespeare che pur sapendo – diversamente da Edipo – la verità sulla morte di suo padre, non riesce a liberarsi dalle catene del dubbio che paralizzano la sua azione. La frattura che scinde l’essere e il pensiero e dalla quale scaturisce il dubbio non è l’espressione di una patologia, ma costituisce l’essere umano come un essere strutturalmente diviso, il quale, diversamente dalla vita animale, non è mai ciò che crede di essere.

È proprio per questa ragione l’amore dei cani ci appare unico: diversamente dall’amore umano, un cane ci ama davvero per quello che siamo.

Nondimeno, la psicoanalisi mostra che non è il dubbio ma la sua assenza ad essere profondamente patologica. Lo sosteneva Lacan quando affermava che se un pazzo con un colapasta in testa crede di essere un re è evidentemente un pazzo, ma è assai più pazzo un re che crede di essere un re. Non è forse questa la malattia mentale per eccellenza? Credersi, al di là di ogni dubbio, un io?

Una delle intuizioni più profonde della psicoanalisi consiste nel ritenere che la forma più grave di malattia mentale si generi non per difetto di identità, ma per una sua ipertrofia. È un rovesciamento del senso comune: non è l’indebolimento dell’io a generare malattia quanto il suo rafforzamento.

L’attaccamento al nostro io impedisce infatti l’apertura caratteristica del movimento dubbio. Irrigidendo la coincidenza tra l’essere e il pensiero, questo attaccamento istituisce confini, distinzioni rigide, manichee, promuove segregazioni. Non a caso i grandi paranoici (pensiamo a Hitler come paradigma) si mostrano assolutamente privi di dubbi. La propria identità diviene la sola misura della verità. È quello che vediamo emergere anche nell’età della giovinezza. Per un verso il dubbio diviene protagonista corrodendo le credenze ingenue dell’infanzia. È la profonda affinità che sussiste tra l’adolescenza e il pensiero critico. Per un altro verso però esiste una tendenza dei giovani ad identificarsi con un ideale eroico di purezza che in nome del dubbio vorrebbe poter spegnare ogni dubbio. È questo il punto dove l’adolescenza diviene patologica attribuendo fuori di ogni dubbio ai propri genitori o alle vecchie generazioni la responsabilità del loro disagio. È il manicheismo che può contraddistinguere la giovinezza, dal quale sorge ogni forma di fanatismo. È quella certezza assoluta di essere nel giusto che può armare la mano del giovane terrorista senza farla tremare: nessun dubbio, nessuna indecisione, nessuna pietà. Non avere dubbi sull’essere nel giusto può giustificare l’uso della violenza. In questo senso la psicoanalisi resta erede della grande tradizione socratica.

Conoscere se stessi significa disfare la credenza paranoica di essere quello che pensiamo di essere. Per questa ragione la forma massima dell’ignoranza non è tanto quella di ignorare il sapere – non sapere tutto il sapere – ma quella di pretendere di sapere, fuori di ogni dubbio, la verità.

Se la psicoanalisi è laica è proprio perché ignora le verità ultime che invece ogni pensiero dogmatico pretenderebbe di conoscere e possedere. Il fanatismo dogmatico esige, infatti, l’estirpazione sistematica del dubbio. Da qui scaturisce il suo fascino inquietante: possedere la verità significa ricucire quella frattura tra l’essere e il pensiero che invece ci segue come un’ombra.

È avere una risposta su tutto senza però accorgersi che questa non è la forma massima della sapienza, ma quella massima dell’ignoranza.

 Repubblica

 

 

 

 

 

 

lunedì 3 gennaio 2022

LA FILOSOFIA PUO' RENDERE CIECHI ?

 

Recalcati: "A Cacciari e Agamben dico: la filosofia può rendere ciechi"

Il più noto psicanalista italiano: nella polemica sui vaccini hanno piegato la realtà agli interessi dell’ideologia. 

 

Intervista di Davide D’Alessandro

 

È il più noto psicoanalista italiano, inutile girarci intorno. Chi lo adora, chi lo detesta. Il successo, diceva qualcuno, bisogna farselo perdonare e Massimo Recalcati non sembra affatto preoccupato del rumore di fondo che accompagna il suo cammino. Continua a studiare, a scrivere, a parlare. Gli ho chiesto, direbbe Lacan, di marcare l’inizio, di marcare quest’anno che si annuncia, come i precedenti, molto complesso. E sono tanti, forse troppi, ad affrontare la complessità con superficialità e insensatezza, a ridurla a mera contrapposizione di dati, mentre si muove altro dentro l’essere umano. Chiedo a lui, che ha percorso gli studi filosofici prima di approdare alla psicoanalisi, a lui che era stato costruito per una carriera filosofica prima di inciampare, prima di essere costretto a guardare dentro la propria sofferenza e a seguire un’altra strada, una lettura del presente e una parola per un futuro consapevole.

 Con quale spirito entri nel 2022? Come immagini sarà?

“Una luce. Siamo stati al buio per troppo tempo. Adesso abbiamo bisogno di luce. Gli esseri umani sono fatti per nascere e non per morire, diceva Hannah Arendt. Noi siamo fatti per la luce e non per il buio. Eppure, sappiamo anche che il buio esiste e può cadere sulle nostre teste in ogni momento. In questi tempi così duri ho citato spesso Franco Basaglia. Diceva che la cura consiste nel riuscire a fare qualcosa del buio. Bene, io penso che noi abbiamo bisogno di vedere la luce nel buio. Mi auguro dunque più luce per l’anno che inizia”.

 La pandemia ha segnato profondamente gli ultimi due anni. Hanno parlato tutti, molto meno chi vede i pazienti quotidianamente. Non pensi che sia mancata la parola della psicoanalisi? Quale può essere la sua parola su questa tragedia epocale?

“Io ho parlato. Non ho disdegnato né di parlare pubblicamente, né di scrivere su quanto ci è accaduto. Non è un compito della psicoanalisi quello di provare a dire qualcosa di ciò che lascia senza parole? D’altronde, non è proprio vero che gli psicoanalisti in generale non abbiano preso la parola. I collegamenti da remoto imposti dalla pandemia ci hanno riunito da Londra a Buenos Aires, da Barcellona a Città del Messico, da Roma ad Atene, per parlare di ciò che stava avvenendo. Due i grandi temi: come rispondere al trauma quando esso è collettivo, quando travolge intere popolazioni? Che contributo ha potuto dare e può dare la psicoanalisi? Come si è poi modificata la nostra pratica? Che cosa cambia nello svolgere una seduta da remoto rispetto all’incontro in presenza? Si tratta solo di un’emergenza o di un’emergenza che ha reso più elastico il nostro setting? Ci sono state anche numerose iniziative cliniche nella città per mettere la psicoanalisi a disposizione di chi ha sofferto di più la pandemia. Penso al personale sanitario all’inizio della pandemia. Ma penso anche ai lutti rimasti sospesi e poi ai sintomi che hanno avuto in questi due anni un’amplificazione evidente: depressioni, attacchi di panico, somatizzazioni, dipendenze. Per non parlare dei giovani. Insomma, non condivido il quadro che tu rappresenti, anche se esiste nella psicoanalisi una tendenza a isolarsi dal mondo, dalla vita della polis. È del resto una tendenza che ho contrastato sin da giovane”. 

 Attraverso alcuni libri continui il confronto con il testo biblico. Guardi a quelle pagine come rifugio, come speranza o come insegnamento perenne?

“Chi conosce, anche superficialmente, il testo biblico sa che in primo piano non c’è l’esperienza del rifugio, ma quella dell’esodo, del deserto, dell’erranza, della spada che separa. Io non sono un biblista ma un semplice lettore della Bibbia; però, sono anche uno psicoanalista e i grandi temi che attraversano la Bibbia sono gli stessi che attraversano la psicoanalisi: il rapporto tra le generazioni, la fratellanza, l’odio e l’invidia, l’idolatria, il narcisismo, il senso dell’esistenza, la sofferenza, il rapporto tra Legge e desiderio, la vacuità dell’essere, la libertà, la vita e la morte. Dunque, io non pretendo in nessun modo di psicoanalizzare il testo biblico, ma ritrovo in quel testo le radici stesse della psicoanalisi. L’ebreo Freud e il cattolico Lacan, quanto meno nella sua formazione giovanile, sono stati del resto lettori molto appassionati della Bibbia”.

 Sei stato giustamente critico con le posizioni assunte sulla pandemia da alcuni intellettuali. Perché è così difficile comprendere la strada giusta da seguire?

“La filosofia può rendere ciechi. Pensa a come Heidegger ha letto l’avvento terrificante del nazismo. Perché ha potuto commettere un errore simile? Perché la filosofia rischia sempre di cadere nell’ideologia, se per ideologia intendiamo, come ricorda Arendt, far prevalere l’Idea sulla realtà. È quello che è accaduto a Heidegger: l’idea del destino nichilistico dell’Occidente, della storia come oblio dell’essere, ha voluto vedere nel nazismo una possibilità di ritornare a pensare gli dei, la verità come aletheia, la resistenza di fronte al narcisismo umanistico dell’Occidente. Un delirio ideologico. Lo stesso che ha accecato pensatori di grande spessore, come Agamben e Cacciari. Con il riferimento ideologico alla biopolitica, al biopotere, allo stato di eccezione, eccetera, hanno piegato la realtà agli interessi dell’ideologia. A questo aggiungerei, se mi permetti, una dose non irrilevante di vanità. Chi ha contatto quotidiano con la sofferenza sa che ci sono momenti in cui la parola deve poter subordinarsi alle ragioni della scienza medica. Nessuno, tra coloro che si sono sottoposti a interventi chirurgici importanti, ha mai questionato sulla ratio dell’intervento che ha dovuto subire. Ci siamo affidati al discorso medico come ci affidiamo ai piloti quando saliamo su un aereo. Aggiungerei anche la miseria di un certo giornalismo, soprattutto di destra, che ha cavalcato questa crisi in modo indegno perseguendo un mero obiettivo di visibilità. È lo stesso che abbiamo visto nei talk show, dove la presenza proliferante dei no vax è servita a mantenere l’audience. Che pena!”.

 Come ti sono parse le parole e le azioni della politica?

“Penso che la politica sia stata travolta da quanto accaduto. Non poteva essere altrimenti. I commentatori twitter del nostro tempo hanno dato fiato ancora una volta all’antipolitica, mantenendosi nella posizione innocente dell’anima bella che giudica senza mai interrogare la propria responsabilità. In senso stretto, una svolta importante credo sia stata quella del governo Draghi, non solo dal punto di vista della sua efficacia operativa. Si trattava di restituire dignità alle istituzioni, travolte, prima che dal covid, da anni di qualunquismo antipolitico e di cultura populista. Il grillismo non poteva salvarci da questa crisi che esigeva innanzitutto un recupero del valore delle istituzioni, che esso ha contribuito più di ogni altro movimento a denigrare pesantemente. È stata la cultura che ha preceduto il Covid: da una parte la purezza del popolo, della vita, dall’altra il marcio e la corruzione delle istituzioni. Il populismo ha contrapposto, in modo ideologico, la vita alle istituzioni, come se fossero il bene e il male. La crisi legata alla pandemia ci ha invece insegnato che senza le istituzioni, penso anche all’istituzione della famiglia e a quella ospedaliera, non solo a quelle governative, le nostre vite sarebbero finite malissimo. La politica ha oggi il compito primario di recuperare la dignità delle istituzioni, di mostrare che le istituzioni non sono la faccia sporca della vita, ma il suo fondamento”.

 Non tutti hanno la stessa resilienza al dolore e al trauma. I casi di depressione grave vengono dati in aumento esponenziale. C’è chi si adopera per contenere questo dramma? Credi che si debba fare di più?

“Noi facciamo l’impossibile. ‘Jonas’ ha aperto le sue porte a tutti, abbattendo come fa da anni le tariffe delle sedute e creando anche servizi domiciliari di assistenza psicologica. Notiamo che molti giovani sono in difficoltà. Ma non evochiamo, per carità, la definizione di ‘generazione covid’. Non ci sarà nessuna ‘generazione covid’, almeno che gli adulti non la facciano esistere. I nostri figli hanno vissuto un’esperienza durissima, che ha lasciato ferite. Non c’è dubbio. Ma identificare qualcuno con la sua ferita è fomentare l’alibi torbido della vittima. L’etica della psicoanalisi va in tutt’altra direzione; noi crediamo che il soggetto sia sempre responsabile. Non ovviamente di ciò che gli accade, ma di quello che fa di ciò che gli accade. Sarà importante anche l’azione della scuola: gli insegnanti dovranno accompagnare i nostri figli in questa difficile elaborazione del trauma. A questo serve, in fondo, la cultura, non credi? A rendere formative anche le esperienze che appaiono solo negative. Anzi, proprio quelle esperienze sono, come ogni educatore sa bene, le più formative”.

 Il caro amico Enzo Bianchi, dal suo nuovo eremo, continua ad accogliere tutti e a parlare con parole d’amore. Come hai vissuto la sua triste vicenda?

“Male. Malissimo. È motivo di grande pena per me. È stato il naufragio di una delle esperienze cristiane più interessanti del nostro paese. Un disastro. Credo vi sia stato, come ho anche scritto pubblicamente, un problema di eredità. Il carisma del padre non ha accettato di tramontare; i figli volevano la sua pelle. Difficile poi ritornare a pronunciare parole come dialogo, perdono e riconciliazione”.

 Su cosa stai lavorando e quale sarà il prossimo libro che ci regalerai?

“Due mesi fa è uscito un libro, di cui hai anche scritto e a cui tengo molto. Un libro che interroga un grande tema della riflessione di Lacan, quello relativo all’inesistenza del rapporto sessuale. Esiste il rapporto sessuale? Questa domanda non avrebbe senso se non in un ambiente lacaniano. La tesi che sviluppo è che il cinismo di Lacan coglie una verità della struttura: i Due non potranno mai fare Uno. Ma che questa impossibilità, come del resto anche Lacan accenna, è la radice della possibilità dell’amore. Il desiderio amoroso, infatti, non mira affatto all’unificazione, a rendere possibile il rapporto sessuale, a fare o a essere Uno con l’Altro, ma a riconoscere il segreto inassimilabile dell’Altro. Dunque, è proprio il non rapporto a rendere possibile l’amore come rapporto. Non è forse sempre così? Cosa amiamo se non il segreto irraggiungibile dell’Altro? Anche su questo la Bibbia avrebbe del resto molto da dire. Non a caso gli amanti del Cantico dei Cantici si incontrano all’uscita da un deserto. È ciò che dice anche Lacan: gli amanti sono senza patria, sono due esiliati”.

Nessun autore accetta di svelare il contenuto di ciò che bolle in pentola. Ma qualcosa bolle. Sono certo che presto Recalcati ci servirà la nuova pietanza, dove Bibbia e psicoanalisi, psicoanalisi e Bibbia continueranno a dirci chi siamo, a indicarci le strade possibili da seguire. Il cammino, come la scrittura, continua.

 

Intervista