la coscienza della nostra identità
Non
sono indifferente al significato che ha lo sport per la vita di una persona o,
più ampiamente, per quella di una nazione. E penso che ci sia del vero nella
tesi secondo cui esiste una correlazione tra lo stato di salute globale di un
popolo e le performance dei suoi atleti. Perciò capisco l’entusiasmo con cui
gli italiani hanno festeggiato la vittoria della nostra squadra di calcio nel
campionato d’Europa.
Questo
non mi ha impedito, tuttavia, di avvertire una profonda perplessità nel leggere
i titoli dei giornali che, salvo rarissime eccezioni, salutavano questa
vittoria come un evento che aveva finalmente restituito al nostro Paese la sua
unità e ringraziavano i nostri calciatori e il tecnico Mancini per avere compiuto
un simile miracolo. E, del resto, la celebrazione da parte dei mezzi di
comunicazione non ha fatto che rispecchiare l’emozione collettiva che ha
accomunato la penisola – da Nord a Sud, città e campagna, centri urbani e
periferie, uomini e donne, sostenitori dei partiti “di destra” e aderenti a
quelli “di sinistra” – in un solo immenso grido di gioia per il successo di
Wembley.
Perché
è vero che l’unità di un popolo può nascere solo da esperienze e valori
condivisi. Ciò che mi appare inquietante non è che tra essi vi siano anche
quelli dello sport, il cui significato umano non va sottovalutato, ma che
questi sembrino gli unici ad esserci rimasti per prendere coscienza della
nostra identità di italiani e della reciproca appartenenza che essa implica.
Una
unità difficile
Il
problema, a dire il vero, è di antica data. Nei nostri ricordi di studenti
possiamo probabilmente ripescare le parole di Massimo D’Azeglio all’indomani
dell’unificazione risorgimentale: «Abbiamo fatto l’Italia. Ora si tratta di
fare gli italiani». Un compito che fin dall’inizio si rivelò arduo.
Non solo perché, rispetto al resto d’Europa (con la sola eccezione della Germania), l’unità veniva realizzata molto tardi e doveva riscattare secoli di frammentazione, ma anche per il modo in cui venne gestita, creando fin dall’inizio una profonda frattura fra Nord e Sud, fra Chiesa e Stato, fra le classi dirigenti e quelle subordinate, per non parlare della condizione d’inferiorità mantenuta a lungo dalle donne (ammesse al voto solo nel 1946!). Dopo la dittatura fascista, che aveva dato luogo a una unità imposta con la forza e più apparente che reale, la nascita della Repubblica e la Costituente avevano segnato un passo importante verso una identità nazionale fondata sui valori della democrazia.
Anche se all’iniziale convergenza tra i partiti di ispirazione cattolica, marxista e liberale, subentrò ben presto – in corrispondenza della cosiddetta “guerra fredda” – un clima di forte contrasto, tra la Democrazia cristiana e il Partito comunista (il più forte del mondo occidentale). Ormai svanito o almeno fortemente indebolito, dopo la vana retorica del fascismo, l’ideale patriottico, che aveva dato luogo a un’unità nazionale viziata dalla mancanza di libertà, erano le contrapposte ideologie del cattolicesimo democratico e del comunismo a dividersi gli italiani: don Camillo e Peppone. Al di sotto dei contrasti, restava, però, una base valoriale comune – come del resto si evidenziava nelle vicende di personaggi di Guareschi –, di cui la passione per la partecipazione politica era un indizio. Significativo il dato della percentuale di astenuti nelle elezioni politiche del 1953 – poco più del 6% – , rimasta ancora quasi invariata in quelle del 1968 – 7,1%.
Lo
svuotamento valoriale dalla Prima alla Seconda Repubblica
Ma
intanto il boom economico del dopoguerra, col conseguente avvento del
consumismo di massa, andava producendo profondissime trasformazioni sul
costume e sulla mentalità, determinando, con la secolarizzazione, un «salto in
un vuoto etico» (Scoppola), che colpiva innanzi tutto il mondo cattolico – e
avrebbe, a livello politico, determinato la fine della Dc con la crisi di
tangentopoli –, ma che – in concomitanza con il crollo del comunismo a livello
internazionale – svuotava sempre più anche l’ideologia marxista.
E
così, sulle macerie della Prima, è venuta la Seconda Repubblica, in cui a
contare non erano più né la Patria, né le ideologie, ma i personaggi, in primo
luogo quello di Silvio Berlusconi, e alla base valoriale che in
passato aveva ancora accomunato don Camillo e Peppone si sostituivano, sia a
“destra” che a “sinistra”, un individualismo e un particolarismo
ormai indifferenti al tema politico per eccellenza, quello del bene comune e
della sua interpretazione, ma concentrati piuttosto sulla difesa o la conquista
dei diritti dei singoli. Emblematica di questo crescente
disinteresse per la politica la crescita dell’astensionismo, dal 7% delle
elezioni del 1968 al 27% del 2018, con una differenza di venti punti
percentuali nell’arco di cinquant’anni.
Non c’è da stupirsi se in questo contesto la percezione di una unità nazionale ha lasciato il posto alla lotta per l’affermazione di interessi particolaristici e corporativi, inevitabilmente divisivi. Oppure è stata evocata in una chiave sovranista, che ai valori fondanti di una vera identità popolare, implicanti sempre un’apertura e una solidarietà nei confronti degli altri, sostituisce la ricerca egoistica della sicurezza e del benessere dei soli italiani. Soprattutto di quelli delle regioni più prospere, che stanno cercando – paradossalmente con l’appoggio dei sovranisti! – , di realizzare un’autonomia dalle altre, sia in chiave economica che politica. Così si spiega perché abbiamo dovuto salutare il successo agli Europei di calcio come un decisivo “salvagente” per l’unità nazionale. Ma basta il calcio – o qualunque altro sport – per dare a un popolo la su anima? Più attuali che mai, ritornano le parole di D’Azeglio: l’Italia c’è, ma bisogna “fare” gli italiani.
Ricominciare
dalle idee
Per
questo scopo, non si può partire dalla politica. Se oggi assistiamo alla sua
estrema fragilità – ha avuto bisogno dell’intervento di un deus ex machina non
politico, come Draghi, per ricomporre i cocci di una precaria maggioranza di
governo –, ciò si deve al venire meno di un terreno condiviso di convinzioni e
di valori su cui costruire la casa comune. La storia del dopoguerra, pur con la
sua conflittualità, ci dice che questo non comporta necessariamente
una convergenza ideologica. Richiede però delle idee che, anche se
sottolineando aspetti diversi, consentano però di progettare il futuro
dell’Italia in termini comunitari. Se ognuno cerca solo il suo “particulare
interesse”, come lo chiamava Guicciardini, si resta prigionieri del presente e
contano solo i giochi di potere con cui ogni partito cerca di favorire i suoi
sostenitori.
Da
troppo tempo in Italia la sfera pubblica è dominata dagli slogan dei politici e
dalle rabbiose contestazioni dei social. Bisogna ricominciare a pensare e a
discutere, invece di insultarsi a vicenda, magari cercando di sovrastare, come
avviene in tanti talk-show, la voce dell’interlocutore.
A
questo scopo è di decisiva importanza l’apporto degli intellettuali. Un
populismo sprovveduto e arrogante (di cui vediamo sempre più l’incoerenza) ha
polemizzato contro la “casta” e irriso i “professoroni”, confondendo i
privilegi del potere e l’insostituibile servizio che deriva dalla competenza e
alla riflessione. Ma sarebbe troppo facile sostenere che è per questa ondata di
disprezzo che gli intellettuali sembrano aver perduto nell’Italia di oggi sia
il loro ruolo critico che quello costruttivo. Il punto decisivo è
che è venuta meno l’idea, presente in una millenaria tradizione risalente a
Socrate, che essi hanno una missione. Che non sono, cioè, i cortigiani dei
palazzi del potere, ma i testimoni di orizzonti di senso, in cui la comunità
può riconoscersi. Solo recuperando questa consapevolezza essi potranno
riprendere la loro essenziale funzione nella nostra società.
Però
non si tratta di delegare a una categoria la ricostruzione della nostra
identità nazionale. Ognuno può e deve fare la sua parte nel recupero di valori
condivisi in grado di fondare la nostra convivenza civile. Forse si dovrebbe
per questo rileggere, a cominciare dalle scuole, la nostra Costituzione, che a questi
valori si ispira, per cercarne l’attualizzazione nel nostro attuale contesto
storico.
Altrimenti,
bisognerà attendere, per la scoperta della nostra identità di italiani, i
prossimi campionati del mondo…
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